Senza riforme ci si tiene un Paese che non funziona o che funziona per sempre meno cittadini. Chi ha rendite di posizione e benessere passato da proteggere, migliora la propria situazione relativa. Chi è in difficoltà o fa il suo ingresso nella vita adulta e professionale, si trova invece con crescente rischio di esclusione e restrizione di opportunità. Nel complesso il paese stenta a crescere e aumentano le diseguaglianze.
Abbiamo, quindi, bisogno di riforme per funzionare meglio e questo, in primo luogo, significa consentire a chi è ai margini e ai nuovi entranti di diventare migliori fruitori e produttori di nuovo benessere.
Le riforme con il cacciavite vanno bene quando l’obiettivo è la manutenzione di una macchina che funziona. Possono andar bene per lo stock, ovvero per chi fa già parte degli ingranaggi. Molto meno per il flusso, ovvero per i nuovi entranti. Rischiano in tal caso di rivelarsi interventi ai margini, coerenti con l’idea che le nuove generazioni debbano essere incluse nell’esistente, anziché far parte di un processo di espansione generativa di opportunità con ricadute positive per tutti. Abbiamo bisogno di un approccio diverso se non vogliamo rimanere in fondo a tutte le classifiche sulla partecipazione giovanile.
Ciò che rende il domani diverso dall’oggi sono soprattutto le nuove generazioni. Per rendere il domani migliore di oggi serve allora un riformismo in grado di assegnare ad esse un ruolo centrale nel processo di sviluppo. Non riforme calate dall’alto, ma come parte della maturazione di una visione condivisa di Paese, altrimenti si rischia l’esito del 4 dicembre 2016.
(Il Foglio, pg. IV, all’interno del Dossier “Come ripensare il riformismo in Italia”)