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Nell’Italia che invecchia creare opportunità di lunga vita attiva

Il modo più sicuro per prevedere qualcosa, suggeriva Ionesco, è semplicemente di attendere che accada. Esiste però un modo migliore, anche se forse meno sicuro, ed è quello di farla accadere. Questo è ciò che invitava a fare Abraham Lincoln, al quale è attribuita la frase “The best way to predict the future is to create it”.

Il secondo modo migliore è quello di usare i dati demografici. Non sappiamo nel 2050 quale sarà il prodotto interno lordo, o la percentuale di famiglie sotto la soglia di povertà, o il tasso di occupazione giovanile, ma siamo in grado con buona confidenza di indicare quanti saranno gli over 65.

Più in generale, possiamo considerare la struttura demografica della popolazione come l’impalcatura solida sulla quale costruire, con lo spirito di Lincoln, il nostro futuro sociale ed economico. Ma se da un lato la demografia aiuta ad anticipare alcuni aspetti del cambiamento, dall’altro è implacabile per chi la ignora e non mette per tempo in atto le scelte giuste.

La carenza di efficaci politiche familiari ha portato l’Italia a ridurre drasticamente le nascite, con un crollo evidente a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. La crisi economica ha peggiorato ulteriormente la situazione, tanto che i nati nel 2018 sono scesi sotto il numero degli ottantenni. Con tali dinamiche, prendendo lo scenario mediano delle previsioni Istat, ci troveremo nell’Italia del 2050 non solo con circa sei milioni di over 65 in più rispetto ad oggi, ma anche con quasi altrettanti abitanti in meno tra i 30 e i 64 anni.

Questi dati ci dicono che i tre decenni che rimangono da attraversare nella prima parte del XXI secolo sono quelli in cui il rapporto tra popolazione anziana e popolazione attiva diventerà più squilibrato. In particolare, il tasso di dipendenza degli anziani salirà dal 36 al 63 percento. Il forte aumento di tale indicatore può essere considerato come una delle poche certezze del nostro futuro. Nello scenario migliore potrebbe fermarsi a 57, in quello peggiore salire al 70 percento, in funzione soprattutto delle dinamiche della natalità e dell’immigrazione. In ogni caso, secondo tutti gli scenari, aumenterà sensibilmente per poi stabilizzarsi nella seconda metà del secolo sugli alti livelli raggiunti. Questa tendenza non vale solo per il sistema paese ma anche all’interno delle singole organizzazioni.

Quella che pone la demografia è, infatti, una sfida collettiva che chiama in causa l’impegno comune per la costruzione di un futuro più solido a partire dalle scelte di oggi. Su come far maturare la giusta consapevolezza siamo pressoché all’anno zero, con l’atteggiamento pubblico nei confronti delle trasformazioni demografiche che continua ad oscillare tra la rimozione e la drammatizzazione. Nella nostra storia recente ci siamo trovati da un lato con governi che guardavano soprattutto all’impatto dell’invecchiamento sulla spesa pubblica, cercando soluzioni che potevano essere utili per la tenuta futura del bilancio ma non necessariamente funzionali nella vita delle persone. Ma anche, d’altro lato, con governi interessati solo al presente, al consenso elettorale, ben disposti ad assecondare reazioni difensive rispetto al cambiamento, perdendo così di vista sia la valorizzazione delle potenzialità dei singoli sia i costi per le generazioni future.

E’ invece necessario adottare ad ogni livello un approccio di base nuovo, che metta al centro le scelte consapevoli dei cittadini e la capacità di generare valore in tutte le fasi della vita. La questione non è, allora, tanto chiedersi oltre quale età bisogna o meno tenere al lavoro le persone, ma come sviluppare e rendere disponibili strumenti culturali e operativi che favoriscano la possibilità di rimanere attivi a lungo e in modo soddisfacente. Serve un approccio win-win-win, che parta però da ciò che funziona con le persone, per passare a ciò che rende più competitive le aziende (comprese quelle piccole e medie), per poi arrivare a ciò che migliora i conti pubblici dello stato. Detto in altro modo, non si tratta di partire dalla spesa pubblica da ridurre, operazione dalla quale non necessariamente derivano maggior qualità del lavoro, maggior produttività, maggior benessere e ricchezza prodotta. Ma puntare, piuttosto, alle opportunità di ciò che crea valore con le persone: favorendo salute e impegno attivo lungo tutto il corso di vita si ottiene anche maggior contributo alla crescita economica e minor costo sociale, con conseguente welfare più sostenibile.

Tale valorizzazione è possibile perché il cambiamento connesso con il processo di invecchiamento non è solo quantitativo ma anche, anzi soprattutto, qualitativo. Mentre la crescita quantitativa è destinata poi a stabilizzarsi, il cambiamento qualitativo è invece un processo in continua evoluzione: è quindi soprattutto a questo secondo che ci si deve preparare, usando l’urgenza posta da primo.

