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All’Italia resta un decennio per tornare a 500mila nascite. Poi sarà troppo tardi

Se le nascite in Italia proseguissero il percorso di diminuzione con il ritmo osservato nel decennio scorso (a cui si è poi aggiunta l’incertezza della pandemia) ci troveremmo ad entrare nella seconda metà di questo secolo con reparti di maternità del tutto vuoti. Lo scenario di zero nati nel 2050 difficilmente verrà effettivamente osservato – le dinamiche reali sono più complesse di una semplice estrapolazione – i dati però ci dicono che alto (oltre il livello di guardia) è diventato il rischio di un processo di declino continuo della natalità.

La priorità di un Paese che non forma né assume i suoi pochissimi figli

L’Italia ha conquistato nello scenario mondiale un posto di punta nella transizione demografica quando, nella prima metà degli anni Novanta, è diventata il primo paese a trovarsi con le persone in età da pensione in quantità superiore a quelle in età scolastica. Nel dibattito pubblico e nell’agenda politica la questione demografica è entrata soprattutto come preoccupazione per il processo di invecchiamento della popolazione.

Un piano inclinato che penalizza i progetti di vita dei giovani

Supponiamo che l’Italia sia un centometrista finora riuscito a mantenere un livello di competitività comparabile con gli altri atleti di punta. Cosa succederebbe, però, se la sua corsia cominciasse ad avere un dislivello maggiore rispetto alle altre e crescente nel tempo? Fuor di metafora, l’Italia dovrà riuscire a generare sviluppo economico, innovazione, benessere sociale, non solo con una popolazione anziana in continuo aumento, ma soprattutto con un indebolimento inedito e accentuato della popolazione in età attiva.

L’Italia è, da tempo, diventata un caso di studio in tutto il mondo per la sua persistente bassa natalità e per gli squilibri generazionali conseguenti. Correva l’anno 2005 quando The Economist, in un ampio servizio dal titolo “Addio, Dolce Vita” scriveva che “Italy’s demographics look terrible”. Veniva sottolineato come con una media di 1,3 figli per donna il Belpaese stesse andando incontro a conseguenze devastanti sulla crescita economica e la sostenibilità sociale.

Perchè i giovani rischiano di perdere la fiducia nella nostra democrazia

Il 2020 è stato l’anno dell’emergenza causata da Covid-19. Il 2021 l’anno della protratta convivenza con il virus. Il 2022 avrebbe dovuto essere quello della ripartenza. Ma ancora una volta ci troviamo con un anno molto diverso da come auspicavamo. Speravamo di poterlo in futuro ricordare come il punto di partenza di un’Italia capace di cogliere la discontinuità della pandemia come occasione per una nuova fase di sviluppo. Per riuscirci sono necessarie risorse inedite. A questa condizione ha risposto il Piano europeo Next Generation Eu. Una condizione che rischia di risolversi in un grande spreco e in ulteriore aumento di debito pubblico se i finanziamenti non vengono indirizzati in modo efficiente per misure strutturali in grado di superare gli annosi limiti del passato e diventare leva per la crescita. Ma contestualmente è richiesto un ripensamento dello stesso concetto di crescita, in coerenza con nuove sensibilità e nuove sfide rispetto alle condizioni e alle modalità per generare benessere nei processi di sviluppo sostenibile. Il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza), pur con alcune lacune e criticità, ha cercato di interpretare il momento storico del paese attraverso la definizione di priorità, strumenti e obiettivi.

Contro gli squilibri demografici serve la qualità del nuovo lavoro

Alla base del mondo che cambia c’è il rinnovo generazionale. I meccanismi e le modalità di tale rinnovo hanno però, ancor più, ricadute cruciali sulla capacità di produrre benessere e sviluppo nelle società mature avanzate.

Per lunga parte della storia dell’umanità l’avvicendarsi delle generazioni è avvenuto in modo del tutto naturale ma anche molto dispersivo, con elevati rischi di morte compensati da un’elevata fecondità. Se nel passato la questione del ricambio generazionale non era esplicitamente posta, ancor meno lo è stata nella fase centrale della transizione demografica. In tale fase, la riduzione della mortalità precoce, in combinazione con numero di figli ancora superiore a due, ha anzi rafforzato la presenza delle nuove generazioni sia nella società che nell’economia.

