Durante la campagna elettorale si è spesso detto che Sala e Parisi si somigliano. Nel primo turno hanno staccato tutti gli altri ottenendo un’analoga percentuale di voti. Persino nel confronto di Sky hanno conquistato consensi praticamente uguali. Molto diverso è però il mondo politico a cui fanno riferimento e, di conseguenza, la Milano che rappresenteranno nei prossimi cinque anni. Tale differenza emerge in modo chiaro quando si confrontano i campioni delle preferenze nelle singole liste. Nel centrodestra i nomi sono quelli di Gelmini, Salvini e Decorato, mentre per il centrosinistra troviamo Majorino, Del Corno e Tajani. Nel secondo turno più che pensare a Renzi o al candidato sindaco, dovremmo allora decidere quale desideriamo prevalga tra questi due mondi e tra le corrispondenti concezioni della Milano sociale ed economica. Questa differenza gli elettori non l’hanno capita fino in fondo e i due candidati sindaco non sono riusciti (più Sala) o non hanno voluto (più Parisi) farla capire.
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Far vincere l’innovazione che include
Finalmente siamo arrivati alla fine di una campagna elettorale che ha avuto spunti interessanti ma non ha entusiasmato. I due principali candidati sono stati percepiti come molto simili. I temi toccati non hanno saputo suscitare forte interesse. Non si sono create le condizioni per mobilitare una diffusa e vivace partecipazione dal basso. Il quadro politico era, in ogni caso, molto diverso rispetto a cinque anni fa. Allora al governo nazionale c’era Silvio Berlusconi e il paese viveva una fase di grande incertezza nel bel mezzo di una crisi economica e di fiducia. Un clima che aiutò il centrosinistra ad accendersi sul voto, contro un centrodestra opaco. In queste amministrative, invece, una parte dell’elettorato di sinistra si trova in difficoltà a votare un Sala pro Renzi con la stessa convinzione con cui votò un Pisapia contro Berlusconi. Il voto dell’insoddisfazione, come ben noto, mobilita molto più rispetto alla conferma.
Riecco il bonus bebè, un’arma spuntata per la natalità
Perché pochi figli?
Riecco il bonus bebè. Qualche giorno fa il ministro Beatrice Lorenzin ha proposto una sostanziale modifica degli importi erogati attraverso la misura, con l’obiettivo dichiarato di evitare il crac demografico.
Lo spostamento dell’agenda in tema di politiche sociali dall’ennesima discussione sulle pensioni a temi più alla radice dei problemi del paese non può che essere valutato positivamente. Tuttavia viene il dubbio che – ancora una volta – si usi uno strumento poco appropriato all’obiettivo dichiarato. In altre parole, il bonus bebè, sia come misura in sé sia per come è stato disegnato in Italia, appare più adatto a contenere l’alto rischio di povertà minorile che a influire in modo significativo sugli anemici tassi di natalità degli ultimi decenni.
Il primo passo per realizzare politiche che aiutino a risollevare la natalità è capire perché in Italia si fanno pochi figli.
La risposta non sta in un maggior egoismo o nichilismo dei cittadini italiani rispetto a francesi e americani. Se noi facciamo in media un figlio e un terzo e loro due non è perché noi ne desideriamo di meno, ma perché riusciamo di meno a mettere i giovani e le coppie italiane nelle condizioni di realizzare in pieno i propri obiettivi riproduttivi.
E allora diventa più utile chiedersi: perché gli italiani non fanno tutti i figli che vorrebbero fare?
Uno dei motivi principali è la condizione di difficoltà e di adattamento al ribasso che blocca non solo le ambizioni lavorative, ma ancor più i progetti di vita futuri dei giovani-adulti. I dati dell’indagine “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo mostrano come nei confronti del lavoro sia aumentata la preoccupazione del reddito adeguato, tanto da far mettere in secondo piano l’autorealizzazione.
La situazione di incertezza li porta a posticipare le tappe di entrata nella vita adulta. Subentrano poi le difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia. Di rinvio in rinvio, alla fine ci si trova a non aver avuto il numero di figli desiderato. Secondo i dati Istat, le donne rimaste del tutto senza figli sono salite dall’11 per cento nella generazione del 1950 (che ha concluso la sua storia riproduttiva alla fine del secolo scorso) al 21 per cento della generazione del 1970 (le nuove over 45).
A cosa serve il bonus?
