Il mondo è in grande mutamento sotto l’impulso dei cambiamenti demografici. In particolare, l’aumento della longevità porta ad una continua espansione della fase anziana, mentre la riduzione della natalità va a ridurre in modo inedito la consistenza delle nuove generazioni.
Le persone di 65 anni e oltre prima della transizione demografica erano meno del 5%. Oggi su scala globale i livelli sono doppi ed entro il 2050 si arriverà a triplicare. L’Europa si trova già con un dato intorno al 20%. Prima della transizione il numero medio di figli per donna era attorno o superiore a 5. Attualmente è meno della metà. La grande maggioranza dei Paesi presenta oggi una fecondità pari o sotto la soglia di 2, quindi insufficiente a garantire un adeguato ricambio tra generazioni.
Se l’aumento della componente anziana è un processo destinato a continuare lungo il secolo, la popolazione in età attiva non necessariamente è condannata alla riduzione.
Nel caso, infatti, che la fecondità si stabilizzi attorno ai 2 figli per donna, il vertice della piramide demografica andrebbe comunque progressivamente ad alzarsi, ma con base e parte centrale che rimarrebbero solide e stabili. È la discesa sotto tale soglia che alimenta squilibri accentuati che, se non gestiti per tempo, rischiano di diventare insostenibili.
Le attuali differenze tra aree del mondo rispetto alle dinamiche della popolazione in età attiva si devono ai diversi tempi della transizione demografica e a quanto basso viene portato e mantenuto il livello di fecondità nella fase più avanzata della transizione.
Molto interessante è, in questo senso, il confronto tra Cina, India e Africa, le tre aree maggiormente in grado di condizionare il percorso della popolazione mondiale. Attualmente presentano un’analoga entità della popolazione, attorno a 1,4 miliardi.
Europa e Nord America: fine del “dividendo demografico”
Nel 1975, quando venne creato il G7, la demografia di Europa e Nord America (che esprimono, come ben noto, 6 membri su 7) era ancora consistente. La popolazione di tale area si trovava complessivamente poco sopra i 900 milioni di abitanti: un dato vicino al valore della Cina, mentre l’India era a circa due terzi di tale valore e l’Africa non arrivava alla metà. Inoltre, avendo iniziato prima la transizione demografica, Europa e Nord America si trovavano con un sensibile vantaggio in termini di “dividendo demografico”, ovvero nella fase di alta e crescente incidenza della componente che maggiormente contribuisce allo sviluppo economico. La percentuale della fascia 15-64 era vicina al 65% e oltre la metà (il 33%) si trovava nella classe di età più attiva e produttiva, quella tra i 25 e i 49 anni (Figura 1).
A livello mondiale quest’ultima classe (quella centrale nella produzione di ricchezza e sostenibilità sociale) non arrivava al 29%, con Cina, India e Africa posizionate tutte sotto. Un vantaggio che Europa e Nord America hanno mantenuto fino all’ingresso del nuovo secolo ma che nel corso dell’attuale verrà progressivamente eroso: nel periodo dal 2000 al 2035 il dato è destinato, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, a scendere dal 37% al 31%.
Cina, India e Africa: chi avanza e chi arretra
La Cina è il Paese che mostra il percorso più anomalo. La riduzione drastica delle generazioni più giovani che si produce con la politica del figlio unico (avviata nel 1979), a fronte di una popolazione anziana ancora molto bassa, ha spinto verso l’alto in modo accentuato la fascia in età lavorativa. Ne è derivato un grande impulso all’economia. La fase con dividendo demografico particolarmente favorevole si è però esaurita nei primi decenni di questo secolo, con la progressiva entrata in età attiva delle generazioni nate dopo la politica del figlio unico. Con quasi altrettanta rapidità osservata nella fase di aumento si è aperta ora una fase di riduzione che preoccupa molto il Governo di Pechino, passato dall’imporre una severa restrizione delle nascite ad essere uno dei più impegnati a sostenerne oggi la ripresa.
Diverso il percorso dell’India, che con un andamento meno drastico di riduzione della feconditàpresenta attualmente un livello attorno ai due figli per donna. La percentuale di popolazione in età attiva mostra una crescita più lineare che continuerà anche nei prossimi decenni, arrivando a superare sia il dato dei paesi occidentali che quello della Cina. Nei primi 35 anni di questo secolo l’incidenza della fascia 25-49 salirà dal 32% al 38%, mentre la Cina scenderà da oltre il 40% al 33% (Figura 1).
L’Africa, soprattutto nella parte sub-sahariana, presenta tutt’ora livelli di fecondità elevati, che mantengono la popolazione under 25 nettamente prevalente. Il peso della fascia tra i 25 e i 49 anni è comunque in crescita arrivando nei prossimi dieci anni quasi a convergere con il dato di Europa-Nord America, per poi portarsi stabilmente sopra nel resto del secolo.
Produttività: il secondo dividendo demografico
I Paesi nella fase più avanzata della transizione demografica, conclusa la finestra favorevole del “dividendo demografico”, si trovano con la sfida di dover generare sviluppo e benessere su basi e condizioni completamente diverse rispetto al passato. Dovendo nel contempo confrontarsi con aree del mondo in rafforzamento quantitativo della fascia centrale adulta.
Da un lato le economie mature avanzate devono evitare che i livelli di fecondità scendano su valori troppo bassi e, assieme, compensare con adeguati flussi migratori l’indebolimento eccessivo della popolazione in età attiva, dall’altro lato devono strategicamente puntare a rendere più efficiente l’uso della componente attiva migliorando occupazione e produttività.
La spinta alla crescita economica di una popolazione in cui si vive sempre più a lungo, in cui migliorano le condizioni di salute, in cui cresce la quota di chi ha elevata formazione, in cui aumentano le opportunità legate alle nuove tecnologie, corrisponde a quello che viene indicato come “secondo dividendo demografico”. Per cogliere positivamente gli aspetti qualitativi del secondo dividendo – in sintonia con le prospettive della transizione verde e digitale – è necessario rafforzare le competenze avanzate, l’investimento in ricerca, sviluppo e innovazione, la valorizzazione piena del capitale umano sul versante sia maschile che femminile.
I Paesi maggiormente in crisi demografica nell’area dell’Asia orientale stanno, in particolare, puntando molto su ricerca e sviluppo. Giappone e Corea del Sud sono anche ai vertici della percentuale dei giovani che arrivano alla laurea. Nella stessa Cina l’accesso all’educazione terziaria è cresciuto sensibilmente negli ultimi decenni. Tali Paesi presentano però divari maggiori rispetto alla media dei Paesi OCSE tra occupazione femminile e maschile.
Varia è la situazione all’interno dell’Europa. Vi si trovano Paesi con basso gap occupazionale di genere, alta quota di laureati e di investimento in ricerca e sviluppo, come i Paesi scandinavi, ma anche contesti con tutti e tre tali indicatori posizionati su livelli tra i più bassi nei ranking OCSE (in particolare alcuni paesi del Sud e dell’Est Europa).
In questo quadro l’Italia risulta essere uno dei Paesi con maggior riduzione in corso della popolazione in età attiva e più debole investimento sulla presenza qualificata giovanile e femminile nella forza lavoro. È quello che maggiormente rischia, da un lato, di perdere – con la transizione demografica – le condizioni quantitative che favorivano la crescita in passato senza cogliere, dall’altro, le opportunità di generare nuovo sviluppo – in coerenza con la transizione verde e digitale – facendo leva sui fattori qualitativi che migliorano occupazione e produttività.