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Per una ripresa della natalità

Il XX secolo è stato un periodo di forte accelerazione della crescita demografica del pianeta, crescita dovuta all’inedito successo nella riduzione dei rischi di morte, a partire dalle età infantili e poi via via nelle successive età della vita. Siamo entrati nel nuovo secolo con l’idea di rendere ovunque normale la possibilità che un nuovo nato possa vivere tutte le stagioni della vita fino a quelle più avanzate. Vivere a lungo è certamente un obiettivo positivo, che va però accompagnato da scelte in grado di riempire di qualità e valore gli anni aggiuntivi. L’invecchiamento della popolazione è però anche accentuato dall’altro grande processo che caratterizza la transizione demografica: la riduzione della natalità.

La fecondità media su tutto il pianeta è attorno a 2,5 figli ed è prevista scendere sotto il valore di 2 entro la conclusione di questo secolo. Fino a poco più di un secolo e mezzo fa il numero medio di figli per donna era attorno o superiore a 5 in tutti i paesi del mondo. Un livello che oggi consideriamo alto ma che consentiva di compensare l’elevata mortalità infantile. In ogni caso per tutta la storia dell’umanità, fino a qualche generazione fa, la grande maggioranza della popolazione non sceglieva quanti figli avere, semplicemente si formava una unione di coppia e poi i figli arrivavano senza che nella testa dei genitori ci fosse un numero atteso. Oggi solo 36 paesi si trovano ancora con una fecondità su quei livelli, 33 dei quali concentrati nell’Africa sub-sahariana.
La prima fase di riduzione rispetto agli elevati valori del passato è avvenuta per sottrazione. Ovvero la norma era avere figli e la scelta che veniva esercitata era quella di averne di meno, a partire dai ceti più istruiti. Molti paesi di diversi continenti — come India, Indonesia, Messico, Egitto — si trovano attualmente in questa fase. Le società della modernità più avanzata sono entrate, invece, in una ulteriore fase, nella quale è diventato sempre meno scontato avere figli. La scelta opera quindi in aggiunta — spinta da motivazioni personali e favorita da un contesto adatto — senza la quale la condizione di base rimane il non avere prole.
In questo passaggio il numero desiderato è rimasto comunque mediamente vicino a due, ma ad avvicinarsi maggiormente alle proprie preferenze al rialzo sono soprattutto le persone che si trovano con maggiori risorse socioculturali, in contesti con migliori servizi e maggior investimento in politiche familiari. Qui possiamo distinguere tre gruppi di Stati all’interno della stessa Europa. Il primo gruppo è formato da paesi come Francia e Danimarca, che non sono mai scesi troppo sotto la soglia dei due figli per donna (che equivale alla soglia di sostituzione generazionale), grazie a una attenzione continua verso misure a supporto della natalità. Il secondo gruppo contiene la Germania e altri paesi dell’Est Europa, che dopo essere scesi su livelli più vicini a uno che a due figli, recentemente hanno fortemente investito in politiche familiari ottenendo i migliori risultati in termini di ripresa delle nascite. L’ultimo gruppo ha al suo interno paesi come l’Italia e la Spagna, che invece continuano a presentare una fecondità persistentemente bassa senza segnali di ripresa.
L’Italia, in particolare, è diventata l’area con meno bambini in Europa, con squilibri tali da trovarsi oggi con più ottantenni che nuovi nati. Ma anche all’interno del territorio italiano si riscontrano differenze rilevanti nella direzione attesa. La fecondità è crollata maggiormente nelle regioni del Sud, in particolare dove l’occupazione giovanile è più bassa e gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia sono più carenti, come mostrano analisi territoriali con corretti indicatori. La provincia di Trento e quella di Bolzano risultano invece quelle in cui si stanno sperimentando le politiche più interessanti e solide, assieme ad altri specifici comuni, con risultati incoraggianti.
L’Italia può dimostrare che è possibile tornare a essere un paese vitale, mettendo al centro delle proprie politiche pubbliche il sostegno alle scelte desiderate e di valore delle nuove generazioni, in modo che non diventino frustrazione e rinuncia, ma successo nell’arricchire progetti di vita che rendono più solido il futuro comune. Esiste certo anche una questione culturale, ma riguarda prima di tutto quanto un figlio è considerato un costo privato o invece, e soprattutto, un bene collettivo sul quale tutta la società investe. E su questo punto l’Italia è senz’altro tra i paesi meno virtuosi.

