Supponiamo che l’Italia sia un centometrista finora riuscito a mantenere un livello di competitività comparabile con gli altri atleti di punta. Cosa succederebbe, però, se la sua corsia cominciasse ad avere un dislivello maggiore rispetto alle altre e crescente nel tempo? Fuor di metafora, l’Italia dovrà riuscire a generare sviluppo economico, innovazione, benessere sociale, non solo con una popolazione anziana in continuo aumento, ma soprattutto con un indebolimento inedito e accentuato della popolazione in età attiva.
L’Italia è, da tempo, diventata un caso di studio in tutto il mondo per la sua persistente bassa natalità e per gli squilibri generazionali conseguenti. Correva l’anno 2005 quando The Economist, in un ampio servizio dal titolo “Addio, Dolce Vita” scriveva che “Italy’s demographics look terrible”. Veniva sottolineato come con una media di 1,3 figli per donna il Belpaese stesse andando incontro a conseguenze devastanti sulla crescita economica e la sostenibilità sociale.
Il percorso più recente si è poi ulteriormente distinto in negativo. Difficile trovare un paese in cui le nascite negli ultimi quindici anni si siano ridotte con una entità simile alla nostra: da oltre 550 mila a meno di 400 mila. Ciò è dovuto al fatto che il numero medio di figli per donna è rimasto basso ma nel frattempo è entrato in azione un altro fattore, ovvero la riduzione dei potenziali genitori come conseguenza della denatalità passata. E’, appunto, il meccanismo del piano che diventa sempre più inclinato: più passa il tempo, più invertire la tendenza diventa difficile e più gli squilibri demografici vanno ad autoalimentarsi fino a diventare insostenibili.
Questo processo che rende il piano inclinato ha un nome, si chiama “degiovanimento”. Nel dibattito pubblico e nell’azione politica difficilmente però se ne trova traccia. Il cambiamento demografico è di fatto tutto ricondotto all’invecchiamento della popolazione. Questo ha portato a concentrarsi prevalentemente sulle risposte da dare ad una società in cui aumenta il numero di anziani, lasciando ai margini la questione delle implicazioni del degiovanimento, ovvero dell’inedito e consistente indebolimento delle nuove generazioni. Eppure è quest’ultimo processo quello che maggiormente ci distingue rispetto agli altri paesi con cui ci confrontiamo e che maggiormente è destinato a porre vincoli al nostro percorso di sviluppo. Di degiovanimento non se ne parla e anche nella campagna elettorale in corso i temi centrali sono quelli delle pensioni e della salvaguardia delle sicurezze del passato. Nel frattempo i giovani, sempre di meno e sempre più marginali, si trovano a rivedere al ribasso i propri progetti di vita o a esportarli all’estero. La conseguenza è una natalità che, anche dopo l’impatto negativo della pandemia, fatica a mostrare segnali di recupero come illustrato dal presidente dell’Istat al Meeting di Rimini, con conseguenze sempre più evidenti sull’economia reale.
Qualcosa nella direzione giusta si era riusciti a fare con la prospettiva di Next Generation Eu e del Family act. In particolare, l’assegno unico e universale, con il voto unanime in Parlamento, sembrava poter essere l’avvio di un metodo che rinsaldava il paese attorno ad alcune priorità riconosciute e condivise. Si trattava di andare oltre e rafforzarne ulteriormente l’impatto. Il rischio è ora, invece, di tornare indietro, con forze politiche che enfatizzano le contrapposizioni e con priorità rimesse in discussione. Senza ritrovare una visione condivisa e un impego comune sull’investimento verso le nuove generazioni ci troveremo, tornata elettorale dopo tornata elettorale, con un paese sempre più povero, diviso e instabile. Tutte le fasi della vita sono importanti, ma è dal basso che si crea un futuro più solido per tutti.