Il secolo, o meglio i cento anni, che vanno dal 1950 al 2050 verranno ricordati come il periodo con maggior intensità della crescita della presenza umana sulla Terra. Difficilmente in futuro si assisterà ad una esplosione demografica analoga, se non nella prospettiva di espandere la presenza in altri pianeti (ma a parte qualche viaggio temporaneo di cittadini privati nello spazio, siamo ancora lontani da tale scenario). Per quanto riguarda l’espansione della nostra specie sul pianeta madre, è impressionante notare come dalla metà del XX secolo alla metà del XXI la popolazione risulti moltiplicata per quattro: da 2,5 miliardi ai quasi 10 miliardi previsti. Il tempo in cui viviamo si trova ancora all’interno di questa finestra del tutto unica ed eccezionale. E’ quindi naturale osservarla con stupore misto a timore.
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Il paradosso dell’immigrazione tra crescita e diseguaglianza
L’immigrazione è un tema complesso, delicato e non scontato. Continua ad essere trattato come emergenza, mentre avrebbe bisogno di assestarsi con un ruolo riconosciuto e ben governato all’interno dei processi di sviluppo demografico ed economico del Paese. L’effetto spiazzamento prodotto dalla canzone-trailer del film “Tolo tolo” di Checco Zalone, condita di luoghi comuni ma poi del tutto ribaltati nel film stesso, rivela la difficoltà a trattare in modo sereno il tema e a sorridere sulle nostre contraddizioni. L’avvio da record nelle sale italiane, nonostante non si tratti di un innocuo prodotto comico, dimostra però anche la disponibilità nel Paese, quantomeno in ampia parte di esso, a cercare una diversa prospettiva (meno scontata delle paure e della chiusura) nel leggere la diversità e il confronto con l’altro.
La strada dello “Ius culturae”
L’Italia è uno dei paesi in cui il tema è più sentito, perché si trova al centro del Mediterraneo e perché la presenza straniera è cresciuta in modo particolarmente rapido nel passaggio al nuovo secolo. È quindi uno dei paesi chiave non solo per la gestione dei flussi verso l’Europa, ma di tutto ciò che mette in relazione interdipendente le dinamiche del vecchio continente e lo sviluppo dell’Africa.
La sfida che l’immigrazione pone non ha soluzioni semplici, ma ciò che è certo è che va affrontata con un coordinamento internazionale e con strumenti e misure che vadano oltre la logica dell’emergenza. Questa consapevolezza, dopo molte contraddizioni e incertezze del recente passato, sembra oggi trovare maggior terreno favorevole sia nei nuovi vertici europei che nel nuovo governo italiano.
Nell’opinione pubblica, non solo italiana, è molto sentita la preoccupazione verso la parte irregolare del fenomeno, che risulta nella percezione comune anche enfatizzata rispetto ai numeri reali. Esiste invece un ampio riconoscimento che gli stranieri bene integrati forniscano un contributo alla crescita del paese in cui vivono. Questo vale ancor più per i loro figli: per il potenziale impatto positivo sul lato sia quantitativo, compensando la bassa natalità (particolarmente accentuata in molti stati europei), sia qualitativo, convergendo con i coetanei autoctoni nel fornire vivaci energie e intelligenze per lo sviluppo futuro delle economie mature avanzate.
L’Unione europea ha tra gli obiettivi quello di favorire livelli uniformi di diritti e doveri tra immigrati regolari e cittadini comunitari. L’Italia, in particolare, è uno dei paesi occidentali con criteri più rigidi per l’ottenimento della cittadinanza. La legge sul cosiddetto “Ius soli” è naufragata nella precedente legislatura, prima del voto del 4 marzo 2018, non solo perché osteggiata dai partiti di destra, ma anche per i timori nel centrosinistra di perdere consenso con l’approssimarsi delle elezioni.
