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E’ tempo di mettere l’esperienza al servizio dell’innovazione

Non sarà un’impresa facile la guida di Milano nei prossimi cinque anni. Pisapia stesso deve guardarsi dalla sindrome di Lippi, che ritiratosi da ct dopo il successo della nazionale ai mondiali del 2006 si lasciò convincere a tornare sui suoi passi, con esito disastroso. In molti hanno il timore che la Milano di questi ultimi anni somigli alla nazionale che seppe conquistare la coppa del Mondo in Germania: più che l’inizio di una nuova stagione fu solo una felice parantesi. Nei due mondiali successi siamo infatti usciti miseramente al primo turno. Giuliano Pisapia può fare moltissimo a fianco del prossimo sindaco. Si tratterebbe di un segnale culturale di grande rilevanza per un paese come l’Italia che oscilla tra i due estremi della rottamazione e del blocco generazionale. In una società che funziona come dovrebbe, le generazioni cooperano per il comune bene, che in questo caso è la crescita economica e sociale della città. Una collaborazione tanto più  importante per una metropoli in grande trasformazione come Milano.

La politica delle paure è la peggiore minaccia sul nostro futuro

Sono 800 mila i bambini stranieri che frequentano le scuole italiane. Erano meno del 2 percento della popolazione scolastica totale all’entrata in questo secolo e sono ora vicini al 10 percento. Oltre la metà di essi è nata in Italia ma tale dato è in forte crescita, tanto che gli alunni stranieri nativi sul suolo italiano sono quasi due su tre tra chi frequenta le elementari. “Stranieri” non di fatto ma per una legge che impone ad essi di non sentirsi e considerarsi cittadini nell’unico paese che conoscono e nel quale sono da sempre vissuti.  Si può forse discutere sul dare la cittadinanza al momento della nascita, ma è certamente importante riconoscere la non diversità di status nel momento in cui inizia il processo di socializzazione. Varie ricerche mostrano come il concetto di “straniero” – ovvero di diverso da chi vive qui – tra gli alunni delle prime classi delle elementari non sia legato alle origini dei genitori o al colore della pelle, ma solo alla lingua. La differenza tra bambini cittadini e coetanei esclusi da tale riconoscimento la apprendono da noi adulti; è una disuguaglianza che introduciamo noi nei loro occhi.

I diritti del futuro da rimettere al centro

Il divario tra un’Italia che resiste alla crisi e una che è stata lasciata scivolare sempre più ai margini è diventato sempre più visibile negli ultimi anni. Si sono estese le periferie del disagio, non solo urbane ma anche quelle rappresentate da alcune rilevanti componenti sociali che hanno perso progressivamente centralità all’interno dei processi decisionali e di sviluppo nel paese. Più che la recessione, a tener ampio tale divario è il fatto che negli ultimi decenni si è favorito chi aveva vecchie posizioni da difendere rispetto a chi ne aveva nuove da raggiungere; chi godeva di benessere accumulato in passato invece di chi poteva produrre nuovo benessere; i detentori dei  privilegi dell’oggi anziché i cercatori di opportunità di domani. E quando il futuro diventa periferico sono immancabilmente le nuove generazioni a perderci.

Per favorire l’integrazione serve un progetto di crescita comune

In uno stesso quartiere della periferia di Milano abitano due famiglie molto diverse e molto simili. La prima è formata da due coniugi sessantenni in pensione con un figlio unico partito tre anni fa per Londra in cerca di migliori opportunità di lavoro. Per lui non è stato facile all’inizio, ma ora ha trovato un buon impiego e da un anno l’ha raggiunto anche la fidanzata.

I giovani italiani non sono una “generazione perduta”

Nei giovani di ogni epoca è sempre alta la propensione a partire, ad allargare i propri orizzonti. Il “dove si va” e a “fare cosa” è spesso meno importante della spinta in sé ad avventurarsi oltre confini prestabiliti. Non è però mai stato così facile andarsene come oggi. Da un lato, è sempre più riconosciuto che andare a studiare all’estero e fare una esperienza di lavoro in un altro paese arricchisce molto conoscenze, competenze, network e aumenta il senso di autonomia e intraprendenza; tanto che l’Unione europea promuove con programmi specifici la mobilità tra paesi membri. D’altro lato, le difficoltà oggettive che i giovani incontrano nel nostro paese hanno creato un’ampia accettazione sociale del fatto che un neolaureato cerchi migliori opportunità altrove. Se poi si moltiplicano i messaggi negativi sulle prospettive di chi rimane in Italia, l’adozione di una “exit strategy” non può che consolidarsi e ampliarsi. La grande enfasi sulla “generazione perduta” e sui lunghi decenni che serviranno per tornare ai livelli pre-crisi, recentemente ripresa anche dal Fondo Monetario Internazionale, è un efficace invito a partire.
Sulla decisione di emigrare agiscono sia fattori di push che di pull: i primi sono gli elementi negativi che ci si lascia alle spalle, i secondi sono gli aspetti positivi a cui si va incontro. I fattori di pull sono in crescita anche per la maggior propensione delle nuove generazioni a muoversi, oltre che per la maggior facilità a farlo rispetto al passato. A questo si aggiunge l’azione dei fattori di push, particolarmente rilevante in paesi come l’Italia dove le opportunità – non solo attuali ma anche quelle attese nel breve e medio periodo – vengono percepite come sensibilmente più basse rispetto a gran parte degli altri paesi sviluppati.
Va inoltre considerato che le migrazioni sono un processo che, una volta messo solidamente in moto, si autoalimenta attraverso il meccanismo delle “catene migratorie”: più giovani se ne vanno e più coetanei saranno portati a fare tale scelta, sia perché è una esperienza sempre più comune tra i propri amici e conoscenti, sia perché chi si trova già all’estero diventa punto di riferimento per informazioni pratiche e primo appoggio logistico. Su questi meccanismi contano sempre di più anche le nuove tecnologie e il web. Viene utilizzato spesso il termine Expat per indicare i giovani espatriati, proprio per distinguerne atteggiamento e caratteristiche rispetto alle emigrazioni del passato. Un frutto di questa diversità è la crescita esponenziale di siti ed app di Expat e per (potenziali) Expat, che stanno mutando il modo di partire e di stare nel mondo.
L’enfasi sulla “generazione perduta” oltre che esagerata è quindi, a ben vedere, sbagliata. Non sono i giovani che si perdono ma è l’Italia che li perde. Più adeguato è invece parlare di “generazione smarrita”, ma nel senso di chi sta cercando la propria strada e fa fatica a trovarla nel nostro paese. Con il rischio quindi di diventare anche una “generazione dispersa”, non solo e non tanto in senso geografico, ma più nell’accezione di energia non usata in modo efficiente per produrre cambiamento e sviluppo. Se vogliamo che l’Italia nei prossimi anni cresca – evitando che la profezia del Fondo monetario internazionale si autoadempia – è questo rischio che va soprattutto evitato.