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Global Watch n.176 – Transizione demografica: viaggio nel XXI secolo

La Transizione demografica sta portando la popolazione in tutto il pianeta da livelli di elevata mortalità, caratteristici delle società del passato, a una longevità in continua espansione. Ne deriva anche il passaggio da una popolazione in cui gli anziani erano pochi a un’ampia presenza di persone in età avanzata. Siamo, detto in altre parole, nel mezzo della gestione del traghettamento dell’umanità verso la società matura o società della longevità.

Come garantire crescita, sviluppo, welfare sostenibile nella società della longevità è una sfida inedita e quindi aperta. Chi ci riuscirà meglio? Chi per tempo investirà su due fronti interdipendenti. Il primo è quello delle misure che consentono alle persone di essere attive a lungo e mantenersi in buona salute. Il secondo è quello di mantenere consistenti le coorti che entrano nel centro della vita attiva, in modo che rimanga solida la capacità di generare sviluppo economico, di finanziare e far funzionare il sistema di welfare.

Riaggiustamenti generazionali tra previsti e imprevisti
Il rapporto quantitativo tra generazioni che escono e quelle che entrano nella vita attiva (indicativamente compresa tra i 15 ai 64 anni) si sta sbilanciando a sfavore delle seconde non solo perché si vive più a lungo, ma anche perché con la transizione demografica va a ridursi la natalità. Da un numero medio di figli per donna attorno o superiore a 5 tutti i Paesi del mondo tendono a scendere verso il valore di 2 (che corrisponde all’equilibrio nel rapporto tra generazioni quando la mortalità dalla nascita alla piena età adulta è molto bassa). Questa fase di diminuzione del tasso di fecondità è la parte attesa del processo di transizione.

Inattesa è invece la riduzione sotto la soglia di equilibrio generazionale, che si sta osservando in tutti i Paesi arrivati alla fine del processo di transizione. L’Europa presenta un valore molto basso, attorno a 1,5 (i valori più alti sono quelli di Francia e Irlanda vicini a 1,8), gli Stati Uniti sono recentemente scesi sotto 1,7, la Cina è crollata a 1,2 circa (su livelli analoghi ai Paesi europei con più bassa fecondità). La stessa India, pur avendo superato recentemente la popolazione cinese, non ha più una fecondità sovrabbondante rispetto al livello di sostituzione generazionale. La base demografica di tale Paese è però ancora molto ampia e ciò garantirà per qualche decennio la fase favorevole del “dividendo demografico”, ovvero di una popolazione in età lavorativa prevalente. Fase invece che i Paesi occidentali, ma anche ampia parte dell’Asia orientale, hanno oramai alle spalle.

Il tasso di fecondità sensibilmente sotto la media dei 2 figli per donna porta a squilibri che nel tempo indeboliscono la forza lavoro potenziale e quindi, a parità di altri fattori, creano uno svantaggio ai Paesi che si trovano in tale condizione rispetto allo sviluppo economico e alla capacità di mantenere la spesa sociale.

Fare in modo che la natalità non scenda troppo in basso in combinazione con una adeguata gestione dei flussi migratori può consentire alla componente centrale della vita attiva di rimanere solida nella transizione verso la società matura.

Un confronto tra Europa, Stati Uniti e Cina
Rispetto a tale combinazione Stati Uniti, Europa, Cina mostrano esperienze diverse che trovano riscontro nelle dinamiche attese nei prossimi decenni.

Secondo le più recenti previsioni delle Nazioni Unite (con base 2022) la generazione degli Stati Uniti in età 15-19 anni nel 2025, ovvero in progressiva entrata nella vita attiva, risulta più consistente dei pari età nel 2000. Inoltre, grazie ai flussi migratori, tale coorte andrà a rafforzarsi ulteriormente via via che si sposta al centro dell’età lavorativa. Per la combinazione di queste dinamiche i 40-44 anni del 2050 nello scenario centrale sono stimati essere oltre 25 milioni contro i circa 22 milioni attuali. La denatalità sta però indebolendo ulteriormente le nuove generazioni. Si prevede che nel 2050 la fascia 15-19 sarà ridimensionata rispetto a quella attuale (con una consistenza che torna a quella del 2000).

