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El desempleo juvenil es el verdadero drama de Italia

Los nacidos a partir de los años ochenta, la generación de los millennials, vivieron su infancia rodeados de la mayor riqueza vista desde la posguerra y con las mismas expectativas de prosperidad que sus contemporáneos en otros países avanzados. Sin embargo, mientras ellos crecían, en Italia ha aumentado la deuda pública, la población ha envejecido y la inestabilidad laboral se ha agravado. Quienes hoy tienen entre 25 y 34 años han tropezado, en la etapa más vulnerable de la transición a la vida adulta —el paso de la escuela al trabajo—, con la crisis económica. Es decir, al contrario que sus padres, se han encontrado con unas oportunidades muy por debajo de sus deseos y su potencial.

Innovare la formazione per includere con il lavoro

In questi giorni inizia il nuovo anno scolastico per otto milioni di alunni. Molti i problemi e le sfide da affrontare, vale per i singoli ragazzi che stanno costruendo il proprio futuro, ma più in generale vale per il sistema di istruzione che deve mettere in relazione virtuosa il mondo che cambia e la preparazione di nuove generazioni. Una preparazione che non può più essere solo “aggiornata” ma in grado di saper guardare e immaginare oltre.

L’integrazione non si vede ma va avanti

Siamo continuamente bombardati da notizie e commenti sui nuovi sbarchi, sull’emergenza profughi, sul terrorismo islamico. Il rischio è però quello di perdere di vista la vera sfida che l’immigrazione pone al nostro paese, che più che sulla quantità degli arrivi – da contenere e regolare – si gioca sulle effettive possibilità di integrazione di chi è già qui.
Secondo i dati Istat, la popolazione residente in Italia ad inizio del 2017 era pari a poco più di 60,5 milioni.

Il falso problema della scuola fino a 18 anni

Ha ragione la ministra Fedeli quando dice che fermare la propria formazione a 16 anni – in un mondo sempre più complesso, in rapido cambiamento, con una vita lavorativa sempre più lunga e articolata – non è una scelta ottimale. Ma è l’obbligo imposto ai giovani a star di più sui banchi di scuola la soluzione ottimale? Una risposta la si può dare andando a vedere cosa fanno gli altri paesi europei. Si nota allora che solo un numero ristretto prevede l’obbligo scolastico fino ai 18 anni.

Investire sui giovani per alimentare lo sviluppo

Ora che Pil e occupazione sembrano aver ritrovato il segno giusto, il tema è come incentivare e alimentare un vero e solido percorso di crescita. Per essere “vero” deve accompagnarsi ad un aumento di quantità e qualità del lavoro. Per essere “solido” deve inserirsi nei percorsi più promettenti di sviluppo di questo secolo. Entrambi questi elementi convergono nel portare al centro il capitale umano delle nuove generazioni. Non è un caso che le economie avanzate che stanno crescendo di più siano quelle con più elevati livelli di formazione dei giovani e più bassa disoccupazione giovanile.
Se assieme alla crisi vogliamo lasciare alle spalle un paese che si è troppo a lungo adagiato sulle rendite del passato e decidiamo di scommette sulle forze che possono produrre nuovo benessere, abbiamo bisogno di attivare due circuiti virtuosi, uno a livello macro e uno a livello micro.
Quello macro mette, appunto, in relazione positiva gli obiettivi di sviluppo del paese e il ruolo attivo e qualificato delle nuove generazioni per raggiungerli. Senza valorizzare l’energia e l’intelligenza delle nuove generazioni il paese non può porsi obiettivi ambiziosi. Ma è anche vero che solo attraverso una crescita solida possono espandersi le opportunità dei nuovi entranti. Politiche di sviluppo, formazione e inclusione attiva nel mercato del lavoro devono quindi essere parte di una stessa strategia. L’investimento dei giovani sulla propria formazione e sulla crescita personale, deve essere aiutato a diventare vincente in termini di ritorno occupazionale e remunerativo. Così come l’investimento pubblico sulle nuove generazioni deve diventare vincente per la collettività in termini di nuova ricchezza economica prodotta e nuovo benessere sociale generato. L’opposto di un paese in cui più si studia e più aumenta la probabilità di andare all’estero e non tornare.
Il circuito virtuoso a livello micro mette invece in relazione positiva formazione di competenze e loro effettiva messa alla prova e applicazione. La questione non è tanto se la scuola secondaria debba durare un anno di meno, ma cosa è bene che i ragazzi italiani siano preparati a saper essere e saper fare alla fine del loro percorso scolastico. Non basta una buona base culturale, ma serve anche stimolare consapevolezza e la capacità di cercare il proprio posto nel mondo che cambia e di rafforzare competenze ed esperienze utili a raggiungere obiettivi professionali e di vita desiderati. Al di là del titolo di studio, come mostra la recente indagine di Unioncamere, sono proprio esperienze e competenze a fare la differenza.
Il futuro di un paese si può allora misurare dal numero di giovani che mettono in relazione positiva il binomio “imparare” e “fare”, all’interno di un processo che porta a migliorare continuamente non solo conoscenze e abilità tecniche ma alimenta anche la fiducia in sé stessi e il desiderio di capire e saperne di più per provare a fare ancora meglio.
Troppi giovani italiani non riescono ad attivare tale circolo virtuoso e scivolano nella condizione più problematica dei NEET (under 30 che non studiano e non lavorano), quella degli inattivi e scoraggiati. E’, inoltre, interessante notare come il Servizio civile sia svolto soprattutto da ragazzi con buon livello culturale, che lo considerano un’esperienza positiva di rafforzamento di competenze sociali e trasversali utili per la vita ma anche per il lavoro. Tendono però a rimanere fuori da tale esperienza i ragazzi che vivono in contesti più deprivati. Questi ultimi rischiano di scivolare nel circolo vizioso del “non imparare” e “non fare”, accumulando senso di impotenza, esclusione sociale e frustrazione. Soprattutto per questi giovani l’alternanza scuola-lavoro e il rilancio del Servizio civile – che con la riforma punta ad essere universale (scelto da tutti) senza diventare obbligatorio (imposto dall’alto) – vanno nella giusta direzione, ma cruciale è un’implementazione seria ed efficiente, in grado offrire una esperienza che faccia davvero la differenza. Il fatto che per entrambi questi programmi, allo stato attuale, non vi sia un rigoroso piano di valutazione sulle competenze acquisite è una carenza che va quanto prima colmata.