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Che sconfitta un Paese salvato dai nonni

Gli anziani hanno due vantaggi particolarmente rilevanti rispetto al resto della popolazione: il tempo e una pensione sicura. I giovani spesso hanno il tempo ma poche certezze sul lato economico. Gli adulti, se sono disoccupati possono avere tempo ma non un reddito certo, se invece sono occupati, magari con figli piccoli, possono avere buone condizioni economiche ma molto poco tempo. Quello che in passato avevano di più giovani e adulti era semmai la salute, ma oggi sessantenni e sessantenni sono in grande maggioranza in buone condizioni fisiche.

Rispetto, poi, agli altri paesi avanzati, gli anziani italiani si distinguono per due aspetti importanti. Il primo è la longevità: più alto è da noi il numero di persone che arrivano in età anziana e più a lunga vi rimangono. Il secondo è la più intensa solidarietà all’interno della famiglia e il più forte legame tra genitori e figli. Molto più che nel resto del mondo sviluppato anziani e figli adulti italiani tendono ad abitare in stretta vicinanza, con frequenti contatti e flussi di aiuto reciproco. Esiste un’ampia disponibilità al mutuo sostegno all’interno delle reti familiari che va tipicamente dai membri delle generazioni più vecchie a quelli più giovani, finché regge la salute dei primi. Dal lato pubblico avviene invece l’opposto. Nel nostro paese i trasferimenti sono più sbilanciati a sfavore delle generazioni più giovani. Se ne trova chiaro riscontro nella spesa sociale: destiniamo più della media europea verso voci che vanno a beneficio delle generazioni più anziane, in particolare per pensioni e sanità, mentre stiamo molto sotto su politiche attive per il lavoro, a favore dell’abitazione e contro l’esclusione sociale. Ma bassi sono anche gli investimenti in formazione terziaria, in ricerca e sviluppo, in misure di conciliazione tra lavoro e famiglia. Questa attenzione a beneficio degli anziani è confermata anche dal recentissimo accordo tra Governo e Sindacati che ha portato ad aggiungere sei miliardi in tre anni per le pensioni. Se si fosse trattato di una revisione della spesa pensionistica nella direzione di renderla più efficiente ed equa, consentendo di dare di più ai pensionati più poveri ma riducendo corrispondentemente i privilegi dei coetanei che ricevono molto più di quanto hanno versato, non ci sarebbe nulla da eccepire.  Ma non è quanto è avvenuto e il rischio che questa misura pesi sulle generazioni più giovani è alto. E’ bene tener presente che, secondo i dati Istat, oggi il rischio di povertà assoluta di un under 35 con famiglia è più del doppio rispetto ad un over 65. Il nostro welfare pubblico continua ad essere uno dei più carenti verso le nuove generazioni, con la necessità dei giovani di dover ricorrere maggiormente alla famiglia di origine come ammortizzatore sociale: si rimane più a lungo a vivere con i genitori e si torna più frequentemente  a vivere con loro finito un contratto di lavoro o dopo un fallimento matrimoniale. Per molte famiglie in difficoltà economica la pensione di un genitore anziano può diventare un fondamentale punto di sostegno. Ma anche coppie in condizioni normali possono avere maggior necessità dell’aiuto dei genitori anziani rispetto agli altri paesi. Se gli asili nido mancano o hanno orari poco flessibili o hanno costi eccessivi, l’aiuto dei nonni diventa indispensabile. Ma anche quando d’estate non ci sono le scuole o quando c’è uno sciopero degli insegnanti o dei mezzi pubblici o semplicemente quando c’è da fare una commissione in posta, il nonno può semplificare fortemente la vita.

Ma può funzionare un paese così? Un paese che compensa le proprie inefficienze pubbliche con la privata messa a servizio permanente ed effettivo dei nonni? Un paese che fa dipendere dalla disponibilità dei nonni la decisione di avere o meno un figlio? Un paese che rende meno drammatici i rischi di povertà delle famiglie solo con la pensione di un proprio membro? E quando i nonni non ci sono, sono lontani o non in buona salute?

La grande rilevanza che hanno assunto i nonni è certo una dimostrazione del loro valore ma anche di quanto il nostro paese abbia adottato negli ultimi decenni uno schema di welfare difensivo. Una difesa che va a discapito sia delle opportunità delle nuove generazioni – non fornite di strumenti adeguati per spingersi in attacco – sia della piena valorizzazione della fase della vita che va dai sessanta agli ottanta, un’età che può essere molto appagante se vissuta senza vincoli di ruolo.

