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Giovani “senza” e la domanda di una nuova politica

Sono stati vari, come da tradizione, i temi toccati dal Presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno. Ha ricordato che nel 2018 festeggeremo il settantesimo anniversario della Costituzione. Ha espresso solidarietà per chi vive in condizioni disagiate nelle aree colpite dai recenti terremoti o ha perso congiunti in attentati e altri eventi tragici. Ha fatto cenno a questioni di rilevanza internazionale (dal clima al nucleare). Ha inoltre sottolineato che nel marzo 2018 si terranno nuove elezioni, da affrontare con partecipazione, fiducia e spirito costruttivo.
I punti su cui l’azione politica dovrà aumentare la sua capacità di risposta sono tre, richiamati in passaggi cruciali del discorso del Presidente Mattarella: i giovani, il lavoro, il futuro. Si tratta di tre ingranaggi chiave per il benessere comune, che da troppo tempo girano però in senso negativo. Siamo un paese “senza giovani”, “senza lavoro”, con il rischio di trovarci con un futuro molto al di sotto delle nostre potenzialità e lontano dai nostri desideri.
Siamo, più degli altri paesi, “senza” giovani perché le nostre politiche passate – senza un aggiustamento di successo di quelle recenti – ci hanno fatto scivolare in un percorso di accentuata denatalità che nel tempo ha via via eroso la consistenza delle nuove generazioni. Ma siamo “senza” giovani anche perché meno sostenuti e incoraggiati nei loro percorsi di partecipazione attiva nel mondo del lavoro e nella realizzazione dei propri progetti di vita. Di conseguenza gli under 30 italiani, rispetto ai coetanei del resto d’Europa, di meno riescono ad avere una occupazione, a formare una famiglia e ad avere figli. Chi ha un lavoro, come documentano i dati Ocse, si trova spesso con retribuzione inadeguata e poca valorizzazione nelle aziende del proprio capitale umano. Chi forma un proprio nucleo familiare, come evidenziano i dati Istat, si trova con un rischio di povertà sensibilmente peggiorato rispetto alle classi di età più mature.
L’Italia è complessivamente un paese in grandi difficoltà, che ha risentito in modo pesante dell’impatto della crisi economica. Al centro di tali difficoltà sta il particolare indebolimento dell’asse “giovani” e “lavoro”. L’azione degli ultimi governi e l’uscita dalla fase acuta della recessione hanno sinora prodotto risultati modesti su tale asse cruciale per la crescita e il benessere del Paese. La percentuale di giovani che dopo la fine degli studi non riescono a inserirsi in modo efficace nel mercato del lavoro (i cosiddetti NEET) continua infatti a trovarsi su livelli record in Europa, con un divario cresciuto nel tempo rispetto ai paesi più avanzati. Questa condizione produce conseguenze negative persistenti, non solo in ambito professionale e previdenziale, ma anche sui tempi di transizione alla vita adulta e sul processo di formazione di una propria famiglia. Erode il “futuro” dei giovani ma anche quello del Paese che rischia di trovarsi con coorti di giovani meno consistenti e più deboli in ingresso nell’età attiva, mentre più che altrove aumenta la popolazione anziana e in condizione di fragilità.
Nessun paese può fondare la costruzione di un futuro solido sulle rinunce e lo schiacciamento in difesa delle nuove generazioni, tanto più in un mondo che cambia rapidamente e richiede capacità di innovazione da trasformare in crescita inclusiva. Ma più si lasciano i giovani ai margini, più aumentano anche frustrazione e risentimento, sfiducia nelle istituzioni e nei partiti. Il “senza” della politica sta a monte delle contraddizioni di un paese che viaggia usando le nuove generazioni come ruota di scorta anziché come motore.
A marzo 2018 si terranno le elezioni. I nati nel 1999 (ma anche tutti gli altri giovani) aspettano ancora una chiamata, non quella alle armi ma alla costruzione di un nuovo futuro per il Paese. C’è qualche partito o movimento in grado di formulare in modo credibile, convincente e coinvolgente tale chiamata? Se nessuno ci riuscirà sarà tutto il Paese a perdere.

