Tagged: popolazione

Ripartono i matrimoni. Fine della crisi?

Nei novant’anni di storia del Paese raccontati dall’Istat, nato nel 1926 con il nome di Istituto Centrale di Statistica, il punto più basso dei matrimoni è stato toccato nel 2014 con meno di 190 mila celebrazioni. Nemmeno negli anni più bui della seconda guerra mondiale si era scesi così in basso. Molto vivace era stata, allora, la successiva ripresa. Dalle 215 mila nozze del 1944 si salì a oltre 385 mila nel 1948. Ma la vera “epoca d’oro del matrimonio” arriva successivamente e corrisponde agli anni che vanno dal 1956 al 1963. E’ una fase in cui l’intero paese si rialza, non solo per la ricostruzione, ma per l’inizio di un nuovo percorso di sviluppo che intreccia crescita economia, welfare in espansione, fiducia nel futuro. Assieme all’economia si alzano anche i matrimoni e, successivamente, le nascite.

Che sconfitta un Paese salvato dai nonni

Gli anziani hanno due vantaggi particolarmente rilevanti rispetto al resto della popolazione: il tempo e una pensione sicura. I giovani spesso hanno il tempo ma poche certezze sul lato economico. Gli adulti, se sono disoccupati possono avere tempo ma non un reddito certo, se invece sono occupati, magari con figli piccoli, possono avere buone condizioni economiche ma molto poco tempo. Quello che in passato avevano di più giovani e adulti era semmai la salute, ma oggi sessantenni e sessantenni sono in grande maggioranza in buone condizioni fisiche.

Rispetto, poi, agli altri paesi avanzati, gli anziani italiani si distinguono per due aspetti importanti. Il primo è la longevità: più alto è da noi il numero di persone che arrivano in età anziana e più a lunga vi rimangono. Il secondo è la più intensa solidarietà all’interno della famiglia e il più forte legame tra genitori e figli. Molto più che nel resto del mondo sviluppato anziani e figli adulti italiani tendono ad abitare in stretta vicinanza, con frequenti contatti e flussi di aiuto reciproco. Esiste un’ampia disponibilità al mutuo sostegno all’interno delle reti familiari che va tipicamente dai membri delle generazioni più vecchie a quelli più giovani, finché regge la salute dei primi. Dal lato pubblico avviene invece l’opposto. Nel nostro paese i trasferimenti sono più sbilanciati a sfavore delle generazioni più giovani. Se ne trova chiaro riscontro nella spesa sociale: destiniamo più della media europea verso voci che vanno a beneficio delle generazioni più anziane, in particolare per pensioni e sanità, mentre stiamo molto sotto su politiche attive per il lavoro, a favore dell’abitazione e contro l’esclusione sociale. Ma bassi sono anche gli investimenti in formazione terziaria, in ricerca e sviluppo, in misure di conciliazione tra lavoro e famiglia. Questa attenzione a beneficio degli anziani è confermata anche dal recentissimo accordo tra Governo e Sindacati che ha portato ad aggiungere sei miliardi in tre anni per le pensioni. Se si fosse trattato di una revisione della spesa pensionistica nella direzione di renderla più efficiente ed equa, consentendo di dare di più ai pensionati più poveri ma riducendo corrispondentemente i privilegi dei coetanei che ricevono molto più di quanto hanno versato, non ci sarebbe nulla da eccepire.  Ma non è quanto è avvenuto e il rischio che questa misura pesi sulle generazioni più giovani è alto. E’ bene tener presente che, secondo i dati Istat, oggi il rischio di povertà assoluta di un under 35 con famiglia è più del doppio rispetto ad un over 65. Il nostro welfare pubblico continua ad essere uno dei più carenti verso le nuove generazioni, con la necessità dei giovani di dover ricorrere maggiormente alla famiglia di origine come ammortizzatore sociale: si rimane più a lungo a vivere con i genitori e si torna più frequentemente  a vivere con loro finito un contratto di lavoro o dopo un fallimento matrimoniale. Per molte famiglie in difficoltà economica la pensione di un genitore anziano può diventare un fondamentale punto di sostegno. Ma anche coppie in condizioni normali possono avere maggior necessità dell’aiuto dei genitori anziani rispetto agli altri paesi. Se gli asili nido mancano o hanno orari poco flessibili o hanno costi eccessivi, l’aiuto dei nonni diventa indispensabile. Ma anche quando d’estate non ci sono le scuole o quando c’è uno sciopero degli insegnanti o dei mezzi pubblici o semplicemente quando c’è da fare una commissione in posta, il nonno può semplificare fortemente la vita.