Da quando la transizione demografica ha preso avvio, ogni generazione arriva in età matura in condizioni fisiche e capacità cognitive migliori rispetto alle precedenti. Se, in particolare, la fase dopo i 60 anni va considerato un terreno via via sempre più fertile che in passato, è però anche vero che per dare i suoi migliori frutti deve essere coltivato con nuovi efficaci strumenti. Questi strumenti, che vanno sotto il nome di Age management, sono ancora poco promossi e sviluppati nel contesto italiano. Agire in questa direzione non significa pretendere che chi ha 65 anni sia in grado di fare le stesse cose (e allo stesso modo) di quando ne aveva 45, ma metterlo nelle condizioni di fare meglio e di più rispetto a un 65enne di vent’anni fa. Visto in prospettiva, questo significa consentire agli attuali 45enni di essere, tra vent’anni, nelle condizioni di poter far meglio e di più rispetto ai 65enni di oggi.

Otre ai dati sull’invecchiamento della popolazione, è allora possibile prevedere con una certa sicurezza che le aziende e le economie nazionali più dinamiche e competitive nei prossimi decenni saranno quelle che più stanno investono oggi sul miglioramento di tali condizioni.

Il tempo dei padri

Avere un figlio ti cambia la vita. Questo è senz’altro vero per le madri italiane, molto meno per i padri. La difficoltà della politica a rafforzare il congedo di paternità, la resistenza passiva dei datori di lavoro, la poca determinazione dei padri italiani a pretenderlo, sono una chiara conferma. Esiste qualche segnale dell’emergere di un nuovo ruolo paterno, all’interno però di un cambiamento ancora lento. Il recente caso del trentenne chef stellato Metullio, che lascia provvisoriamente da parte una brillante carriera per dedicare il suo tempo al figlio, si pone sulla punta di un iceberg che ha ancora un’enorme parte sommersa.

Alcune indicazioni interessanti dell’atteggiamento delle nuove generazioni sul rapporto tra lavoro e famiglia si possono trarre da un’indagine dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, condotta a gennaio su un campione rappresentativo di giovani tra i 20 e i 34 anni, fascia in cui rientra lo stesso Metullio.

I dati evidenziano come per le giovani donne italiane sia fortemente sentito il tema della conciliazione tra carriera e figli, per la carenza di servizi per l’infanzia ma anche per la scarsa collaborazione dei padri. La preoccupazione principale è quella di mantenere il lavoro e le laureate sono quelle che maggiormente riescono a gestire i due ruoli. Sul fronte maschile, sono soprattutto coloro che hanno un titolo di studio basso a intensificare l’attività lavorativa quando arrivo un figlio, per far fronte alle maggiori spese. Questo accade ancor di più se la madre non lavora o si trova a dover lasciare l’occupazione. La bassa occupazione femminile e i bassi redditi da lavoro di ampie fasce sociali costituiscono un freno sia per la natalità, sia per il tempo verso i figli da parte dei padri. Esiste però anche un aspetto culturale, messo in evidenza dai dati sui giovani che non hanno ancora figli e a cui è stato chiesto che cosa deciderebbero di fare nel caso diventassero genitori avendo un lavoro a tempo pieno. Le donne laureate si dividono quasi equamente tra chi diminuirebbe e chi manterrebbe l’impegno lavorativo, mostrando un forte interesse a combinare la realizzazione in entrambi gli ambiti di vita. Le donne con basso titolo di studio in quasi due casi su tre opterebbero invece per una riduzione sul fronte occupazione.

Dal lato maschile la situazione si ribalta, rendendo evidente anche come le scelte di conciliazione siano legate alle strategie di coppia, a loro volta dipendenti non solo da preferenze ma anche da mancanza di opportunità e vincoli presenti sul mercato del lavoro. In particolare il 29,5% dei laureati afferma che aumenterebbe l’impegno lavorativo per incrementare il reddito, contro il 34,6% di chi ha titolo di studio basso. I primi nel 50,1% dei casi manterrebbero lo stesso carico di lavoro e il 20,4% lo ridurrebbe “per dedicare più tempo alla famiglia”. I corrispondenti valori sono 48,5% e 16,9% per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo.

In sintesi, il tempo paterno continua ad essere una risorsa scarsa per i bambini italiani. Per un cambiamento del ruolo dei padri è necessario che maturino nuovi modelli culturali, favoriti da esempi positivi come il caso dello chef stellato, ma serve anche che migliorino i redditi da lavoro delle fasce sociali medio-basse e che siano potenziati gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Si tratta di fattori che, nel loro insieme, agiscono positivamente sia sulla quantità delle nascite, particolarmente bassa in Italia, sia sull’occupazione femminile, sia sulla riduzione della povertà infantile, sia sull’equilibrio dei rapporti di genere, oltre che sulla qualità del rapporto tra padri e figli. Con conseguenze positive di lungo periodo sul benessere economico e relazionale della famiglia.