In particolare, non è vero che dove maggiori sono i servizi pubblici per le famiglie con figli piccoli si indebolisce la relazione tra generazioni. Avviene anzi il contrario. Dove il ricorso ai nonni è una scelta e non un obbligo, le relazioni tendono ad essere più diversificate e appaganti, con reciproco beneficio sia per i nonni che per i nipoti. Gli studi su questo campo mostrano come le ricadute siano positive sia sul benessere emotivo che sulle competenze sociali e cognitive per entrambi. Detto in altre parole, un’Italia che funziona meglio e non dipende troppo dai nonni, aiuta anche i nonni a vivere meglio la propria vita, senza eccesso di vincoli ma con il piacere di poter dare il proprio libero contributo alla cura e alla crescita delle nuove generazioni nella forma che preferiscono.

Come rispondere al declino demografico

I dati pubblicati dall’Istat ufficializzano la conclusione di una lunga fase di crescita della popolazione italiana. Nei primi decenni del secondo dopoguerra siamo aumentati soprattutto perché facevamo molti figli, in grado di compensare persino l’alto numero di espatri. Tale effervescente fase demografica tocca l’apice a metà anni Sessanta e si esaurisce negli anni Settanta. Nel 1977 il numero medio di figli per donna scende sotto la soglia di due, per poi inabissarsi sotto uno e mezzo nel 1984. A partire dagli anni Ottanta il saldo migratorio da negativo inizia a virare verso valori positivi aprendo una nuova fase in cui la diminuzione della popolazione italiana viene più che compensata dagli ingressi dall’estero. Le previsioni Istat, con base 2011, mettevano comunque in conto che ad un certo punto l’immigrazione non sarebbe più bastata ad alimentare la crescita totale. Questo sarebbe però dovuto accadere molto più in là, attorno al 2040, non già nel 2015. Il motivo dell’anticipazione del declino è da attribuire all’impatto particolarmente severo della crisi economica in un paese con una demografia già da tempo in sofferenza. I fattori negativi si sono inaspriti e quelli positivi si sono raffreddati: le nascite sono crollate ai livelli più bassi di sempre, le iscrizioni all’anagrafe dall’estero si sono ridimensionate, le cancellazioni verso l’estero sono lievitate. Inoltre, anche la fecondità delle donne straniere è scesa sotto i due figli per donna.

Quello che però preoccupa non è tanto essere qualche migliaio in più o in meno. Ciò che dobbiamo guardare con attenzione ed affrontare, con maggiore e rinnovata capacità che in passato, sono gli squilibri generazionali, che interagiscono con quelli sociali e territoriali. La riduzione delle nascite sottrae popolazione dal basso: rende meno consistenti le generazioni più giovani mentre la popolazione anziana continua ad aumentare ed anzi accresce il suo peso relativo. Gli over 65 di cittadinanza italiana non hanno infatti subito alcuna riduzione nel corso del 2015 e continueranno ad aumentare nei prossimi decenni. Mentre i giovani sono già da tempo in progressivo declino, tanto da poterci fregiare oggi d’essere il paese in Europa con più bassa presenza di under 30.

Il declino demografico dell’Italia va quindi soprattutto letto nel rapporto tra generazioni. I giovani sono potenziali produttori di nuova ricchezza che fa crescere l’economia e va a sostenere le politiche sociali. Gli anziani tendono più ad assorbire risorse (per pensioni e spesa sanitaria) che a generane di nuove. Il declino demografico non ci dice solo che i secondi crescono più dei primi e nemmeno che i secondi crescono mentre i primi diminuiscono: ci avverte che abbiamo reso la diminuzione dei giovani ancor più accentuata della crescita degli anziani.

Come se ne esce? Non c’è un’unica soluzione, ma un complesso di azioni che dobbiamo mettere in campo urgentemente e tutte assieme: rinvigorire le nascite, ampliare la partecipazione alla forza lavoro, rendere una sfida positiva il vivere più a lungo, aumentare l’attrazione di qualità e l’integrazione degli immigrati. Sostenere e incoraggiare i percorsi professionali dei giovani e i progetti di formazione di una famiglia consentirebbe al paese di potenziare le sue capacità produttive e generative, limitando anche la fuoriuscita verso altri paesi. Migliorare le misure di conciliazione tra lavoro e famiglia permetterebbe a molte donne (ma anche uomini) di mettere in relazione positiva la scelta di avere un figlio e di essere attive nel mercato del lavoro. Una conciliazione che sempre di più, come conseguenza dell’invecchiamento, riguarda anche la cura degli anziani non autosufficienti. Cruciale è inoltre l’apporto dell’immigrazione, che non può essere quella gestita come emergenza e piegata allo sfruttamento, ma resa parte integrante di un comune modello sociale e di sviluppo. Infine, dobbiamo valorizzare molto di più le opportunità che il vivere più a lungo offre, in ogni campo. Non tanto obbligando le persone a lavorare più a lungo per decreto ma creando le condizioni per mantenersi economicamente e socialmente attivi per scelta e con successo.

