Supponiamo che le nuove generazioni non lavorino e non facciano figli. Che cosa accade? Via via nel tempo l’economia implode, la società si disgrega, la popolazione si estingue. Supponiamo invece di mettere i giovani nelle condizioni di essere ben formati, di esprimere al meglio il proprio potenziale e di realizzare pienamente i propri obiettivi professionali e di vita. Cosa succederebbe? Via via nel tempo l’economia comincerebbe a decollare, la società a rinsaldarsi, la demografia a rivitalizzarsi. L’Italia, ma ancor più il Mezzogiorno, è attualmente una delle aree in Europa più vicine al primo drammatico scenario. Presenta, infatti, uno dei più bassi tassi di occupazione giovanile e una delle più accentuate cadute della fecondità sotto i 30 anni. E’ possibile avere qualche speranza di andare invece verso il secondo scenario? Due dati in questo senso sono incoraggianti. Il primo è il fatto che se il numero di figli realizzati è al ribasso, il valore dato alla famiglia rimane alto e la preferenza è quella di avere almeno due figli. Questo vale, come confermano molte ricerche, anche per le nuove generazioni e le giovani coppie. Il che significa che, dal punto di vista demografico, stiamo dando molto meno di quanto potremmo, vorremmo e sarebbe utile per una crescita più equilibrata. Ci sono quindi margini notevoli per migliorare con le politiche giuste. Il secondo dato incoraggiante è dato dall’impulso che può fornire il capitale umano delle nuove generazioni se ben utilizzato nel territorio d’origine. Attualmente molti giovani decidono di andare all’estero per cercare migliori opportunità di realizzazione. Le esperienze possono essere di vario tipo, ma in molti casi tali ragazzi dimostrano di essere intraprendenti, dinamici, ben preparati e in grado di raggiungere risultati importanti. Di fatto è come coltivare bene un terreno, crescendo e formando i giovani, per poi lasciare che diano altrove i loro migliori frutti. Quantità e qualità delle nuove generazioni vanno quindi rimesse in relazione positiva con le opportunità di sviluppo del territorio. Invertire il circolo vizioso è ancora possibile, ma più si tarda a farlo e più diventa difficile riuscirci. Più i giovani rimangono all’estero più infatti diventa difficile riattrarli. Inoltre il processo di emigrazione si autoalimenta attraverso il trasferimento di informazioni ed esperienze. Rischia di radicarsi inoltre l’idea che rimanere qui significa solo rassegnarsi. E’ questa convinzione che va combattuta attraverso iniziative e politiche efficaci, in grado di ristabilire fiducia nella possibilità di migliorare la propria condizione in un contesto che ti supporta con strumenti idonei.
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Il valore sociale della sharing economy
Qualche mese fa scrivevamo su queste pagine che la sharing economy non è solo una App. E’ molto di più, come ha confermato la terza edizione di “Sharitaly” che si è tenuta la settimana scorsa a Milano e che aveva proprio come sottotitolo “Non solo App. L’economia collaborativa nelle aziende, nelle pubbliche amministrazioni e nel terzo settore”. Scopo di tale manifestazione – promossa da Collaboriamo e da Trailab con il patrocinio del Comune di Milano – è stato quello sia di arricchire il dibattito teorico sulla sharing economy, sia di favorire la crescita concreta dell’economia collaborativa a Milano e in Italia.
Per favorire l’integrazione serve un progetto di crescita comune
In uno stesso quartiere della periferia di Milano abitano due famiglie molto diverse e molto simili. La prima è formata da due coniugi sessantenni in pensione con un figlio unico partito tre anni fa per Londra in cerca di migliori opportunità di lavoro. Per lui non è stato facile all’inizio, ma ora ha trovato un buon impiego e da un anno l’ha raggiunto anche la fidanzata.
Togliendo alle nuove generazioni alla fine perdiamo tutti
L’Italia è uno dei paesi sviluppati più squilibrati dal punto di vista generazionale, con lo svantaggio tutto a discapito dei più giovani. Difficile trovare un altro paese nel quale le nuove generazioni subiscono una combinazione tanto sfavorevole in termini di basso peso demografico, enorme debito pubblico ereditato, carenza di misure di investimento e promozione sociale. Rispetto alla media europea la nostra spesa sociale è infatti maggiormente assorbita dalle voci che vanno a protezione della popolazione anziana, come pensioni e sanità pubblica, mentre destiniamo molto meno alle politiche familiari, alle politiche attive del lavoro e a Ricerca e Sviluppo.
Dalla crisi immobiliare si esce con una nuova idea dell’abitare
Casa e lavoro sono da sempre, ma ancor più oggi, le preoccupazioni principali dei giovani italiani. Su entrambi tali obiettivi sono tramontate le certezze che hanno caratterizzato il percorso di entrata nella vita adulta dei loro genitori. Attraverso il lavoro fisso e l’acquisto di una propria casa venivano poste solide basi attorno a cui costruire la propria vita. Completava il quadro un welfare pubblico ancora generoso e in grado di rispondere a gran parte delle esigenze di protezione sociale. L’Italia cresceva più di oggi e per allargare ancor più la coperta si poteva espandere il debito pubblico. Ora quel mondo non esiste più. Per un po’ si è provato a far finta esistesse ancora, ma con l’entrata nel nuovo secolo la discrasia con la realtà è diventata sempre più evidente. Non è stata tanto la crisi a dare il colpo definitivo, ma la sua durata. Solo infatti con l’entrata nella seconda decade del XXI secolo possiamo dire che l’Italia è uscita dal Novecento, senza però avere ancora ben chiaro dove andare e come arrivarci.