Crisi delle nascite, un macigno sul nostro futuro

La fecondità oscilla in Europa da valori attorno ai due figli in media per donna a valori poco sopra un figlio. Quando rimane persistentemente bassa (più vicina a uno che a due figli), il calo delle nascite diventa progressivamente riduzione nelle età giovanili e successivamente erosione della popolazione al centro della vita attiva (asse portante della crescita economica e della sostenibilità del sistema di welfare).

Due casi interessanti da confrontare sono Francia e Italia. I due grandi paesi presentano livelli simili di longevità, livelli simili di preferenze riproduttive, ma dinamiche molto diverse sulla fecondità realizzata. Francesi e italiani partono a vent’anni con un analogo numero di figli desiderato (entrambi poco sopra ai due, come indicano i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo), ma i primi, nel corso della loro vita, riescono sostanzialmente a raggiungere l’obiettivo, mentre i secondi si trovano progressivamente a rinviare e a rivedere al ribasso le proprie scelte.

La conseguenza è che: a) gli italiani hanno in media il primo figlio dopo i 30 anni, ovvero quando i francesi stanno in media per avere già il secondo, b) il nostro tasso di fecondità totale (pari a 1,34) è circa un terzo sotto il loro (1,96).

Il confronto indica due cose. Che i maggiori squilibri demografici tra i due paesi (figura 1) sono da ricondurre soprattutto alle diverse dinamiche della natalità (che ci portano ad avere oltre 6 milioni di under 35 in meno) e che i più bassi valori italiani non sono da imputare a un più basso desiderio di formare una famiglia con figli. Gli squilibri a livello di popolazione stanno, quindi, soprattutto nella differenza tra quanto si vorrebbe realizzare e quello che effettivamente si riesce a fare nei progetti di vita individuali. E quella differenza è lo spazio di azione delle politiche, carenti e occasionali in Italia e ben mirate e solide in Francia. Insomma il divario nasce da un approccio culturale, a monte, con opportuni strumenti a sostegno delle scelte individuali e di coppia, nel mezzo, da cui derivano i comportamenti riproduttivi, a valle.

Approccio cultuale e servizi fanno la differenza

Sulle differenze a valle abbiamo già detto. L’approccio diverso a monte ha a che fare con l’idea, più presente in Italia, che i figli siano un costo privato dei genitori, contro la convinzione, più consolidata in Francia, che le nuove generazioni siano un bene collettivo su cui investire in modo solido a vantaggio di tutto il paese. Coerentemente, il sistema di tassazione francese rende meno gravosi i costi dell’allevamento di un figlio. Il loro “quoziente familiare”, in particolare, consente di calcolare l’imposta non solo in relazione al reddito complessivo, ma anche in funzione delle persone a carico di quel reddito.

Il sostegno sul versante economico alle famiglie con figli risulta nel complesso più generoso, mentre in Italia risulta sia più debole che più frammentato (una selva di assegni, detrazioni, bonus) e alla fine anche più inefficiente e iniquo, ovvero meno in grado di aiutare davvero le famiglie e ridurre le diseguaglianze di partenza.

La proposta di Matteo Renzi di un bonus figli di 80 euro (per famiglie con minori) può essere utile solo se è alla base di un progetto più ampio di razionalizzazione e maggior stabilità delle misure a favore delle famiglie (nella prospettiva di un “assegno universale unico” come previsto da un disegno di legge in discussione in Parlamento).

Oltre agli aiuti monetari – che vanno soprattutto razionalizzati e meglio mirati – la differenza con la Francia e altri paesi con fecondità meno sofferente, la fanno i servizi. Quello che va potenziato sono soprattutto strumenti che mettono demografia ed economia in relazione virtuosa tra di loro, grazie a un welfare attivo che aiuti a riconnettere lavoro e scelte di vita. In particolare, la carenza di politiche attive (a cominciare da servizi per l’impiego efficienti) contribuisce a far scivolare molti giovani nella condizione di Neet (o a mal collocarsi nel mondo del lavoro), con il conseguente rinvio dell’autonomia dai genitori e della formazione di una propria famiglia. Non è un caso se siamo uno dei paesi con maggior crollo della fecondità under 30 e maggior rinvio del primo figlio. Quando poi arriva il primogenito, le coppie italiane si scontrano con carenti politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia, in particolare con un meno diffuso e meno accessibile (per costi e orari) sistema di servizi per l’infanzia (il tasso di copertura italiano è la metà di quello francese). Non vale solo per il lavoro dipendente, come confermano le richieste di “Donne Impresa” di Confartigianato.