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I giovani si sentono esclusi dalle scelte, così la generazione digitale è in trappola

Le dinamiche demografiche italiane, in assenza di adeguati correttivi, stanno spostando il paese verso un progressivo indebolimento del ruolo delle nuove generazioni nei processi di sviluppo e nelle scelte collettive. La conseguenza, per i giovani, è la percezione di non riuscire ad incidere sul futuro a partire dalle scelte di oggi e il timore di doversi adattare a un paese in cui sempre meno si riconoscono.

Una manovra attenta alle famiglie ma debole nel favorire un’inversione di tendenza delle nascite

(di Alessandro Rosina e Chiara Saraceno)

Il disegno di Legge di Bilancio approvato il 16 ottobre dal Consiglio dei Ministri prevede circa un miliardo di euro destinati a misure a favore della famiglia, in particolare a sostegno delle scelte positive di natalità. Non è poco se l’idea è quella di dare un segnale a favore delle coppie con figli, non è abbastanza se l’obiettivo è sostenere un solido processo di ripresa delle nascite. Per il livello molto basso del numero medio di figli per donna e la struttura per età italiana squilibrata a sfavore delle età riproduttive, un’inversione di tendenza è possibile solo allineando le politiche familiari, di genere e generazionali italiane alle migliori esperienze europee. Anche dopo gli interventi previsti dalla manovra rimaniamo molto lontani da tale obiettivo. Servirebbe quindi un impegno maggiore in termini di risorse destinate, dato che nel tempo la crisi demografica è andata ad aggravarsi.

Riguardo al merito delle singole misure, ciascuna tocca punti importanti da migliorare, ma con due limiti di impostazione: quello di occuparsi del percorso riproduttivo saltando il primo figlio e quello di affrontare la conciliazione (tra lavoro e famiglia) lasciando debole la condivisione (tra madri e padri).

L’importanza di iniziare bene con il primo figlio

In particolare, è previsto un rafforzamento del “bonus asilo nido” che mira ad andare verso la gratuità, a partire dalle famiglie meno abbienti: obbiettivo condivisibile, ma non si capisce perché solo dal secondo figlio in poi. Inoltre il problema dei nidi in Italia non è solo il loro costo per le famiglie, ma la loro mancanza. Anche tenendo conto dei nidi privati, il cui costo non è calmierato e diversificato in base all’ISEE, come avviene per i nidi pubblici e convenzionati, solo un bambino su tre ha teoricamente un posto al nido a livello nazionale, una proporzione che nel Mezzogiorno diventa uno su dieci.

Bene, anche, favorire le madri che lavorano con incentivi all’assunzione, a cui si aggiunge la proposta di decontribuzione che rafforza la busta paga. Ma anche qui dal secondo figlio in poi e in modo strutturale solo a partire dal terzo figlio, una situazione che riguarda una frazione piccolissima di madri lavoratrici, dato che le madri vengono spesso scoraggiate dal rimanere nel mercato del lavoro già dal primo figlio.

Il freno maggiore in Italia nel processo di formazione della famiglia è costituito dalle difficoltà che incontrano le nuove generazioni se desiderano diventare genitori. Non a caso l’Italia è uno dei paesi in Europa con più bassa fecondità prima dei 30 anni e con maggior posticipazione dell’arrivo del primo figlio. Come mostrano i dati Istat, negli ultimi quindici anni il rischio di povertà ha colpito soprattutto le coppie più giovani con figli (circa il doppio rispetto alle famiglie di over 65). Senza politiche che rafforzino il passaggio cruciale dalla condizione di figlio dipendente dai genitori a persona autonoma in grado di assumere responsabilità genitoriali, anche tutto il resto del percorso rimane debole. L’incertezza che grava su tale fase deve trovare risposta con politiche abitative, sostegno economico alla decisione di avere il primo figlio, certezza di poter ottenere un posto al nido e senza costi gravosi. Se si vuole favorire la possibilità di avvicinare il numero medio di figli realizzati con quello desiderato, aiutare le coppie ad aggiungere il secondo figlio ha ridotta efficacia se permangono le difficoltà sul primo.