Solo verso la fine degli anni Settanta la fecondità italiana è scesa sotto la soglia di equilibrio nel rapporto tra generazioni, ovvero sotto i due figli. E’ precipitata poi sotto 1,5 verso la metà degli anni Ottanta. Questo significa che il rinnovo generazionale debole è un fenomeno molto recente, che inizia a fare sentire i suoi effetti quando le generazioni nate dalla fine degli anni Ottanta in poi fanno il loro ingresso nella vita adulta. Ciò è avvenuto in concomitanza con profondi cambiamenti qualitativi che hanno complicato l’entrata stabile nel mercato del lavoro, da un lato, e con l’impatto negativo della Grande recessione, dall’altro. Le difficoltà specifiche incontrate nella transizione scuola-lavoro e di conciliazione tra vita e lavoro, trovano riscontro nel fatto che poco prima dell’impatto di una nuova crisi, causata dalla pandemia di Covid-19, il nostro paese si trovava a presentare livelli tra i più alti in Europa di Neet (under 35 che non studiano e non lavorano) e più bassi di occupazione femminile. Con conseguenti freni anche all’autonomia giovanile, alla formazione di nuove unioni, alla natalità.

Negli anni Dieci di questo secolo il centro della vita attiva del paese era ancora solidamente presidiato, in ogni caso, dalle generazioni demograficamente consistente dei primi tre decenni del secondo dopoguerra. Le ricadute maggiori del rinnovo generazionale debole nel mondo del lavoro sono, quindi, destinate a farsi sentire soprattutto nei prossimi decenni. Per farsene un’idea proviamo a confrontare il percorso di due diverse coorti: chi oggi ha 57 anni e chi ne ha 27. La prima generazione, nata nel 1965 quanto la natalità era ancora elevata, conta quasi un milione di persone. Ha svolto la parte centrale della sua vita attiva con un tasso di dipendenza degli anziani – indicatore che misura gli squilibri strutturali nel rapporto tra generazioni in età lavorativa e in età da pensione – inferiore al 35 percento.

La consistenza demografica di chi ha 27 anni, ovvero i nati nel 1995, è drasticamente più bassa, sotto le 600 mila unità. Tale coorte avrà 37 anni nel 2032, 47 anni nel 2042, 57 nel 2052. Vivrà la fase centrale della sua vita attiva in un paese in cui il tasso di dipendenza degli anziani in tali tre punti temporali salirà (secondo lo scenario mediano Istat) al 47%, poi al 62%, e infine al 66%.

Per arricchire il quadro va notato che mentre tutte le età nella fascia matura e anziana hanno sinora avuto una consistenza numerica inferiore rispetto a chi era in età lavorativa, questo requisito di stabilità strutturale verrà perso. Tanto per fare un esempio, gli attuali 77enni sono circa 500 mila e nessuna età tra i 15 e i 64 anni presenta valori inferiori. Nel 2042 saliranno però oltre 820 mila diventando dominanti su tutte le età sotto i 65 anni. Nel 2052 i 77 anni saranno addirittura, in assoluto, l’età più popolosa del Paese.

Questo significa che chi ha meno di 35 anni oggi farà l’inedita e complicata esperienza di vedere evolvere la propria vita lavorativa e professionale in un paese in cui le età con peso demografico più rilevante si troveranno nella fascia anziana. Avrà il compito di far crescere dal punto di vista economico e rendere sostenibile come spesa sociale, un paese con alto debito pubblico e accentuati squilibri strutturali, dovendo anche pensare al proprio futuro previdenziale.

Potrà giocarsi la possibilità di riuscirci solo se il sistema Italia saprà rispondere all’indebolimento del rinnovo generazionale nel mercato del lavoro – anche sulla spinta delle riforme previste nel PNRR – con un effettivo potenziamento qualitativo dei percorsi professionali (maschili e femminili) a partire dalla età più giovani e lungo tutto il corso di vita.