Il terremoto demografico in corso in Italia

In Italia è in corso un terremoto demografico. Non ce ne preoccupiamo troppo perché la struttura demografica di una popolazione muta lentamente, ma gli effetti sono poi implacabili. Il possibile crollo o meno di un edificio a seguito di un terremoto dipende dall’entità dei danni sulle strutture portanti. Nel caso di una popolazione il pilastro portante è costituito dalle età centrali adulte, quelle che maggiormente contribuiscono alla crescita economica e al finanziamento del sistema di welfare pubblico.

A mettere a repentaglio questa struttura non è l’aumento della longevità, che consente alle nuove generazioni di spingersi sempre più in avanti rispetto alle fasi della vita. La sfida che essa pone è, semmai, quella di aggiungere qualità agli anni in più guadagnati. Se, infatti, la popolazione nelle età centrali lavorative rimane consistente e migliorano le opportunità di lunga vita attiva, la longevità oltre che essere un processo positivo è anche sostenibile. Ciò che produce squilibri nella popolazione è invece la riduzione del contingente iniziale di ciascuna nuova generazione, ovvero la diminuzione delle nascite. La denatalità italiana ha prima ridotto la popolazione infantile, poi quella giovanile e ora sta iniziando a erodere sempre più anche le età adulte.

Se quindi finora il processo di invecchiamento della popolazione è stato sorretto da una presenza solida di popolazione nell’asse portante dell’età attiva, nei prossimi anni non sarà più così. In particolare le classi centrali lavorative andranno progressivamente a indebolirsi come mai in passato. Tutto questo avverrà più in Italia che altrove in Europa perché, a parità di longevità (sui livelli dei paesi più avanzati), il crollo delle nascite è stato da noi più rilevante e persistente.

Il rischio è quello di veder indebolire progressivamente il pilastro produttivo del Paese per il combinarsi di un basso peso demografico con una bassa partecipazione effettiva al mercato del lavoro. Attualmente la fascia d’età centrale della vita attiva del Paese è quella tra i 40 e i 44 anni. Tra dieci anni si sposteranno in tale posizione cruciale gli attuali 30-34enni che risultano essere oltre un milione in meno. Quest’ultima classe di età presenta però anche un basso tasso di occupazione (68,4%, dato riferito al 2018), sia rispetto agli altri paesi europei (la media Ue-28 è pari all’80,0%), sia rispetto alle generazioni precedenti alla stessa età. In particolare, gli attuali 40-44enni italiani presentavano un tasso di occupazione pari a 74,8% dieci anni fa (quanto avevano 30-34 anni).

Il campanello d’allarme – come mostra dettagliatamente il report di Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo – non viene suonato solo dalle condizioni oggettive (l’Italia presenta anche una delle più basse percentuali di laureati e più alta incidenza di Neet in Europa nella fascia 30-34 anni), ma anche dalla percezione che i giovani-adulti stessi hanno della loro condizioni e delle loro prospettive. Oltre uno su quattro teme di trovarsi senza un lavoro quando avrà 45 anni. Spiccata è però anche la differenza per titolo di studio, in particolare il rischio percepito di doversi rassegnare a non avere una occupazione al centro della vita adulta è tre volte tanto per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo rispetto ai laureati.

Da qui bisogna allora ripartire, ovvero da percorsi solidi di formazione e da efficienti servizi, alla pari delle migliori esperienze degli altri paesi avanzati, che consentano alle persone di riqualificarsi e reinserirsi attivamente nel mondo del lavoro. Ed è soprattutto tempo di prendere consapevolezza del fatto che il problema non è tanto il lavoro che manca ai giovani, ma la presenza qualificata delle nuove generazioni che sta diventando sempre più scarsa nei nostri processi di produzione di ricchezza e benessere.

