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Le proiezioni demografiche e la necessità di rafforzare lo sguardo strategico verso il futuro

Le proiezioni demografiche sono diventate un esercizio molto avanzato e scientificamente stimolante sul versante statistico-metodologico. Molto apprezzabile è, inoltre, lo sforzo dell’Istat nell’ultima edizione di includere anche l’evoluzione delle strutture familiari. E’ però utile chiedersi se alla spinta tecnica in avanti ha corrisposto un miglioramento sostanziale rispetto alla capacità (mi riferisco, qui, a tutta la comunità scientifica) di cogliere il cambiamento demografico e delineare scenari affidabili di riferimento. Dobbiamo riconoscere che su questo aspetto qualche dubbio è legittimo.

(P)revisioni al ribasso
Se guardiamo alle edizioni precedenti notiamo che le proiezioni hanno contemplato una fecondità del Sud in discesa sotto i livelli del Nord solo dopo che il fatto si era verificato. La popolazione italiana ha iniziato a diminuire vari decenni prima rispetto agli scenari previsivi in quel momento disponibili (non solo Istat, ma anche Eurostat e Nazioni Unite). Altro elemento che ben esprime le difficoltà a cogliere le trasformazioni in corso di fronte a dinamiche molto peggiori delle attese, è il ribaltamento tra la situazione delle proiezioni con base 2011 in cui si escludeva che entro il 2050 le nascite potessero scendere sotto le 500 mila (cosa che invece è accaduta pochi anni dopo) e l’ultima edizione che al contrario in nessun caso prevede, nello stesso orizzonte temporale, la possibilità di tornare sopra 500 mila.

L’ultima edizione, con base 2020 – forse come conseguenza dell’essersi trovati negli esercizi precedenti a rincorrere una realtà che portava ad una continua revisione al ribasso – va a delineare un quadro particolarmente depresso. Nello scenario mediano si arriverebbe a riportarsi sul numero di nascite del 2019 (il dato più negativo di sempre prima della pandemia, pari a 420 mila) solo nel 2035, per poi discendere nuovamente. E’, di fatto, la presa d’atto di una crisi demografica irreversibile destinata a consolidare il nostro Paese nelle posizioni peggiori in Europa in termini di squilibri strutturali.

Quadro demografico tragico. Ultimo appello per cambiare

Per farsi un’idea di come la combinazione tra le dinamiche negative del decennio scorso (dopo l’impatto dalla Grande recessione) e gli effetti della pandemia abbiamo cambiato profondamento in negativo un quadro già problematico, basti pensare che nel report di presentazione delle previsioni con base 2011 si trovava scritto che, considerate le ipotesi più plausibili, «le nascite non scenderebbero mai sotto la soglia delle 500 mila unità». Nell’edizione appena rilasciata dall’Istat la situazione si è del tutto capovolta: in nessuno degli scenari delineati la curva delle nascite riuscirebbe a risalire sopra le 500 mila, quantomeno fino all’orizzonte del 2065. Nello scenario mediano, quello preso come riferimento, si arriverebbe solo tra quindici anni a riportarsi ai livelli pre-pandemia (i 420 mila nati osservati nel 2019) ma per poi tornare a diminuire. Insomma si configura, secondo l’Istat, una ripresa modesta della natalità che non inverte per nulla la tendenza negativa dell’ultimo decennio. Nello scenario peggiore – che nelle previsioni Istat delle edizioni precedenti si è rivelato però quello più affidabile – entro la metà del secolo la curva delle nascite andrebbe addirittura a inabissarsi sotto le 300 mila.

Il dato più preoccupante non è il declino della popolazione in sé, ma l’essere diventati il paese nel quale con più intensità la popolazione anziana e quella giovanile evolvono in direzione opposta, la prima in forte aumento e la seconda in sensibile contrazione. Questi squilibri tra generazioni, già da tempo tra i peggiori al mondo, anziché contenerli li abbiamo lasciati allargare con il crollo continuo, appunto, della natalità e i limiti nella capacità di gestire in modo positivo i flussi migratori.

Il dato su cui concentrare l’attenzione è soprattutto il rapporto tra ultra65enni e popolazione attiva (indice di dipendenza degli anziani). Su questo indicatore è interessante il confronto con la Svezia e la Germania. Negli anni Novanta la Svezia era tra i paesi con valore peggiore di tale rapporto. Grazie però a politiche familiari mirate è riuscita a risollevare il tasso di fecondità (da 1,5 figli nel 1998 a quasi e nel 2010) e a porsi come uno dei paesi europei con minor peggioramento degli squilibri strutturali. La Germania fino al primo decennio di questo secolo presentava dati demografici analoghi all’Italia, ma grazie ad un solido pacchetto di misure di sostegno alla natalità ha successivamente invertito la tendenza ed ora presenta prospettive di evoluzione futura meno compromesse: il rapporto tra persone di 65 anni e oltre sulla popolazione tra i 15 e i 64, secondo le proiezioni Eurostat con base 2019, è destinato a rimanere all’orizzonte del 2060 sotto il 50 percento in Germania ed invece a superare il 60 percento in Italia.

