Tagged: italia

Pechino alla sfida del calo demografiche

Quando alla fine degli anni Settanta del secolo scorso entrò in vigore la politica del figlio unico, la Cina si apprestava ad essere il primo paese al mondo a superare il miliardo di abitanti. La piramide demografica presentava una base molto larga, con il 60% della popolazione sotto i 25 anni e meno del 5% sopra i 65. Oggi il primo gruppo di età risulta dimezzato e il secondo triplicato.

La vera crescita passa dai giovani

Chi è nato nel 2000 entra quest’anno nella sua terza decade di vita. Ha ancora davanti tutte le tappe più importanti del suo percorso di transizione alla vita adulta. Dalla possibilità di impostare bene tali tappe, nei tempi e nei modi più adatti, dipende molto di quanto saprà “poter essere e fare” nel resto della sua vita. Ma dal successo della realizzazione delle scelte (formative, professionali, di vita) delle nuove generazioni dipende anche gran parte della qualità del futuro di una comunità, ovvero della solidità dei processi di produzione di benessere in senso ampio.

Il mondo migliora quando i giovani sono messi nella condizione di essere ben preparati per le sfide del proprio tempo, di poter riconoscere e raffinare i propri specifici talenti, di vederli valorizzati e moltiplicati nella società e nel mondo del lavoro attraverso il proprio impegno. Il cambiamento diventa miglioramento quando le nuove generazioni non pretendono semplicemente di occupare il posto delle precedenti, ma generano nuovo valore attraverso la loro capacità di essere e fare. Una società che disinveste sulla presenza quantitativa e qualitativa dei giovani si trova, invece, fatalmente a veder vincolate le proprie possibilità di crescita e ad allargare squilibri demografici e sociali (come mette in guardia il recente report “Un buco nero nella forza lavoro” pubblicato dal Laboratorio futuro dell’istituto Toniolo).

E’ dal basso che una società si rinnova e mette solide basi per il proprio futuro. Ma proprio tali basi rischiano in questo secolo di trovarsi drammaticamente erose. In Europa, ancor più in Italia, la spinta positiva dal basso è indebolita dalla riduzione quantitativa delle nuove generazioni e dall’aumento delle diseguaglianze sociali. Questo indebolimento – ben leggibile sui principali indicatori economici, sociali e demografici – è la conseguenza dell’aumento di incertezza e fragilità nei percorsi di vita, a partire dalle scelte formative e professionali. Pesano soprattutto i limiti della transizione scuola-lavoro. L’Italia presenta, in particolare, il record negativo di cittadini che prima dei 30 anni si trovano nella condizione di NEET (fuori dal percorso formativo ma senza un lavoro) e non hanno ancora avviato un progetto familiare. Va aggiunto che il rischio di povertà assoluta delle coppie under 35 con figli è oltre il doppio rispetto alle famiglie composte da persone di 65 anni e oltre.

In tutto il mondo le diseguaglianze sono crescenti e alto è il rischio di polarizzazione tra chi è in grado di cogliere le nuove opportunità delle grandi trasformazioni in atto e chi invece rischia di sovrapporre vecchi e nuovi rischi. In Italia, ancor più che altrove, chi proviene da una famiglia con minori risorse, più difficilmente accede all’università o riesce comunque a completare gli studi. Più alto è il rischio di trovarsi intrappolato, a parità di titolo di studio, in percorsi di basso profilo professionale. Questo sistema non è solo iniquo e poco dinamico, ma anche poco efficiente perché non consente un’allocazione ottimale delle risorse (dei talenti, nell’accezione più ampia). Comprime inoltre la mobilità sociale e favorisce la trasmissione delle disuguaglianze dai genitori ai figli.

Investire sulle nuove generazioni significa, invece, fornire strumenti efficaci in grado potenziare la capacità di comprendere e agire nel mondo proprio a partire da chi nasce nelle famiglie con minori risorse socio-culturali e nei contesti con minori opportunità. Mettere tutti nelle condizioni di essere parte attiva dei processi di crescita è la condizione principale per ridurre gli squilibri generazionali e sociali.

Se vogliamo che i nati in questo secolo non si rassegnino ad essere vittime del lavoro che manca, ma ambiscano ad essere protagonisti del mondo del lavoro che cambia, è necessario potenziare il ruolo della formazione e quello dei sistemi esperti di orientamento e intermediazione, in modo da favorire, al punto più alto possibile, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tutto questo come parte di un più generale incontro da favorire nel decennio appena iniziato, quello tra il meglio che gli attuali ventenni possono dare e il meglio che il Paese con essi può diventare.

Il paradosso dell’immigrazione tra crescita e diseguaglianza

L’immigrazione è un tema complesso, delicato e non scontato. Continua ad essere trattato come emergenza, mentre avrebbe bisogno di assestarsi con un ruolo riconosciuto e ben governato all’interno dei processi di sviluppo demografico ed economico del Paese. L’effetto spiazzamento prodotto dalla canzone-trailer del film “Tolo tolo” di Checco Zalone, condita di luoghi comuni ma poi del tutto ribaltati nel film stesso, rivela la difficoltà a trattare in modo sereno il tema e a sorridere sulle nostre contraddizioni. L’avvio da record nelle sale italiane, nonostante non si tratti di un innocuo prodotto comico, dimostra però anche la disponibilità nel Paese, quantomeno in ampia parte di esso, a cercare una diversa prospettiva (meno scontata delle paure e della chiusura) nel leggere la diversità e il confronto con l’altro.