Perché è giusto il diritto di voto ai sedicenni

Qualche giorno prima che venisse rilanciata dal mondo politico la proposta di abbassare di due anni l’età minima per il voto, avevamo sottolineato su queste pagine l’importanza di dar più peso alle ragioni del futuro. Ricordando, in particolare, che «mentre rimane irrisolta la questione di come tener conto dei diritti delle generazioni future (quelle non ancora nate), e mentre continuiamo ad escludere dai referendum e dalle consultazioni elettorali gli under 18 (i coetanei di Greta Thunberg), ci troviamo ad assistere anche alla riduzione stessa dei giovani con diritto di voto». Non possiamo quindi che registrare con favore l’ampia convergenza delle forze politiche verso l’inclusione di sedicenni e diciasettenni nell’elettorato attivo.

Va precisato che tale operazione, in sé, ha costo zero per le casse dello Stato. Chi non ha ancora diciotto anni non potrebbe in ogni caso essere eletto. Inoltre si potrebbe prevedere tale estensione solo per le amministrative. Quest’ultima scelta da un lato risponderebbe alle obiezioni di chi non ritiene che i sedicenni siano abbastanza maturi per occuparsi della complessa politica nazionale, d’altro lato è coerente con il principio no taxation without representation: dato infatti che i sedicenni possono avere un contratto di lavoro e pagare le tasse, è del tutto giusto riconoscere che possano dire la loro su chi utilizzerà le risorse pubbliche per migliorare il quartiere e la città in cui vivono.

Rafforzare il ruolo delle nuove generazioni nelle scelte collettive risponde inoltre, in questo momento storico, a due esigenze. La prima è quella di compensare gli effetti della loro riduzione di consistenza demografica sul peso elettorale, a fronte dell’aumento della popolazione anziana. Un ottantenne può certo nel proprio voto responsabilmente premiare chi investe più sulla produzione di benessere futuro che a protezione delle rendite del passato, ma è anche giusto ritenere che chi avrà più da perdere e da guadagnare sulle conseguenze di medio e lungo periodo delle scelte collettive, ovvero le generazioni più giovani, possa prendersi la maggiore responsabilità nel determinarle. La seconda esigenza risponde al fatto che l’impatto sul futuro delle scelte presenti è maggiore oggi che in passato. Basti pensare alle decisioni che riguardano l’enorme debito pubblico cumulato, l’impatto ambientale, l’innovazione tecnologica, la combinazione tra contratti di lavoro, continuità di reddito e condizioni per una pensione dignitosa.

La riduzione quantitativa delle nuove generazioni, maggiore da noi per la persistente denatalità, si combina poi con la presenza di soglie anagrafiche tra le più alte nelle democrazie occidentali sull’elettorato attivo e passivo. Bisogna avere almeno 25 anni per essere eletti alla Camera e la stessa età per votare al Senato, nel quale chi non ha compiuto 40 anni non può entrare. Dato che le leggi devono passare anche attraverso l’approvazione del Senato, gli under 40 sono di fatto esclusi dalle decisioni finali sulle scelte del Paese.

Non estendere il diritto di voto ai sedicenni e mantenere tali soglie non significa lasciare le cose come stanno, ma accettare il fatto che progressivamente si ridimensioni il peso elettorale dei giovani. In Italia ci sono circa 1 milione e 100 mila sedicenni e diciasettenni. Dal 2000 a oggi gli over 65 sono aumentati di oltre 3 milioni e, prima del 2050, cresceranno di oltre 6 milioni.

 

Un governo che restituisca futuro in Italia ai giovani

Nel discorso al Senato di chiusura dell’esperienza del primo Governo Conte, il premier dimissionario ha lanciato uno sguardo in avanti sugli impegni che dovrebbe assumersi “una politica con la P maiuscola”. Al primo punto ha posto il “lavorare per offrire ai giovani giuste opportunità di vita personale e professionale: ogni giovane che parte e non torna è una sconfitta per il futuro del Paese”. Nel discorso di accettazione del mandato per la formazione di un Governo Conte bis, il premier incaricato ha poi ribadito tra le sfide principali quella di rendere l’Italia “un Paese che non lasci che le proprie energie giovanili si disperdano fuori dei confini nazionali”, ma “sia anzi fortemente attraente per i giovani che risiedono all’estero”.