Per come è disegnato, il bonus bebè è una misura di sostegno al reddito per coppie la cui situazione economica è poco florida. Si tratta in sostanza di un trasferimento monetario non condizionato alle famiglie a basso reddito. Il finanziamento non è vincolato a null’altro che alla prova di mezzi e la misura si estende solamente ai figli fino ai tre anni di età. Di fatto, la descrizione corrisponde a una politica di contrasto alla povertà tra le famiglie con figli sotto i quattro anni, cui tuttavia mancano misure di disegno e inclusione attiva e forme di controllo su come gli importi trasferiti vengano utilizzati. Intendiamoci, dati gli elevati livelli di povertà tra minori si tratta comunque di una misura positiva, ma è ben lungi dall’essere efficace per stimolare i tassi di natalità.
Come alzare davvero i tassi di fecondità
Se è comunque un bene mettere al centro del dibattito pubblico il sostegno alle famiglie, è ancor più importante predisporre misure efficaci in grado di restituire la fiducia di vivere in un paese che funziona e che incoraggia a fare scelte di impegno positivo verso il futuro.
Il bonus bebè non offre alle nuove generazioni le sicurezze di cui hanno bisogno prima di “avventurarsi” nella genitorialità. C’è una lunga serie di misure che lo stato può implementare e che sarebbero più appropriate per favorire la scelta di avere un figlio. Ne elenchiamo alcune (per una riflessione più ampia su approccio e misure si veda “Generare futuro”).
- Innanzitutto bisogna favorire l’accesso alla casa e al lavoro (stabile). Il Jobs act sembra essere un buon passo in questa direzione. Ma per l’occupazione giovanile e femminile bisogna fare di più. In questo senso la “Garanzia giovani” è lontana dall’essere una politica di successo.
- È poi necessario migliorare la possibilità di rimanere nel mercato del lavoro per le coppie con figli. Questo vuol dire servizi di accudimento a costi accessibili fino ai tre anni, ma anche attività rivolte ai bambini più grandi (fino almeno ai 14 anni) negli orari e periodi dell’anno in cui le scuole sono chiuse. Su questo punto negli ultimi anni si sono registrati forti tagli da parte dei comuni. E che fine hanno fatto i mille asili in mille giorni promessi dal presidente del Consiglio e dal ministro Graziano Delrio? Su passodopopasso.italia.it non se ne trova traccia.
- Bisogna incentivare i padri a fare la loro parte. Sono molte le ricerche che mostrano che si fanno più figli quando i padri sono più partecipi alla vita familiare. Due giorni di paternità obbligatoria sono solo simbolici, serve di più.
- Bisogna, infine, dare più stabilità alle politiche – anche a quelle di trasferimenti economici. Le misure episodiche, con finanziamenti insufficienti e limitati nel tempo possono essere un ottimo strumento di acquisizione del consenso elettorale, ma sono cattive politiche. Gli italiani sanno bene che i governi passano, mentre i figli rimangono.
Perché il bonus bebè non è un incentivo
Magari bastassero le buone intenzioni per risollevare la cronica denatalità italiana. Per riuscirci serve molto di più, a partire da una potenziata capacità di lettura della realtà in mutamento, passando per una maggiore disponibilità a mettere in discussione quello che in passato non ha funzionato, per arrivare ad una più ampia visione e condivisione dell’azione politica.
Servono cittadini che sanno scegliere
Sarà interessante per ciascun cittadino valutare la coerenza tra i propri progetti di vita e il nuovo corso che intende imprimere chi sostituirà Pisapia a Palazzo Marino. Un diciottenne può, ad esempio, pensare di scegliere di perfezionare il proprio capitale umano in una delle università della città oppure andare all’estero. L’eventuale decisione di fare un’esperienza di formazione o lavoro oltre confine può poi prevedere il ritorno o la scelta definitiva di rimanere altrove. Tutto questo ha a che fare con la scelta del nuovo sindaco?
Un neodiplomato o uno studente universitario può avere un’idea di startup da realizzare. Per provare a concretizzarla con successo ha bisogno di un ecosistema adeguato. Servono competenze avanzate, un ambiente stimolante, finanziamenti possibili, servizi di supporto, incubatori, luoghi di interazione e contaminazione attiva. Contano le politiche di sviluppo, di stimolo alla creazione di un network internazionale, di accesso a spazi, di facilitazione e incentivo all’innovazione da parte dell’ente pubblico?