I paesi che non prendono sul serio la demografia ne pagano le conseguenze addebitandone i costi sul conto delle nuove generazioni. Costi che in Italia sono destinati a crescere in modo abnorme se non si interviene con politiche efficaci in grado di contrastare lo scadimento del rapporto quantativo e qualitativo tra vecchie e nuove generazioni.
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Per una ripresa della natalità
Il XX secolo è stato un periodo di forte accelerazione della crescita demografica del pianeta, crescita dovuta all’inedito successo nella riduzione dei rischi di morte, a partire dalle età infantili e poi via via nelle successive età della vita. Siamo entrati nel nuovo secolo con l’idea di rendere ovunque normale la possibilità che un nuovo nato possa vivere tutte le stagioni della vita fino a quelle più avanzate. Vivere a lungo è certamente un obiettivo positivo, che va però accompagnato da scelte in grado di riempire di qualità e valore gli anni aggiuntivi. L’invecchiamento della popolazione è però anche accentuato dall’altro grande processo che caratterizza la transizione demografica: la riduzione della natalità.
La fecondità media su tutto il pianeta è attorno a 2,5 figli ed è prevista scendere sotto il valore di 2 entro la conclusione di questo secolo. Fino a poco più di un secolo e mezzo fa il numero medio di figli per donna era attorno o superiore a 5 in tutti i paesi del mondo. Un livello che oggi consideriamo alto ma che consentiva di compensare l’elevata mortalità infantile. In ogni caso per tutta la storia dell’umanità, fino a qualche generazione fa, la grande maggioranza della popolazione non sceglieva quanti figli avere, semplicemente si formava una unione di coppia e poi i figli arrivavano senza che nella testa dei genitori ci fosse un numero atteso. Oggi solo 36 paesi si trovano ancora con una fecondità su quei livelli, 33 dei quali concentrati nell’Africa sub-sahariana.
La prima fase di riduzione rispetto agli elevati valori del passato è avvenuta per sottrazione. Ovvero la norma era avere figli e la scelta che veniva esercitata era quella di averne di meno, a partire dai ceti più istruiti. Molti paesi di diversi continenti — come India, Indonesia, Messico, Egitto — si trovano attualmente in questa fase. Le società della modernità più avanzata sono entrate, invece, in una ulteriore fase, nella quale è diventato sempre meno scontato avere figli. La scelta opera quindi in aggiunta — spinta da motivazioni personali e favorita da un contesto adatto — senza la quale la condizione di base rimane il non avere prole.
In questo passaggio il numero desiderato è rimasto comunque mediamente vicino a due, ma ad avvicinarsi maggiormente alle proprie preferenze al rialzo sono soprattutto le persone che si trovano con maggiori risorse socioculturali, in contesti con migliori servizi e maggior investimento in politiche familiari. Qui possiamo distinguere tre gruppi di Stati all’interno della stessa Europa. Il primo gruppo è formato da paesi come Francia e Danimarca, che non sono mai scesi troppo sotto la soglia dei due figli per donna (che equivale alla soglia di sostituzione generazionale), grazie a una attenzione continua verso misure a supporto della natalità. Il secondo gruppo contiene la Germania e altri paesi dell’Est Europa, che dopo essere scesi su livelli più vicini a uno che a due figli, recentemente hanno fortemente investito in politiche familiari ottenendo i migliori risultati in termini di ripresa delle nascite. L’ultimo gruppo ha al suo interno paesi come l’Italia e la Spagna, che invece continuano a presentare una fecondità persistentemente bassa senza segnali di ripresa.
L’Italia, in particolare, è diventata l’area con meno bambini in Europa, con squilibri tali da trovarsi oggi con più ottantenni che nuovi nati. Ma anche all’interno del territorio italiano si riscontrano differenze rilevanti nella direzione attesa. La fecondità è crollata maggiormente nelle regioni del Sud, in particolare dove l’occupazione giovanile è più bassa e gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia sono più carenti, come mostrano analisi territoriali con corretti indicatori. La provincia di Trento e quella di Bolzano risultano invece quelle in cui si stanno sperimentando le politiche più interessanti e solide, assieme ad altri specifici comuni, con risultati incoraggianti.
L’Italia può dimostrare che è possibile tornare a essere un paese vitale, mettendo al centro delle proprie politiche pubbliche il sostegno alle scelte desiderate e di valore delle nuove generazioni, in modo che non diventino frustrazione e rinuncia, ma successo nell’arricchire progetti di vita che rendono più solido il futuro comune. Esiste certo anche una questione culturale, ma riguarda prima di tutto quanto un figlio è considerato un costo privato o invece, e soprattutto, un bene collettivo sul quale tutta la società investe. E su questo punto l’Italia è senz’altro tra i paesi meno virtuosi.