A parità di altre condizioni, nei prossimi decenni ci troveremo sempre di più con un quadro demografico che renderà più difficile per il nostro paese crescere, innovare, alimentare benessere e sviluppo sostenibile, garantire risorse adeguate al sistema di welfare pubblico. Tanto più se gravati anche da un enorme debito pubblico.

L’unica nota positiva è il fatto che queste proiezioni sono state rilasciate prima ancora di valutare l’effettivo rilancio dell’Italia nel post pandemia. Non sappiamo ancora quanto la discontinuità della crisi sanitaria potrà dare consapevolezza nel paese sui limiti del passato e favorire un cambio di atteggiamento verso il futuro. Non è ancora chiaro l’impulso che potrà arrivare dal Piano nazionale di ripresa e resilienza che mette in campo risorse del tutto inedite rispetto al passato. Non abbiamo ancora evidenze sul ruolo che potranno avere le misure inserite nel Family act, un pacchetto di politiche familiari integrate che rappresenta una novità per l’Italia. La combinazione positiva di tutti questi fattori può ancora fare la differenza. Incarichiamoci di dimostrarlo prima di rassegnarci definitivamente.

Rendere il nido un effettivo diritto per tutti

Se la bassa fecondità può essere dovuta a vari motivi, nei contesti con alta occupazione femminile e fecondità vicina ai due figli per donna difficilmente manca una solida e accessibile offerta dei nidi. Si tratta quindi di una condizione (non sufficiente ma) necessaria nei paesi che vogliano sostenere al rialzo l’investimento sul lavoro, sia di uomini che di donne, e la realizzazione del numero desiderato di figli. Oltre a rispondere alla domanda di conciliazione i servizi per l’infanzia rivestono (ancor più) una funzione cruciale per lo sviluppo socio-educativo delle persone a partire dalla nascita.

Crollo della forza lavoro e mancanza di politiche efficaci contro il declino

La nostra penisola alla fine del secolo scorso è diventata uno dei paesi con più bassa fecondità al mondo e con maggiore contrapposizione, al proprio interno, tra crescita della fascia anziana e diminuzione di quella più giovane. L’evoluzione in direzione opposta di tali due componenti ha portato la fascia degli under 25 a dimezzarsi nel corso del secondo dopoguerra e ad essere superata, nel 2019, dalla fascia degli over 65.

In questa fase l’interesse del paese è rimasto concentrato sulla popolazione anziana e sulle implicazioni della sua crescita. Mentre il processo di “degiovanimento”, ovvero la riduzione sistematica del peso delle nuove generazioni, non è stato quasi per nulla preso in considerazione non incidendo sulla spesa pubblica. L’impatto della grande recessione del 2008 ha reso, poi, ancor più fragile la condizione delle nuove generazioni e rallentato il loro ingresso solido nel mondo del lavoro. Nel contempo anche le politiche familiari sono rimaste tra le meno sviluppate in Europa.

Da un lato, la denatalità passata, dopo aver ridotto il peso dei giovani è andata successivamente ad erodere sempre più anche la potenziale forza lavoro, d’altro lato le dinamiche più recenti delle nascite hanno mostrato un ulteriore peggioramento scendendo sui livelli più bassi di tutta la storia del paese.

L’Italia, tra la grande recessione del 2008 e la pandemia del 2020, si è trovata quindi ad entrare in un’inedita fase. I due fatti nuovi sono l’inizio di un secolare processo di declino dell’ammontare della popolazione, anticipato rispetto al resto d’Europa, e la contrazione della componente attiva della popolazione, più accentuato rispetto alle altre economie mature avanzate. Detto in altro parole, se nei decenni precedenti il rapporto tra popolazione anziana e popolazione in età attiva era peggiorato per l’esuberante crescita del numeratore, ora a tale peggioramento contribuiva sempre più anche l’indebolimento del denominatore. In particolare, sempre nel 2019, la fascia 30-34 anni risultava essersi ridotta di circa un terzo rispetto ad inizio secolo. A quel punto le implicazioni del processo di “degiovanimento”, ovvero la riduzione della forza lavoro con l’ingresso di nuove generazioni demograficamente sempre più deboli, non potevano più essere ignorate.