Il declino demografico non si vince guardando solo alla quantità, ma promuovendo prima di tutto la qualità della vita delle persone, delle loro relazioni, dell’essere attive ad ogni età, del poter realizzare con successo i propri progetti sia lavorativi che familiari. Tutto questo ha però fortemente bisogno anche di una politica di qualità.

Spiegate ai giovani perché i migranti ci salveranno

Nei prossimi anni il nostro Paese, compresa gran parte d’Europa, si troverà con sempre più persone ritirate dal lavoro che assorbiranno risorse per pensioni e spesa sanitaria, da un lato, e sempre meno persone in età da lavoro, dall’altro. Un quadro che rischia di diventare insostenibile, impoverendo la capacità di produrre crescita e dare solidità al sistema sociale. È possibile rispondere a questi cambiamenti in modo positivo? Sì, a tre condizioni. La prima è favorire una ripresa delle nascite. La seconda è mobilitare nel sistema produttivo le risorse finora sottoutilizzate, in particolare giovani e donne. Il terzo è rinvigorire la popolazione con l’immigrazione, rafforzando le carenze di manodopera in vari settori e rendendo più sostenibile il rapporto tra lavoratori e inattivi.

Chi dice di non volere l’immigrazione dà quindi per scontato il declino dell’Italia. Chi è accogliente accetta invece una sfida delicata e complessa, rispetto alla quale nessun paese ha saputo sinora proporre una soluzione convincente. Se lo scenario di chiusura è impossibile (a meno di togliere l’Italia dal centro del Mediterraneo e spostarla su Marte) è però anche vero che lo scenario di flussi di entrata mal gestiti e di permanenza mal integrata è il peggiore possibile, perché non migliora la crescita e va a inasprire le diseguaglianze.

L’immigrazione è quindi una sfida inevitabile che dobbiamo imporci di vincere. Ma non può essere vinta se prima non viene capita e colta, dalla classe dirigente e dai cittadini comuni, in tutta la sua rilevanza sul nostro futuro. Richiede una soluzione sia strutturale che culturale, mentre oggi prevale lo smarrimento politico e il disorientamento sociale, come ha ben evidenziato il Cardinale Scola nei suoi recenti interventi.

I dati recenti di un approfondimento del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, indicano che il 28% dei giovani tra i 18 e i 32 anni vorrebbe il rimpatrio di chiunque arriva, siano essi profughi o persone in cerca di lavoro. La grande maggioranza è invece favorevole all’accoglienza, ma non incondizionata. L’atteggiamento di fondo appare confuso e ambivalente. Da un lato, i ragazzi italiani, come evidenziano varie ricerche, tendono a non considerare straniero il compagno di banco con genitori di nazionalità diversa e colore della pelle diverso. D’altro lato, dai media vengono bombardati con notizie di sbarchi continui, di episodi di violenza e condizioni di sfruttamento. Ragioni e valori dell’accoglienza fanno così sempre più fatica a contrastare la crescita dei timori di una presenza straniera subita e non ben integrata.

Tutto questo in un contesto di crisi economica, di welfare in sofferenza, di risorse familiari in riduzione, di bassa fiducia nelle istituzioni e di alta disoccupazione giovanile. Non stupisce quindi che i giovani italiani siano quelli più indotti, rispetto ai coetanei degli altri grandi paesi europei, a pensare che chi arriva dall’estero più che aiutarci ad allargare la torta comune ci possa costringere ad una riduzione delle fette pro capite. Gli under 30 intervistati che concordano con l’affermazione che gli immigrati peggiorano le condizioni del paese in cui vanno a vivere sono oltre il 60% in Italia e Francia. Va però tenuto presente che la Francia ha subito attentati drammatici di matrice islamica e che ha una presenza straniera maggiore della nostra. Valori più bassi, poco sopra al 40%, si registrano invece in Germania, paese nel quale risulta più larga la consapevolezza che l’immigrazione sia parte integrante del processo di crescita del paese.

Questi dati devono far riflettere perché ci dicono che rischiamo di far chiudere in difesa una generazione potenzialmente aperta al confronto positivo tra mondi e culture. Conforta, in ogni caso, il fatto che si ottengono valori meno negativi nei contesti in cui l’integrazione funziona e tra chi è più informato sul fenomeno. La maggioranza di chi dice che gli immigrati sono troppi non sa infatti dire esattamente quanti siano, tende ad enfatizzare la componente irregolare e la voce dei costi sul welfare rispetto alla ricchezza economica prodotta.