Ma può funzionare un paese così? Un paese che compensa le proprie inefficienze pubbliche con la privata messa a servizio permanente ed effettivo dei nonni? Un paese che fa dipendere dalla disponibilità dei nonni la decisione di avere o meno un figlio? Un paese che rende meno drammatici i rischi di povertà delle famiglie solo con la pensione di un proprio membro? E quando i nonni non ci sono, sono lontani o non in buona salute?

La grande rilevanza che hanno assunto i nonni è certo una dimostrazione del loro valore ma anche di quanto il nostro paese abbia adottato negli ultimi decenni uno schema di welfare difensivo. Una difesa che va a discapito sia delle opportunità delle nuove generazioni – non fornite di strumenti adeguati per spingersi in attacco – sia della piena valorizzazione della fase della vita che va dai sessanta agli ottanta, un’età che può essere molto appagante se vissuta senza vincoli di ruolo.

In particolare, non è vero che dove maggiori sono i servizi pubblici per le famiglie con figli piccoli si indebolisce la relazione tra generazioni. Avviene anzi il contrario. Dove il ricorso ai nonni è una scelta e non un obbligo, le relazioni tendono ad essere più diversificate e appaganti, con reciproco beneficio sia per i nonni che per i nipoti. Gli studi su questo campo mostrano come le ricadute siano positive sia sul benessere emotivo che sulle competenze sociali e cognitive per entrambi. Detto in altre parole, un’Italia che funziona meglio e non dipende troppo dai nonni, aiuta anche i nonni a vivere meglio la propria vita, senza eccesso di vincoli ma con il piacere di poter dare il proprio libero contributo alla cura e alla crescita delle nuove generazioni nella forma che preferiscono.

Disinnescare le bombe. Terrore e giovani: nodo esplosivo

E’ evidente che siamo di fronte ad un mix di fattori che rende esplosiva la condizione di alcuni giovani nati in Europa da genitori provenienti da paesi di cultura islamica. La scelta di un ragazzo di morire facendo strage di coetanei, civili in festa, persino bambini, dopo che fino al giorno prima aveva frequentato quegli stessi luoghi, partecipato ad eventi simili, interagito disinvoltamente con le loro potenziali vittime, ci sconvolge. Ci sconvolge a tal punto che stiamo facendo il loro gioco, ma ancor più quello delle leadership del terrorismo che usano quei ragazzi per colpirci al cuore. Cosa vogliono da noi? Vogliono soprattutto indebolire le nostre convinzioni, farci rimettere in discussione le basi del nostro modello sociale e culturale. Vogliono che cambiamo, che reagiamo con rabbia, che ci chiudiamo e che diventiamo come loro. Vogliono che l’occidente sia spaventato da questi gesti, che si senta insicuro, che diventi vittima delle proprie paure. Perché sanno che non hanno la forza di vincere, ma possono indurci a fare errori fatali. In parte ci stanno riuscendo. Basta leggere quello che scriviamo sui social network. Basta vedere l’evidenza sui giornali e sui mass media, che sembra volutamente indirizzata a favorire l’emulazione e suscitare reazioni emotive. Se il loro obiettivo è ottenere un impatto mediatico, noi stiamo facendo di tutto per concederglielo. Se il loro obiettivo è destabilizzare politica e istituzioni, creare divisioni interne, non stanno certo mancando il bersaglio. Se un giovane su mille tra i figli di immigrati in condizione di disagio sociale, può essere sedotto dalla realizzazione di un gesto che nel contempo sia eclatante e faccia parlare di lui, che sia distruttivo verso il mondo che non lo accetta, che lo renda un martire agli occhi di dell’islamismo radicale, trova oggi un terreno fertile per dare i suoi frutti più avvelenati.