L’impegno a rendere più solido il futuro

Misure di questo tipo dovrebbero diventare la priorità non solo per la denatalità, ma anche per ridurre le diseguaglianze e per una più solida crescita del paese. Consentono, infatti, ai cittadini di realizzare meglio i propri obiettivi di vita e alle famiglie con figli di proteggersi dal rischio di povertà. Ma aiutano anche a contenere gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, a renderne più sostenibili i costi e a rafforzare la crescita economica aumentando la platea (in particolare nuove generazioni e donne) di chi è attivo e produce ricchezza nel paese.

Ma per andare in questa direzione ci vuole coraggio, che è quello di non promettere nessun euro in più alle pensioni (semmai rendere al suo interno la spesa più efficiente ed equa) e investire tutto quello che serve per rendere più solido il paese con le nuove generazioni. C’è qualche forza politica pronta a prendersi questo impegno?

QUI L’ARTICOLO PUBBLICATO SU LA VOCE

I giovani scoraggiati cui l’Italia deve dare un futuro

L’Italia ha grande necessità di crescere, di trovare un proprio solido percorso di sviluppo in questo secolo. Siamo finora riusciti a farlo meno delle altre economie avanzate, dovremmo invece crescere di più per non sprofondare sotto il peso combinato dell’enorme debito pubblico e dell’accentuato invecchiamento demografico. Per uno sviluppo competitivo abbiamo bisogno soprattutto di nuove generazioni ben preparate, efficacemente presentate all’interno del mercato del lavoro, al meglio inserite ad ogni livello del sistema produttivo, in particolare nei settori più dinamici e innovativi. Detto in altro modo, le condizioni del Paese rendono ancora più vitale e strategico investire sulle opportunità per i giovani. Lo stiamo facendo? A parole forse, ma molto meno con i fatti.
Nel corso della recessione è cresciuto enormemente il tasso di disoccupazione giovanile. Abbiamo assistito anche ad una penosa rincorsa a minimizzarne la portata affermando che in fondo si trattava solo di under 25 che non riuscivano a trovare lavoro in un’età in cui dovrebbero solo studiare. Non ci siamo accorti che i Paesi che crescevano più di noi investivano fortemente proprio sugli under 25, potenziando sia formazione generale, sia percorsi tecnici, sia l’orientamento scolastico e professionale, favorendo soprattutto una commistione fertile tra imparare e fare. Non è allora un caso che presentino minori tassi di abbandono precoce degli studi e più alta occupazione, non solo per gli under 25 ma, per estensione, in tutta la fascia giovane-adulta.
I dati recentemente presentati alla seconda edizione del Convegno internazionale “Neeting” organizzato da Fondazione Cariplo, Istituto Toniolo e Università Cattolica, sono impietosi nel mostrare quanto siamo rimasti indietro rispetto alle condizioni per produrre crescita con le nuove generazioni.
Per effetto della denatalità passata, abbiamo meno under 35 rispetto al resto d’Europa, ma anziché compensare tale contrazione aumentando l’occupabilità delle nuove generazioni, ci troviamo a sprecare maggiormente il loro potenziale. L’indicatore principale che l’Unione europea utilizza come misura di tale spreco è quello dei NEET, acronimo inglese che indica chi è in stallo tra non studio e non lavoro. L’Italia già prima della crisi presentava un’incidenza di tale fenomeno maggiore rispetto al resto d’Europa (18,8% contro 13,2% in età 15-29). Nel complesso dell’Unione la percentuale di Neet è oggi sostanzialmente tornata su quei livelli. Il dato italiano, dopo ha raggiunto nel 2014 un picco pari al 26%, è sceso al 24% nel 2016. L’andamento positivo sembra continuare nel corso del 2017, ma in modo meno deciso e più incerto rispetto agli altri paesi. Tanto che, se prima della crisi le regioni del Nord Italia si trovavano sotto l’incidenza media europea, ora anch’esse (salvo la provincia autonoma di Bolzano) si trovano tutte tristemente sopra.
L’uscita dalla fase più acuta della crisi e l’azione del programma “Garanzia giovani” appaiono quindi aver finora prodotto risultati limitati. Il motivo va cercato nella debolezza di tutto il processo di transizione scuola-lavoro in Italia. A valle c’è un sistema produttivo che offre basse opportunità e valorizza poco il capitale umano dei giovani, spingendo i più qualificati ed ambiziosi ad andare all’estero. Va aggiunta poi la carenza delle politiche attive nel nostro paese, che non aiuta ad alzare al punto più alto domanda e offerta di lavoro. Secondo i dati più recenti del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, meno del 10 percento di chi ha una occupazione tra i 20 e i 35 anni dichiara di averla trovata attraverso il canale formale dei servizi per l’impiego. A monte, poi, ci sono tutte le fragilità del sistema formativo. I giovani italiani si trovano alla fine del percorso di istruzione con meno competenze spendibili e più vaghe conoscenze di come funziona il mercato del lavoro rispetto ai coetanei europei. Sempre secondo i dati del “Rapporto giovani” solo un intervistato su tre pensa che la scuola sia utile a capire com’è e come evolve il mondo del lavoro. La stessa alternanza scuola-lavoro va considerata una misura teoricamente utile, ma è stata avviata senza un serio programma di valutazione di quanto (in che misura, per chi, a quali condizioni) tale esperienza sta davvero potenziando le competenze trasversali degli studenti.
In sintesi, più degli altri paesi stiamo mandando in ordine sparso una generazione a scontrarsi con i rischi del lavoro che manca, invece di attrezzarla per cogliere al meglio le opportunità del lavoro che cambia. Con l’elevato debito pubblico e l’accentuato invecchiamento della popolazione, sprecare il talento e le energie delle nuove generazioni è più di una colpa, è un errore fatale per le prospettive di crescita e sviluppo del nostro paese.