La dispersione del capitale umano delle nuove generazioni viene evidentemente considerata da Giuseppe Conte uno dei segnali più preoccupanti del declino del Paese. Ne è infatti allo stesso tempo causa e conseguenza. Meno il paese cresce e offre opportunità, più i giovani ben preparati e dinamici se ne vanno. Ma più ci si priva delle “energie giovanili”, meno spinta per crescere ha il Paese.

Capacità e competenze delle nuove generazioni sono considerate la risorsa principale per produrre crescita ed innovazione nelle economie mature del XXI secolo. In Italia questa risorsa è scarsa per l’accentuata denatalità, per la più bassa incidenza di laureati rispetto alle altre economie avanzate, ma anche per la maggior facilità con cui la sprechiamo e disperdiamo. Deteniamo in Europa, del resto, anche il record di Neet, ovvero di under 35 che dopo aver concluso gli studi non riescono ad entrare saldamente nel mondo del lavoro.

Per usare una metafora sportiva è come se in una partita della nazionale noi relegassimo i giovani in panchina o li regalassimo alle altre squadre concorrenti. Nella costruzione di squadre vincenti per le sfide di questo secolo è in atto una guerra dei talenti, intesi nell’accezione più ampia, che riguarda non solo le aziende ma i “sistemi paese” più in generale. Tale guerra, ci dicono le sottrazioni annuali di laureati e dottori di ricerca, l’Italia la sta perdendo rischiando di scivolare sempre più ai margini dei processi più solidi e virtuosi di crescita dei prossimi decenni. I contesti che si collocano al centro di tale processi sono, invece, proprio quelli che offrono opportunità alle nuove generazioni. Non è un caso che in questo secolo abbiano ripreso consistenza i flussi di uscita dal Sud verso il Nord Italia e dall’Italia verso l’estero. Giovani che non partono con la valigia di cartone, ma sempre più con un tablet pieno di idee, alte aspirazioni e voglia di eccellere in contesti aperti e stimolanti. Partono per andare dove le cose accadono, per farsi parte attiva del mondo che cambia. Ciò è del tutto naturale che avvenga. Il problema non è la mobilità dei giovani in sé, ma i motivi che rendono l’Italia un polo sempre meno attrattivo all’interno dei processi che – attraverso le energie e le intelligenze delle nuove generazioni – forniscono spinta e direzione alla produzione di nuovo benessere. Una delle eccezioni più rilevanti è Milano che, in controtendenza con il resto del paese, ha visto negli ultimi dieci anni la fascia tra i 20 e i 29 anni aumentare di circa il 25 percento.

L’Istat misura il fenomeno della mobilità internazionale, da e per l’Italia, attraverso l’iscrizione e la cancellazione dall’anagrafe. Tale criterio porta a una sottostima rilevante, come documentato in varie ricerche, perché molti fuoriusciti mantengono, soprattutto nei primi anni, la residenza in Italia finché la permanenza all’estero non è consolidata e si ha necessità di formalizzarla. In ogni caso il bollettino di guerra è impressionante. Nel Rapporto annuale Istat del 2019 rivela che nell’ultimo decennio “le cancellazioni dall’anagrafe per l’estero sono aumentate in maniera marcata, passando da 62 mila a 160 mila”. Per il Mezzogiorno si aggiunge inoltre il flusso verso le regioni italiane del Centro-nord: a spostarsi sono stati circa 483 mila giovani di 20-34 anni, di cui oltre l’80 percento con istruzione medio-alta.

Generare opportunità all’altezza delle migliori aspirazioni dei giovani è l’unica vera risposta al rischio di “degiovanimento” cronico del paese, che alla persistente denatalità somma la continua emorragia verso l’estero. Cosa fare dunque? Per le nuove generazioni più che le condizioni attuali offerte da un territorio (o una azienda), conta il sentirsi parte attiva di un processo credibile di miglioramento. Anche nel Sud Italia molte aree possono diventare attrattive se in grado di coniugare le specificità locali con la valorizzazione delle competenze dei giovani, la loro spinta all’innovazione con l’apertura al mercato internazionale. In questo modo si favorirebbe sia la scelta di restare sul territorio, sia quella di tornare dopo un periodo all’estero, portando come arricchimento il valore aggiunto di tale esperienza. Un governo “per” l’Italia dovrebbe partire, con scelte nette e coraggiose, proprio da qui.