L’importanza di tenere assieme conciliazione e condivisione

Le proposte contenute del disegno della manovra tendono inoltre a rafforzare il ruolo materno nelle responsabilità e carico di cura verso i figli, lasciando più marginale il ruolo dei padri.  Le esperienze in Europa di miglioramento insieme dell’occupazione femminile e della fecondità sono quelle che promuovono un coinvolgimento dei padri. Proseguendo quanto già fatto con la legge di stabilità del 2023, quando si è introdotta una indennità dell’80% (invece del 30%) per il primo mese di congedo parentale, il Governo intende proseguire in questa direzione offrendo un’indennità del 60% per il secondo mese. Lascia invece invariato a dieci giorni il congedo di paternità, pagato al 100%. E’   una scelta che non va nella direzione di riequilibrare le responsabilità di cura tra madri e padri, sia perché il congedo parentale è opzionale, mentre quello di paternità è obbligatorio, sia perché questo è totalmente indennizzato. Se si vuole che i padri assumano responsabilità di cura per un tempo ragionevole, è più efficace agire sul congedo di paternità. Risulta difficile superare le resistenze dei datori di lavoro che tendono ad interpretare la domanda di congedo parentale come scarso impegno verso l’azienda. Estendere il congedo obbligatorio di paternità avrebbe più effetto. Prendere un congedo dal lavoro quando nasce un figlio dovrebbe diventare la normalità non solo per le madri ma anche per i padri. Come molti studi evidenziano questo non diminuisce solo la quantità del carico di cura femminile,  ma consolida soprattutto la relazione di attaccamento tra padre e figli, aiutando inoltre a sviluppare codici di cura maschili. Quando più la nascita del primo figlio viene vissuta come esperienza positiva per tutti sul versante relazionale e non negativa su quello lavorativo, tanto più viene presa in considerazione la possibilità di averne altri.

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I tre fronti su cui agire la sfida demografica

Non si possono discutere le strategie competitive e analizzare gli scenari geopolitici, economici, tecnologici e sociali ignorando la sfida che pone la demografia. Una chiara testimonianza di questa consapevolezza arriva dal Forum Ambrosetti, in corso in questi giorni a Cernobbio, dove il tema è messo in programma e con l’occasione viene anche presentato un esteso report dal titolo “Rinascita Italia. Come invertire il trend demografico a beneficio del futuro del Paese”.

Il report parte dal riconoscimento che “Il fenomeno della decrescita demografica, seppur ampiamente dibattuto, non sembra intraprendere ancora una concreta strada verso una sua soluzione. Il rischio che il Paese corre non è da sottovalutare, sia da un punto di vista sociale che culturale ed economico”.

Denatalità. Agire subito per evitare il crollo

Ci sono tre aspetti preoccupanti della demografia italiana. Il primo è dato dalle dinamiche particolarmente negative della natalità e dagli effetti distorcenti che produce sulla struttura per età. Il secondo dall’incapacità di mettere in atto politiche efficaci per dare risposta a tali dinamiche. Il terzo è l’essere entrati in una fase in cui il non agire con misure adeguate e incisive non lascia l’Italia solo in posizione più debole rispetto al resto d’Europa, ma la espone maggiormente ad un inasprimento continuo degli squilibri. Va precisato che la causa della distorsione della struttura per età non è l’invecchiamento in senso proprio, ovvero la longevità. In questo l’Italia non si distingue dalle altre economie mature avanzate. La distorsione è dovuta alla persistente bassa natalità che produce il processo di degiovanimento, ovvero la riduzione continua della consistenza delle nuove generazioni. Come conseguenza di tale processo l’Italia sta subendo un crollo del tutto inedito e maggiore rispetto alle altre economie mature avanzate della fascia giovane-adulta. La combinazione tra bassa fecondità e riduzione della popolazione nell’età in cui si forma una famiglia, rischia di portare ad una sorta di reazione a catena generazionale: meno genitori e via via ancor meno figli e genitori futuri.