Nemmeno gli immigrati frenano il crollo dei nati nel Mezzogiorno

Nei prossimi decenni il Mezzogiorno potrebbe conoscere un declino della popolazione di proporzioni mai verificatesi nell’era moderna. È sufficiente osservare l’andamento delle nascite in tale territorio a partire dal 1960 per rendersi conto di questo crollo verticale. Negli anni ’60 nascevano al Sud in media 400.000 bambini all’anno, 280.000 negli anni ’80, appena 175.000 nell’ultimo quinquennio (2011-2016), e il futuro è ancor meno roseo secondo le ultime previsioni Istat (144.000 nati al 2030).

L’Italia senza culle che può salvarsi grazie agli immigrati

L’immigrazione non è troppa se si guarda alla componente regolare (quella nettamente prevalente) e alle necessità di crescita (non solo demografica) del nostro Paese. Anzi, è meno di quanto avremmo teoricamente bisogno per compensare gli squilibri autoprodotti dall’accentuata denatalità. Possiamo anche decidere che non vogliamo immigrati e loro discendenti sul nostro territorio, ma è bene aver presente le implicazioni che ne derivano. Un modo per acquisire consapevolezza è quello di vedere come sarebbe oggi la nostra popolazione se non ci fossero stati flussi con l’estero. Per costruire tale scenario ipotetico facciamo coincidere i nati 50 anni fa con i cinquantenni di oggi, i nati 49 anni con i 49enni di oggi, e così via. Nel secolo scorso le nascite straniere erano una quota molto esigua sulle nascite totali, quindi i dati forniti da tale scenario – limitandoci alla fascia 15-50 anni – restituiscono un ritratto sostanzialmente fedele della popolazione italiana attuale se, appunto, le frontiere fossero rimaste chiuse dalla seconda metà degli anni Sessanta ad oggi. I valori ottenuti ci dicono che i 50enni sarebbero ora quasi un milione, i 40enni meno di 800 mila, i 30enni poco più di 550 mila, e ferme attorno a tale livello anche le classi ancor più giovani. Si tratta, di fatto, di un dimezzamento generazionale in 20 anni.