Un’alleanza per guidare la Nave Italia
Caro Direttore,
la nave Italia sta viaggiando nella direzione sbagliata. Trasformare la rabbia diffusa in odio può dare la sensazione di alleviare i problemi. Affermare che l’Italia può fregarsene delle compatibilità internazionali è un inganno che sarà pagato caro. Immaginare che la crescita si ottenga semplicemente aumentando il debito e alimentando i consumi è una illusione pericolosa.
Più presto il paese uscirà da questa fase onirica, meglio sarà. L’Italia ha bisogno, anzi l’opportunità, di cominciare a scrivere una pagina di storia nuova.
Ma per andare al di là di questa stagione triste è necessario avere una lettura diversa.
Sono tre le piste principali su cui lavorare.
Crescita economica e sviluppo sociale devono tornare a marciare insieme. Per navigare in mare aperto non possiamo più tollerare chi distrugge valore: sperperando denaro pubblico, distruggendo l’ambiente, sfruttando il lavoro, non pagando le tasse. Attorno a politiche nuove abbiamo al contrario bisogno di alleare tutti coloro che contribuiscono alla creazione del ben-essere e ben-vivere comune. Se vogliamo trasformare la rabbia in energia, la nostra convivenza e le nostre istituzioni vanno ricostruite su un nuovo scambio “contributivo e sostenibile” cosi da ridisegnare completa-mente i rapporti cittadino-stato e lavoro-impresa. Per mettere il passato alle spalle, la vera svolta è passare dalla irresponsabilità diffusa alla partecipazione costruttiva. Non dobbiamo aver paura di darci traguardi ambiziosi: aspirare ad una società dove ciascuno (incluso chi oggi é ai margini) sia messo in condizione di dare il proprio contributo per migliorare l’esistente, sentendosene responsabile
Il valore va prima di tutto creato e poi redistribuito, in una logica dinamica e virtuosa che attribuisca alla redistribuzione una funzione di investimento mirato sia alla riduzione delle diseguaglianze che alla produzione di nuovo valore e maggior benessere. In un paese che invecchia il rapporto tra tradizione e innovazione va ristabilito investendo nei giovani e nelle loro potenzialità, senza relegarli in panchina con politiche paternalistiche e assistenzialistiche. Solo ciò che migliora oggi la capacità di essere e fare delle nuove generazioni porta ad un futuro comune migliore. Non si esce dalla crisi semplicemente immaginando che l’economia sia una macchina da rendere efficiente. La sfida che abbiamo davanti è piuttosto quella di realizzare un modello di crescita sostenibile capace di farci fare un passo in avanti sul piano culturale e spirituale. E di raccordare meglio mezzi e fini, efficienza e inclusione, innovazione e umanizzazione, individuo e collettività realizzando una crescita di qualità, attributo che non è dei sistemi ma delle persone e delle comunità. Per questo non ci sarà nessuna nuova stagione senza mettere al centro la formazione, la scuola, il lavoro. Dove anche il welfare sia visto come investimento sociale, attivo e abilitante.
Lo scopo di questo intervento è quello di innescare processi e suscitare alleanze tra le tante forze positive che già operano nel paese. Forze, autonome dai partiti politici, dei mondi vitali dell’impegno sociale, educativo, civile, non che sono oggi disperse e che rischiano di finire sommerse dall’onda alta del populismo.
Non servono manifesti e cartelli politici, è venuto il momento di associare queste forze in uno sforzo comune. Serve un passo avanti per uscire dal “ricatto di breve termine”: tutto ci dice che i progetti umani con un orizzonte corto sono inefficaci e finiscono per essere dannose.
Invece che promesse mirabolanti o imperativi categorici, il paese a cui pensiamo lavora per unire visione e competenza, innovazione e inclusione, audacia e saggezza, sogno e concretezza.
Ricominciamo da qui. Insieme.
Mauro Magatti
Marco Bentivogli
Leonardo Becchetti
Alessandro Rosina
Come tornare a fare figli?
La sortita del deputato M5S Massimo Baroni, membro della Commissione Affari Sociali della Camera, su come l’impatto del reddito di cittadinanza può favorire la ripresa delle nascite in Italia, rivela due cose. La prima è il riconoscimento che la persistente bassa natalità è un problema perché produce squilibri che indeboliscono crescita economica e sostenibilità del sistema di welfare pubblico. La seconda è che esiste molta confusione sulle azioni di policy utili per rispondere in modo efficace a tale problema.