Le condizioni favorevoli sono molte. La crisi economica ha colpito soprattutto le nuove generazioni, ha inasprito le disuguaglianze e di conseguenza ha accentuato anche il senso di ingiustizia sociale. Questo effetto è amplificato dalla persistenza di una sovrapposizione tra diseguaglianze e diversità, che sta alla base anche delle rivolte degli afroamericani negli Stati Uniti. In Europa non è tanto l’immigrazione in sé a favorire queste dinamiche, ma le modalità della sua gestione rispetto alla possibilità di offrire vera integrazione. Una integrazione che riguarda le opportunità di formazione e lavoro, ma che si gioca prima ancora sul campo culturale. La sfida dell’immigrazione è complessa e delicata. Si può sia vincere che perdere. Nessuno ha una ricetta sicura, ma quel che è certo è che il nodo vero di questa sfida è incarnato nelle seconde generazioni. E’ dentro di loro che viene prima di tutto vissuta la convivenza o il conflitto tra culture diverse. Se tale confronto ha successo è un arricchimento, se fallisce produce una fragilità permanente che può interagire pericolosamente con il disagio sociale, con la sfiducia nelle istituzioni, con l’erosione delle prospettive future. Apre un vuoto di senso e di valore che i giovani di seconda generazione si trovano spesso ad affrontare da soli. E’ su questo snodo che alcuni di loro rischiano di perdersi, con la tentazione di trasformare la rinuncia ad un sogno nella volontà di lasciare un segno. Possono essere pochi, ma in grado oggi, in ordine sparso, di fare danni enormi, grazie anche alle nuove potenzialità del web e alla capacità dell’estremismo religioso di raggiungerli ovunque offrendo risposte semplici e definitive.

Rafforzare le misure di sicurezza va bene nell’immediato. Ma anziché cambiare il nostro modello sociale dovremmo con ancor più determinazione cercare di realizzarlo con pieno successo. Consentire ai giovani di non trovarsi intrappolati in condizione di insignificanza è, in particolare, la migliore azione che possiamo fare per disinnescare le bombe con le quali il terrorismo vuole minare il nostro futuro.

L’insicurezza non deve condizionare le nostre vite

Viviamo in un tempo di grande instabilità e insicurezza. I fatti nazionali e internazionali di questo periodo ce ne sta dando ampia conferma. Nessuno fino a qualche settimana fa poteva immaginare il colpo e il contraccolpo di stato in Turchia. Ancor prima, grande impressione ha destato la sequenza di eventi di cui sono state vittime nostri connazionali. All’inizio di questo mese a Dacca sono stati uccisi in modo efferato nove italiani che si trovavano all’estero per lavoro. La vita di altri sei, serenamente in vacanza a Nizza, è stata improvvisamente travolta e spezzata dalla furia omicida di un terrorista squilibrato. In mezzo a tali due eventi l’incidente ferroviario in Puglia nel quale – per una inaccettabile combinazione di errori umani, inefficienze burocratiche e arretratezza tecnologica – hanno perso la vita ventitre persone.

Perché scommettere sui giovani e sulle donne

Come ogni anno, lo scorso 11 luglio si è celebra la Giornata Mondiale della Popolazione. Nelle diverse aree del pianeta questa celebrazione assume significati diversi perché, pur essendo la Terra sempre più una casa comune, diverse sono le sfide che la demografia pone a benessere, sviluppo, rapporto con l’ambiente. Per tutti è comunque l’occasione per riflettere su quanto piccoli siamo individualmente e quanto grandi sono le sfide che dobbiamo affrontare collettivamente. Non siamo mai stati così tanti, eppure oggi a Milano si vive, mediamente, molto meglio rispetto all’epoca di Sant’Ambrogio o a quella di Manzoni. Ma vale anche per altre aree del mondo? Complessivamente sì: mentre nel 1800 un bambino che avesse voluto scegliersi la nazione in cui nascere non ne avrebbe trovata nessuna con aspettativa di vita superiore ai 40 anni, oggi anche nel più sfortunato dei Paesi non si scende sotto i 50 anni. Stiamo meglio e viviamo di più, ma sono aumentate anche le diseguaglianze. Tra il Giappone e la Sierra Leone ci sono 33 anni di vita di differenza.