Qual è stato l’impatto dell’immigrazione? Se prendiamo la popolazione realmente residente oggi in Italia e la confrontiamo con lo scenario teorico precedente vediamo che la popolazione dei 40enni si alza su valori abbastanza vicini al dato dei 50enni. Il crollo, invece, delle nascite nei decenni successivi, in particolare dalla seconda metà degli anni Settanta, risulta molto maggiore rispetto all’azione di compensazione fornita dall’immigrazione. Nello specifico, i 35enni, circa 620 mila senza immigrazione, sono invece oggi 735 mila grazie ai flussi di entrata dall’estero. Quest’ultimo valore risulta, però, non solo ben sotto agli attuali 40-50enni, ma anche inferiore rispetto al dato dei 60enni. I 30enni salgono, con il contributo degli stranieri residenti, attorno a 650 mila. Nonostante ciò la perdita risulta pari a uno su tre rispetto ai cinquantenni, e rimangono inoltre sotto anche agli attuali 70enni. Ancor peggiore la situazione degli under 30.

Se guardiamo alle dinamiche ancor più recenti, ovvero all’andamento della natalità negli ultimi anni, si nota come i figli dei residenti stranieri abbiano consentito di contenere la caduta delle nascite italiane ma è altresì vero che il loro apporto risulta sempre più insufficiente. Nonostante tale contributo il 2016 è stato, del resto, l’anno con il record negativo di nati in Italia dall’Unità ad oggi.

Questi dati, nel complesso, mostrano come con frontiere chiuse gli squilibri demografici risulterebbero oggi molto più accentuati, ma evidenziano anche come l’immigrazione sia rimasta largamente al di sotto rispetto a quanto teoricamente servirebbe per riequilibrare la composizione per età della popolazione italiana.

Questo deficit demografico, prodotto dalla denatalità e solo parzialmente compensato dai flussi migratori netti, rischia di pesare negativamente sul nostro futuro più del debito pubblico. Oggi non ne abbiamo chiara percezione, per l’effetto della crisi economica che ha ridotto i posti di lavoro, ma ancor più perché l’asse centrale del mondo produttivo è ancora composto dalle generazioni quantitativamente molto consistenti dei 40-50enni. Nel corso dei prossimi due decenni, però, i copiosi 50enni diverranno pensionati 70enni, mentre i demograficamente scarsi 30enni (e ancor meno 20enni) andranno via via ad occupare le posizioni centrali del mercato del lavoro. Chi vuole chiudere le frontiere deve dire come gestirà questo tracollo della popolazione attiva e il consistente aumento di anziani inattivi (che assorbiranno risorse per pensioni, assistenza privata e sanità pubblica). Nel contempo bisognerà far tornare a crescere le nascite e l’occupazione femminile, investendo ancor più di quanto fatto sinora sugli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Ma gli effetti del rialzo delle nascite sul rinforzo delle età lavorative li vedremo tra vent’anni. Se non vogliamo scivolare in condizioni ancora peggiori è fondamentale agire subito, ma nel frattempo serve anche altro. Non si può prescindere dall’aumentare occupazione giovanile ed età al pensionamento, ma il punto centrale sarà l’indebolimento progressivo dell’asse portante della nostra economia, quello costituito dalla popolazione tra i 35 e i 49 anni. Tale fascia è attualmente quella con più alta occupazione e più alta produttività. Difficile pensare di potenziarla senza attrarre nuova immigrazione. La demografia si ferma qui. “Quale” immigrazione e “come” includerla efficacemente nel nostro modello sociale ed economico è questione che riguarda la politica.

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Popolazione italiana in età 15-50. Confronto tra situazione attuale e teorica nel caso di zero migrazioni nette (coincidente con le corrispondenti nascite italiane da 50 a 15 anni fa)  

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Nascite in Italia per cittadinanza

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