L’Italia si è presentata all’appuntamento con la crisi sanitaria del 2020 come uno dei paesi in Europa con meno giovani, meno inseriti nel mondo del lavoro (record di under 35 che non studiano e non lavorano), con età più tardiva di conquista della piena autonomia economica, con maggior riduzione delle donne in età riproduttiva, con più bassa fecondità in generale. Tutti aspetti sui quali l’impatto della crisi causata da Covid-19 ha prodotto un ulteriore peggioramento.

Per il percorso successivo l’Italia ora ha di fronte tre futuri possibili. Nel primo, dopo la discontinuità prodotta dalla pandemia il paese continua a presentare sostanzialmente gli stessi freni e limiti della sua storia precedente. A questo futuro corrisponde un’evoluzione demografica ben rappresentata dallo scenario “basso” delle proiezioni Istat (le ultime disponibili, con base 2018). Il numero medio di figli per donna rimane sotto 1,3, bloccato ai livelli peggiori in Europa. Di conseguenza le nascite vanno ulteriormente a ridursi e il rapporto tra popolazione anziana e giovane-adulta ad aggravarsi, portandosi su livelli incompatibili con qualsiasi prospettiva di sviluppo nella dimensione economica e sociale. In particolare, all’orizzonte del 2050, la popolazione in età da lavoro arriva a perdere oltre 9 milioni di persone a fronte di un aumento di almeno 4,5 milioni di over 65.

Il secondo dei futuri possibili non porta ad esiti finali molto diversi dal primo. E’ quello in cui il paese mette in campo alcune misure a favore delle nuove generazioni e delle famiglie, ma senza portarsi ai livelli delle politiche più avanzate in Europa. Partendo dalle posizioni peggiori nell’Unione – sia in termini di squilibri demografici che di diseguaglianze sociali, oltre che di debito pubblico – senza una forte spinta iniziale l’Italia non riesce a risollevarsi per mettersi a correre e recupere lo svantaggio accumulato. L’evoluzione che ne deriva è un temporaneo rialzo delle nascite nella ripresa post pandemia ma senza che si agganci a un vero e solido processo di inversione di tendenza. In questo caso, nel medio e lungo periodo non si arriva a distinguersi in modo sensibile dal precedente scenario.

Il terzo futuro possibile è invece quello in cui l’Italia adotta misure efficaci a favore dei percorsi formativi e professionali delle nuove generazioni (qualsiasi sia il genere, la provenienza territoriale e sociale) e politiche familiari sia allineate al meglio delle migliori esperienze europee (il meglio che si può ottenere dal Family act), sia integrate con le politiche di sviluppo del paese nella nuova fase post pandemia (il meglio che si può ottenere dal Pnrr). Questo consente di riorientare il percorso del paese e fargli cogliere, prima che sia definitivamente troppo tardi, il sentiero stretto di un aumento della fecondità in grado di più che compensare la riduzione della popolazione in età riproduttiva. Solo in questo caso le nascite tornano a salire e, in combinazione con flussi migratori coerenti e integrati con il modello economico e sociale, possono fare davvero la differenza tra un futuro in cui il peso degli squilibri demografici (e del debito) sono sostenibili e uno in cui il destino di scivolamento ai margini dei processi più virtuosi di sviluppo nella parte matura di questo secolo sono irreversibilmente preclusi.

Questo terzo futuro andrebbe a collocarsi tra lo scenario mediano e quello “alto” delle proiezioni Istat al 2050. La popolazione totale continuerebbe a diminuire, ma le dinamiche più positive di nascite e migrazioni porterebbero quantomeno a dimezzare la perdita della popolazione in età lavorativa. Una contrazione quantitativa ricondotta così a livelli tali da poter in buona parte essere compensata da un aumento della partecipazione giovanile e femminile al mercato del lavoro, oltre che da condizioni favorevoli per una lunga vita attiva. L’esperienza di altri paesi europei mostra, del resto, che dove migliora la valorizzazione di tali componenti nel mondo del lavoro, in combinazione con ben mirate e calibrate politiche abitative e familiari, si mettono i cittadini nelle condizioni di realizzare i propri progetti di vita migliorando le proprie condizioni di benessere e diventando parte attiva di processi di sviluppo sostenibile.

Cari italiani del 2050, voi certo ben sapete in quale di questi tre possibili futuri vi trovate. Ma presto lo scopriremo anche noi, perché a rivelarlo sarà l’andamento delle nascite nei prossimi anni. Se la ripresa sarà timida e breve il paese non avrà più la possibilità di contrastare gli squilibri che lo portano verso lo scenario “basso”, rendendo sempre più difficile tenere il passo con le condizioni di sviluppo del resto d’Europa. Purtroppo voi non potete tornare indietro nel tempo e venire ad avvisarci, ma i dati demografici qualche indicazione potrebbero darla a chi oggi sa e vuole ascoltare.