Se la politica non si interessa dei giovani è difficile che i giovani si interessino della politica. Ma se i giovani non si occupano della politica, è difficile che il paese possa cambiare e investire in modo più solido sul proprio futuro.
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Un piano inclinato che penalizza i progetti di vita dei giovani
Supponiamo che l’Italia sia un centometrista finora riuscito a mantenere un livello di competitività comparabile con gli altri atleti di punta. Cosa succederebbe, però, se la sua corsia cominciasse ad avere un dislivello maggiore rispetto alle altre e crescente nel tempo? Fuor di metafora, l’Italia dovrà riuscire a generare sviluppo economico, innovazione, benessere sociale, non solo con una popolazione anziana in continuo aumento, ma soprattutto con un indebolimento inedito e accentuato della popolazione in età attiva.
L’Italia è, da tempo, diventata un caso di studio in tutto il mondo per la sua persistente bassa natalità e per gli squilibri generazionali conseguenti. Correva l’anno 2005 quando The Economist, in un ampio servizio dal titolo “Addio, Dolce Vita” scriveva che “Italy’s demographics look terrible”. Veniva sottolineato come con una media di 1,3 figli per donna il Belpaese stesse andando incontro a conseguenze devastanti sulla crescita economica e la sostenibilità sociale.
Dare più peso ai giovani. Una spinta verso il futuro
Nel mondo in cui viviamo è sempre più indispensabile anticipare i cambiamenti e includere nelle scelte di oggi il benessere di domani. Questo significa non limitarsi a difendere le posizioni raggiunte, i diritti acquisiti, le sicurezze del passato, ma mettersi in sintonia con la realtà che cambia, con attenzione ai nuovi rischi emergenti e alle nuove opportunità da cogliere. Dove ciò non avviene, la società si arrocca in difesa di ciò che si ha timore di perdere – fronte sul quale sono maggiormente propense a schierarsi le generazioni più mature – mentre diventa più debole la capacità di generare nuovo benessere in coerenza con le trasformazioni in atto (fronte sul quale tendono più naturalmente a disporsi le nuove generazioni).
Cinque buoni motivi per prendere sul serio il voto ai sedicenni
Qualsiasi sia stato il percorso passato, qualsiasi siano le difficoltà del presente, il futuro è sempre aperto e mai scontato. Non è solo un fatto demografico, corrispondente all’arrivo di nuove generazioni che prendono progressivamente il posto delle precedenti, ma soprattutto culturale, ovvero di nuovo valore che il diverso sguardo e le diverse sensibilità di chi arriva deve poter essere in grado di portare.
Perché è giusto il diritto di voto ai sedicenni
Qualche giorno prima che venisse rilanciata dal mondo politico la proposta di abbassare di due anni l’età minima per il voto, avevamo sottolineato su queste pagine l’importanza di dar più peso alle ragioni del futuro. Ricordando, in particolare, che «mentre rimane irrisolta la questione di come tener conto dei diritti delle generazioni future (quelle non ancora nate), e mentre continuiamo ad escludere dai referendum e dalle consultazioni elettorali gli under 18 (i coetanei di Greta Thunberg), ci troviamo ad assistere anche alla riduzione stessa dei giovani con diritto di voto». Non possiamo quindi che registrare con favore l’ampia convergenza delle forze politiche verso l’inclusione di sedicenni e diciasettenni nell’elettorato attivo.
Va precisato che tale operazione, in sé, ha costo zero per le casse dello Stato. Chi non ha ancora diciotto anni non potrebbe in ogni caso essere eletto. Inoltre si potrebbe prevedere tale estensione solo per le amministrative. Quest’ultima scelta da un lato risponderebbe alle obiezioni di chi non ritiene che i sedicenni siano abbastanza maturi per occuparsi della complessa politica nazionale, d’altro lato è coerente con il principio no taxation without representation: dato infatti che i sedicenni possono avere un contratto di lavoro e pagare le tasse, è del tutto giusto riconoscere che possano dire la loro su chi utilizzerà le risorse pubbliche per migliorare il quartiere e la città in cui vivono.
Rafforzare il ruolo delle nuove generazioni nelle scelte collettive risponde inoltre, in questo momento storico, a due esigenze. La prima è quella di compensare gli effetti della loro riduzione di consistenza demografica sul peso elettorale, a fronte dell’aumento della popolazione anziana. Un ottantenne può certo nel proprio voto responsabilmente premiare chi investe più sulla produzione di benessere futuro che a protezione delle rendite del passato, ma è anche giusto ritenere che chi avrà più da perdere e da guadagnare sulle conseguenze di medio e lungo periodo delle scelte collettive, ovvero le generazioni più giovani, possa prendersi la maggiore responsabilità nel determinarle. La seconda esigenza risponde al fatto che l’impatto sul futuro delle scelte presenti è maggiore oggi che in passato. Basti pensare alle decisioni che riguardano l’enorme debito pubblico cumulato, l’impatto ambientale, l’innovazione tecnologica, la combinazione tra contratti di lavoro, continuità di reddito e condizioni per una pensione dignitosa.
La riduzione quantitativa delle nuove generazioni, maggiore da noi per la persistente denatalità, si combina poi con la presenza di soglie anagrafiche tra le più alte nelle democrazie occidentali sull’elettorato attivo e passivo. Bisogna avere almeno 25 anni per essere eletti alla Camera e la stessa età per votare al Senato, nel quale chi non ha compiuto 40 anni non può entrare. Dato che le leggi devono passare anche attraverso l’approvazione del Senato, gli under 40 sono di fatto esclusi dalle decisioni finali sulle scelte del Paese.
Non estendere il diritto di voto ai sedicenni e mantenere tali soglie non significa lasciare le cose come stanno, ma accettare il fatto che progressivamente si ridimensioni il peso elettorale dei giovani. In Italia ci sono circa 1 milione e 100 mila sedicenni e diciasettenni. Dal 2000 a oggi gli over 65 sono aumentati di oltre 3 milioni e, prima del 2050, cresceranno di oltre 6 milioni.