Meno occupati e pochi manager. I giovani ai margini e il Paese non riparte

L’Italia non ha alcuna possibilità di uscire dalla crisi di futuro che la tiene bloccata se non ritrova fiducia in se stessa. Questo è il messaggio principale del Presidente Mattarella nel suo discorso tradizionale di fine anno (che apre ad un nuovo decennio). Una fiducia che prima di tutto deve riguardare i giovani e il ruolo che il Paese affida ad essi, chiedendo e offrendo responsabilità ad ogni livello.

Quei 140 mila bimbi in meno nell’Italia delle culle vuote

I nuovi dati Istat sulle nascite restituiscono il ritratto di un’Italia che si sta sempre più impoverendo dal basso, con la conseguenza di rendere strutturalmente sempre più fragile tutto il sistema paese. Se consideriamo il periodo seguito agli anni più acuti della crisi, ovvero dal 2013 al 2017, le nascite nel complesso dell’Unione europea sono rimaste poco sopra ai 5 milioni. Tra i grandi paesi europei la Germania ha ottenuto un aumento di circa il 15%, mentre Francia e Regno Unito hanno subito una moderata flessione, ma partendo da valori elevati. L’Italia è il paese con il crollo maggiore, superiore al 10%. Risulta quindi lo stato membro che più sta contribuendo in modo assoluto a trascinare verso il basso la natalità europea.

Nel 2018 i dati non sono certo migliorati: rispetto al 2017 il tasso di fecondità è sceso da 1,32 a 1,29 e le nascite si sono ridotte da 458 mila a meno di 440 mila. I primi sei mesi del 2019 mostrano, poi, una ulteriore riduzione di 5 mila rispetto al primo semestre del 2018. Gli squilibri prodotti sono tali che gli attuali ottantenni italiani, oltre 517 mila, hanno più coetanei rispetto ai nati nel 2018.

Alla luce di queste dinamiche possiamo lasciar da parte l’obiettivo di tornare a crescere nei prossimi decenni in termini demografici e dare per scontato l’aumento della popolazione anziana. Quello che però ancora possiamo fare – per un futuro che consenta di continuare a produrre benessere in un sistema sociale sostenibile – è potenziare quantitativamente e qualitativamente la presenza delle nuove generazioni. Ma è soprattutto sulla dimensione qualitativa che bisogna fortemente investire per avere come ricaduta anche un irrobustimento quantitativo dei giovani nella popolazione, nella società e nel sistema produttivo.

Una sfida non scontata, visto che un altro record negativo che caratterizza il nostro paese è l’elevata percentuale di NEET, ovvero di chi ha concluso gli studi ma non si è inserito nel mondo del lavoro. Tale indicatore – per una combinazione di fragilità educative e inefficienti politiche attive – presenta uno dei valori più alti in Europa non solo tra i ventenni ma anche tra i trentenni. Nella fascia 30-34 anni si posiziona 10 punti percentuali sopra la media europea e risulta essere il doppio rispetto al dato tedesco. Le difficoltà di conquista di una propria autonomia dalla famiglia di origine e di pieno ingresso solido nel mondo del lavoro portano l’età media al primo figlio ad essere la più tardiva del continente, pari a 31,2 anni per le donne italiane.

I dati di una indagine comparativa internazionale condotta nel 2018 dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo sui giovani tra i 20 e i 34 anni, mostrano come nonostante la preferenza sul numero di figli rimanga vicina a due, sia progressivamente aumentata, più in Italia che nel resto d’Europa, l’accettazione della possibilità di non averne o averne solo uno. Forte risulta inoltre il legame con le risorse socio-culturali di partenza. Proiettandosi nel futuro, a 45 anni, il 21,9% degli intervistati pensa che non avrà figli, ma si sale a ben il 29,6% per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo. Inoltre, su una scala da 1 a 10 del valore assegnato all’avere figli come traguardo positivo nella propria realizzazione personale, a rispondere 6 e oltre risulta essere quasi il 60% tra i laureati contro meno del 45% di chi ha titolo di studio basso. Un presente con basse prospettive porta non solo a ridurre gli obiettivi raggiungibili ma anche il valore assegnato ad essi, minimizzando così il costo psicologico del non raggiungerli.

Questi dati suggeriscono come in assenza di politiche adeguate – in grado di dare un segnale forte e siano il coerente avvio di un processo di miglioramento delle prospettive occupazionali delle nuove generazioni e di potenziamento dei servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia – il rischio sia quello di andare verso un futuro in cui la scelta di avere un figlio risulta sempre più limitata a chi ha proprie motivazioni forti e appartiene alle classi sociali più benestanti.