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Crescita, l’Italia dimentica la demografia

Italia sta andando da tempo nella direzione sbagliata e l’ultima manovra varata, purtroppo, risulta tutt’altro che un cambio di direzione.

Per capirlo basta far riferimento a un indicatore demografico con forti implicazioni economiche e sociali, guardato con molta attenzione nelle società moderne avanzate. Si tratta del rapporto tra chi ha 65 anni e oltre sulla popolazione in età attiva (tasso di dipendenza degli anziani). Non sappiamo come saranno la società e l’economia italiana nel 2030 o nel 2050, ma siamo in grado con buona precisione di anticipare come sarà la struttura per età della popolazione. Da questo punto di vista il futuro italiano risulta essere uno dei meno rassicuranti della vecchia Europa. La demografia non è di per sé una condanna se si fanno per tempo le scelte giuste, noi però continuiamo a non farle, aggravando ulteriormente le condizioni e le prospettive del Paese.

Sono cinque le leve su cui dovremmo sinergicamente agire nel presente per risollevare il nostro futuro. Una è l’immigrazione, ma il governo ha fatto abbastanza esplicitamente capire di non volerla prendere in considerazione.

La seconda è la natalità, che in Italia ha toccato livelli particolarmente bassi ed è in continua caduta. Nonostante tanta retorica, l’ultima Legge di bilancio offre ben poche speranze di un’inversione di tendenza visto che contiene misure che non cambiano approccio e impostazione rispetto a quelle timide, occasionali e frammentate degli anni precedenti. Crescita della popolazione anziana e diminuzione della popolazione attiva continueranno quindi a caratterizzare in modo più accentuato il nostro Paese rispetto alle altre economie avanzate.

Ma gli squilibri che ci portano fuori rotta risultano ancora più marcati se, al posto degli anziani in senso anagrafico, si prendono in considerazioni gli inattivi e li si mette in rapporto alla popolazione effettivamente attiva, cioè a chi lavora e produce ricchezza che può essere redistribuita. Tale indicatore, noto come Economic old-age dependency ratio, è oggi attorno al 60% in Italia con la prospettiva che possa progressivamente salire vicino al 100% entro la metà di questo secolo.

Sugli inattivi la manovra non sembra poter produrre un forte contenimento, anzi con quota 100 tenderanno ad aumentare. Mentre è certo l’aumento di spesa pubblica per finanziare tale misura e il reddito di cittadinanza, molta più incertezza c’è sulla capacità di aumentare la platea di attivi da cui dipendono sostenibilità e benessere futuro.

E su questo aspetto pesano le altre tre leve. Una è l’occupazione femminile che assieme alla natalità è vincolata verso il basso dalla cronica carenza di politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia. Come l’occupazione delle donne, anche quella dei giovani è tra le più basse in Europa. Chi è senza lavoro potrà avere nel presente un maggior aiuto economico, ma la vera necessità del Paese è aumentare la platea di chi produce ricchezza se vogliamo evitare un futuro sempre più scadente. Purtroppo continua a mancare un piano solido e credibile per trasformare le nuove generazioni in una vera leva per la crescita competitiva del Paese. Anche su questo nella manovra non si vede una vera discontinuità con i governi precedenti. Su alcuni strumenti di potenziamento della transizione scuola-lavoro c’è addirittura un arretramento.

La quinta leva è il contributo alla crescita attraverso le nuove opportunità, grazie alla longevità e alla tecnologia, di una lunga vita attiva. Sembra che la politica italiana sia solo in grado di pensare a forzare i sessantenni a continuare lavorare o lasciare che le aziende se ne liberino il prima possibile. Molto meno degli altri Paesi avanzati investiamo sulle condizioni che favoriscono una lunga vita attiva, soddisfacente per il lavoratore maturo e produttiva per le aziende.

La demografia non condanna, ma la politica sì.

El deficit de natalidad

Hay un objetivo, equivalente al 2,1, que resulta vital para la solidez del futuro social y económico de Europa, pero que ningún Estado miembro de la Unión respeta desde hace mucho tiempo. No estamos hablando del valor de la ratio entre deuda y producto interior bruto (PIB), sino del número medio de hijos por mujer.

Come tornare a fare figli?

La sortita del deputato M5S Massimo Baroni, membro della Commissione Affari Sociali della Camera, su come l’impatto del reddito di cittadinanza può favorire la ripresa delle nascite in Italia, rivela due cose. La prima è il riconoscimento che la persistente bassa natalità è un problema perché produce squilibri che indeboliscono crescita economica e sostenibilità del sistema di welfare pubblico. La seconda è che esiste molta confusione sulle azioni di policy utili per rispondere in modo efficace a tale problema.