La strada è quindi quella del miglioramento degli strumenti conoscitivi rivolti ai cittadini oltre che di una responsabilità più solida della politica nella guida al cambiamento. Iniziative come Open migration, siti di informazione come Neodemos, eventi pubblici di confronto positivo tra culture, misure di successo nelle periferie come Quarto Oggiaro a Milano, mostrano che la diffidenza si può superare e che la diversità può diventare ricchezza culturale ed economica. Lasciare che una larga parte dei giovani scivoli invece dalla diffidenza all’ostilità è l’errore più grande che oggi possiamo fare, del quale possono beneficiare solo le forze politiche che speculano sulle paure e che sanno solo alzare muri.

Se l’immigrazione è una di quelle sfide a cui non possiamo sottrarci è anche vero che senza un ruolo positivo delle nuove generazioni difficilmente possiamo pensare di vincerla.

La crescita demografica perduta

La crescita spinta dalle nascite

L’Italia ha attraversato varie fasi di crescita nel secondo dopoguerra. È stata un paese in cui l’incremento naturale e i flussi migratori si sono combinati in vari modi. Negli anni Sessanta eccedevano sia le nascite che gli espatri. Negli anni Ottanta entrambi i fenomeni si sono assopiti. Sul finire del XX secolo abbiamo ritrovato la crescita, ma con dinamiche opposte rispetto agli anni Sessanta: poche nascite e crescente immigrazione. E ora siamo forse all’inizio di un nuovo ribaltamento di scenario: per la prima volta nel 2015 la popolazione italiana risulta in declino.
Al momento dell’Unità d’Italia eravamo 26,3 milioni di abitanti (ricalcolati ai confini attuali). Al primo censimento dell’Italia repubblicana, nel 1951, la consistenza demografica del paese risultava di circa 47,5 milioni. Una crescita secolare prodotta dalla “transizione demografica”, ovvero dal passaggio dagli elevati livelli di mortalità e di natalità del passato ai bassi livelli propri delle società avanzate contemporanee. Dato, infatti, che la mortalità ha iniziato a ridursi prima della natalità, l’esito è stato una eccedenza di nascite che ha spinto la popolazione a crescere.
I primi decenni del dopoguerra sono poi stati un periodo caratterizzato da una nuova effervescenza demografica, che ha toccato l’apice con il baby boom a metà anni Sessanta.

La crescita sostenuta dall’immigrazione

Al censimento del 1981 gli abitanti del paese risultano essere 56,5 milioni. Nei due decenni che concludono il XX secolo la popolazione rimane sostanzialmente ferma, tanto che al primo censimento del nuovo secolo l’ammontare dei residenti in Italia si trova ancora poco sotto i 57 milioni. Anziché crescere, la popolazione invecchia. Dopo aver abbattuto i rischi di morte nelle età infantili, giovanili e adulte, i guadagni di vita si spostano in età anziana. Verso la fine degli anni Settanta il numero medio di figli per donna scende definitivamente sotto la soglia di due facendo entrate l’Italia in una fase in cui le generazioni dei figli sono sistematicamente meno consistenti di quelle dei genitori. La piramide inizia a rovesciarsi.
A compensare in parte tale processo interviene però l’inversione dei flussi migratori: dall’eccedenza delle uscite fino agli anni Settanta si passa, negli anni Novanta, a una progressiva, inedita, eccedenza delle entrate dall’estero. È solo grazie a questo che la popolazione nel primo decennio del XXI secolo torna a salire in modo rilevante (figure 1 e 2). Al censimento del 2011 i residenti in Italia sono oltre 60 milioni. Al primo gennaio 2015 il dato è pari a 60,8 milioni. Se però si considerano solo i cittadini italiani si scende a circa 55,7 milioni, meno del censimento del 1981.

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Sia 8 marzo ogni giorno per migliorare la società

Per millenni le donne hanno avuto un ruolo subordinato nella storia dell’uomo. Metaforicamente l’uomo è intervenuto nella storia come un chirurgo mentre la donna ha fatto da infermiera assistente. Alla seconda non sono mancati gli oneri e il suo ruolo di supporto è stato spesso cruciale, ma onori e responsabilità ultime sono andati quasi sempre al primo. Lo conferma il fatto che nel Dizionario Biografico degli Italiani Treccani la presenza femminile arriva a malapena al 3%.