Nel 1950 L’Italia era il decimo Paese più popolato al mondo, mentre oggi non entra nei primi trenta. Non si tratta più solo di una diminuzione relativa del peso demografico del nostro paese rispetto allo scenario globale, da qualche anno l’Italia è entrata in una fase di diminuzione anche in termini assoluti. Da qui al 2050 la popolazione mondiale salirà di altri due miliardi di abitanti mentre la popolazione italiana si ridurrà, secondo le previsioni Istat ed Eurostat, di oltre un milione e mezzo.
Tale variazione va però letta come l’esito complessivo di due accentuate dinamiche opposte: il consistente aumento della popolazione anziana e la forte diminuzione della componente giovane e adulta. Se L’Italia fosse formata solo da persone di 65 anni e oltre, avremmo una crescita quasi doppia rispetto alla popolazione mondiale nel suo complesso. Per ogni attuale anziano italiano se ne aggiungerà, infatti, un altro mezzo entro il 2050, mentre per ogni abitante del pianeta se ne affiancherà poco più di un quarto. Viceversa si ridurrà in misura inedita – analoga solo all’effetto di grandi epidemie o eventi catastrofici del passato – la popolazione al centro della vita attiva. In particolare, nel 2050 la fascia tra i 40 e i 54 anni si troverà decurtata di circa il 30 percento (pur tenendo conto di continui flussi migratori, senza i quali la perdita sarebbe ancora più grave). Ne consegue meno forza lavoro per sostenere la crescita del paese, il suo sviluppo innovativo e competitivo. Ma nel frattempo continuerà ad aumentare la popolazione più matura, che va ad alimentare una crescente domanda di cura e assistenza. In un paese con alto debito pubblico e con difficoltà già oggi a crescere, la prospettiva di inasprimento degli squilibri demografici rischia di essere fatale.
L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva è uno di quelli monitorati con più attenzione dalle economie avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si produce ricchezza a quello dell’età in cui si assorbono risorse pubbliche per spesa previdenziale e sanitaria. Secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato il peso di chi ha 65 anni e oltre sulla popolazione tra i 20 e i 64, attualmente sotto il 40 percento, salirà fino a circa il 68 percento nel 2050. L’impatto sull’economia e sulla sostenibilità della spesa sociale di tale squilibrio demografico è però accentuato dai criteri di accesso alla pensione e dal numero di effettivi lavoratori tra le persone in età attiva. Facendo sempre riferimento alle stime della Ragioneria Generale dello Stato il numero di pensionati è destinato a salire di quasi tre milioni di persone, a fronte della riduzione di circa un milione e mezzo di occupati. Secondo il recente rapporto Ocse “Working Better with Age”, se si mette chi effettivamente ha un lavoro sul primo piatto della bilancia e nel secondo chi risulta economicamente inattivo o in pensione, il rapporto rischia di diventare di 1 a 1. Si andrebbe, così, a configurare uno degli scenari peggiori al mondo.
Va comunque tenuto presente che a fare la differenza tra l’Italia e gli altri paesi avanzati non è tanto la quantità della popolazione anziana (destinata ovunque a crescere) ma la riduzione della forza lavoro (più accentuata in Italia per la persistente denatalità). Ma questo secondo processo è anche ciò che fa la differenza tra il percorso passato del nostro Paese e la nuova fase in cui è entrato. Se finora l’invecchiamento della popolazione italiana è stato sorretto da una presenza solida nell’asse portante dell’età attiva, nei prossimi anni non sarà più così. In particolare le classi centrali lavorative andranno progressivamente a indebolirsi come mai in passato. Il rischio è di veder indebolire progressivamente il pilastro produttivo del paese per la riduzione della consistenza demografica non compensata da una corrispondente crescita della partecipazione effettiva al mercato del lavoro.
Ma gli effetti sono già in corso, non è necessario aspettare il 2050. All’interno della forza lavoro, la fascia più attiva e produttiva è quella tra i 40 e i 44 anni. Entro l’attuale decade si sposteranno in tale posizione cruciale gli attuali 30-34enni che risultano essere oltre un milione in meno, come evidenzia il report “Un buco nero nella forza lavoro italiana” pubblicato dal Laboratorio Futuro dell’Istituto Toniolo, Quest’ultima classe di età presenta però anche un basso tasso di occupazione (68,4%, dato riferito al 2018), sia rispetto agli altri paesi europei (la media Ue-28 è pari all’80,0%) sia rispetto alle generazioni precedenti alla stessa età. In particolare gli attuali 40-44enni italiani presentavano un tasso di occupazione pari a 74,8% dieci anni fa (quanto avevano 30-34 anni).
La demografia non è un destino ineluttabile, lo diventa se non ci prepariamo per tempo. Soprattutto se non consentiremo ai giovani di essere ben preparati per una lunga vita attiva. Sarebbe, in particolare, un errore fatale pensare che la riduzione demografica delle nuove generazioni nei prossimi anni possa, da un lato, essere meccanicamente compensata dall’aumento del tasso di automazione nel sistema produttivo, e d’altro lato, magicamente far diminuire il tasso di disoccupazione e di inattività giovanile. Se si lasciano sostanzialmente le condizioni del sistema Paese inalterate, l’Italia rischia, invece, di scivolare irrimediabilmente in un circolo vizioso di basso sviluppo, bassa disponibilità di giovani qualificati, bassa innovazione, bassa espansione di nuove opportunità di lavoro e bassa crescita competitiva delle aziende.
Senza un piano che consenta alle nuove generazioni (qualsiasi sia il genere o il luogo di nascita) di diventare parte attiva e qualificata dei processi di crescita del Paese, non solo mancherà l’energia propulsiva nei prossimi anni ma andranno ad accentuarsi squilibri tali da compromettere in modo insanabile il percorso dell’Italia per tutto il resto di questo secolo.