Il tempo dei padri

Avere un figlio ti cambia la vita. Questo è senz’altro vero per le madri italiane, molto meno per i padri. La difficoltà della politica a rafforzare il congedo di paternità, la resistenza passiva dei datori di lavoro, la poca determinazione dei padri italiani a pretenderlo, sono una chiara conferma. Esiste qualche segnale dell’emergere di un nuovo ruolo paterno, all’interno però di un cambiamento ancora lento. Il recente caso del trentenne chef stellato Metullio, che lascia provvisoriamente da parte una brillante carriera per dedicare il suo tempo al figlio, si pone sulla punta di un iceberg che ha ancora un’enorme parte sommersa.

Alcune indicazioni interessanti dell’atteggiamento delle nuove generazioni sul rapporto tra lavoro e famiglia si possono trarre da un’indagine dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, condotta a gennaio su un campione rappresentativo di giovani tra i 20 e i 34 anni, fascia in cui rientra lo stesso Metullio.

I dati evidenziano come per le giovani donne italiane sia fortemente sentito il tema della conciliazione tra carriera e figli, per la carenza di servizi per l’infanzia ma anche per la scarsa collaborazione dei padri. La preoccupazione principale è quella di mantenere il lavoro e le laureate sono quelle che maggiormente riescono a gestire i due ruoli. Sul fronte maschile, sono soprattutto coloro che hanno un titolo di studio basso a intensificare l’attività lavorativa quando arrivo un figlio, per far fronte alle maggiori spese. Questo accade ancor di più se la madre non lavora o si trova a dover lasciare l’occupazione. La bassa occupazione femminile e i bassi redditi da lavoro di ampie fasce sociali costituiscono un freno sia per la natalità, sia per il tempo verso i figli da parte dei padri. Esiste però anche un aspetto culturale, messo in evidenza dai dati sui giovani che non hanno ancora figli e a cui è stato chiesto che cosa deciderebbero di fare nel caso diventassero genitori avendo un lavoro a tempo pieno. Le donne laureate si dividono quasi equamente tra chi diminuirebbe e chi manterrebbe l’impegno lavorativo, mostrando un forte interesse a combinare la realizzazione in entrambi gli ambiti di vita. Le donne con basso titolo di studio in quasi due casi su tre opterebbero invece per una riduzione sul fronte occupazione.

Dal lato maschile la situazione si ribalta, rendendo evidente anche come le scelte di conciliazione siano legate alle strategie di coppia, a loro volta dipendenti non solo da preferenze ma anche da mancanza di opportunità e vincoli presenti sul mercato del lavoro. In particolare il 29,5% dei laureati afferma che aumenterebbe l’impegno lavorativo per incrementare il reddito, contro il 34,6% di chi ha titolo di studio basso. I primi nel 50,1% dei casi manterrebbero lo stesso carico di lavoro e il 20,4% lo ridurrebbe “per dedicare più tempo alla famiglia”. I corrispondenti valori sono 48,5% e 16,9% per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo.

In sintesi, il tempo paterno continua ad essere una risorsa scarsa per i bambini italiani. Per un cambiamento del ruolo dei padri è necessario che maturino nuovi modelli culturali, favoriti da esempi positivi come il caso dello chef stellato, ma serve anche che migliorino i redditi da lavoro delle fasce sociali medio-basse e che siano potenziati gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Si tratta di fattori che, nel loro insieme, agiscono positivamente sia sulla quantità delle nascite, particolarmente bassa in Italia, sia sull’occupazione femminile, sia sulla riduzione della povertà infantile, sia sull’equilibrio dei rapporti di genere, oltre che sulla qualità del rapporto tra padri e figli. Con conseguenze positive di lungo periodo sul benessere economico e relazionale della famiglia.

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