Se l’idea di concedere la cittadinanza a chi è nato in Italia ed è già residente da anni, all’interno di un processo di integrazione della famiglia, è considerata largamente condivisa, più controversa è invece l’applicazione dell’automatismo a chiunque e in qualsiasi modo arrivi sulla penisola. Più consenso potrebbe allora trovare lo “Ius culturae”, che condiziona la richiesta di cittadinanza all’aver superato con successo almeno un ciclo scolastico. Ha alla base un principio che trova forte consenso nelle nuove generazioni, ovvero che ciò che si riconosce a un giovane deve dipendere dal suo percorso e dal suo impegno, non tanto dalle caratteristiche dei genitori e dalla loro provenienza.
L’atteggiamento dei giovani è stato sondato all’interno di una indagine promossa dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo e condotta da Ipsos ad aprile 2019 su un campione rappresentativo di duemila giovani tra i 20 e i 34 anni. I risultati oggi disponibili ci dicono che oltre due intervistati su tre sarebbero “molto” o “abbastanza” d’accordo con l’introduzione dello “Ius culturae”. Poco meno di uno su quattro è poco concorde, mentre chi ha un atteggiamento di completa chiusura è meno del 10 percento.
Ci sono quindi le condizioni favorevoli, sia politiche che di opinione pubblica, per ripartire da questa proposta, che potrebbe essere ancor meglio accolta e dar frutti positivi se attivata in concomitanza con un rilancio dell’insegnamento nelle scuole dell’educazione alla cittadinanza. Scoprire e coltivare assieme il senso e il valore di una comune appartenenza, tra coetanei di diversa provenienza, aiuta a formare italiani consapevoli e a farli sentire parte attiva del miglioramento del paese in cui vivono.27
Crescita, l’Italia dimentica la demografia
Italia sta andando da tempo nella direzione sbagliata e l’ultima manovra varata, purtroppo, risulta tutt’altro che un cambio di direzione.
Per capirlo basta far riferimento a un indicatore demografico con forti implicazioni economiche e sociali, guardato con molta attenzione nelle società moderne avanzate. Si tratta del rapporto tra chi ha 65 anni e oltre sulla popolazione in età attiva (tasso di dipendenza degli anziani). Non sappiamo come saranno la società e l’economia italiana nel 2030 o nel 2050, ma siamo in grado con buona precisione di anticipare come sarà la struttura per età della popolazione. Da questo punto di vista il futuro italiano risulta essere uno dei meno rassicuranti della vecchia Europa. La demografia non è di per sé una condanna se si fanno per tempo le scelte giuste, noi però continuiamo a non farle, aggravando ulteriormente le condizioni e le prospettive del Paese.
Sono cinque le leve su cui dovremmo sinergicamente agire nel presente per risollevare il nostro futuro. Una è l’immigrazione, ma il governo ha fatto abbastanza esplicitamente capire di non volerla prendere in considerazione.
La seconda è la natalità, che in Italia ha toccato livelli particolarmente bassi ed è in continua caduta. Nonostante tanta retorica, l’ultima Legge di bilancio offre ben poche speranze di un’inversione di tendenza visto che contiene misure che non cambiano approccio e impostazione rispetto a quelle timide, occasionali e frammentate degli anni precedenti. Crescita della popolazione anziana e diminuzione della popolazione attiva continueranno quindi a caratterizzare in modo più accentuato il nostro Paese rispetto alle altre economie avanzate.
Ma gli squilibri che ci portano fuori rotta risultano ancora più marcati se, al posto degli anziani in senso anagrafico, si prendono in considerazioni gli inattivi e li si mette in rapporto alla popolazione effettivamente attiva, cioè a chi lavora e produce ricchezza che può essere redistribuita. Tale indicatore, noto come Economic old-age dependency ratio, è oggi attorno al 60% in Italia con la prospettiva che possa progressivamente salire vicino al 100% entro la metà di questo secolo.
Sugli inattivi la manovra non sembra poter produrre un forte contenimento, anzi con quota 100 tenderanno ad aumentare. Mentre è certo l’aumento di spesa pubblica per finanziare tale misura e il reddito di cittadinanza, molta più incertezza c’è sulla capacità di aumentare la platea di attivi da cui dipendono sostenibilità e benessere futuro.
E su questo aspetto pesano le altre tre leve. Una è l’occupazione femminile che assieme alla natalità è vincolata verso il basso dalla cronica carenza di politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia. Come l’occupazione delle donne, anche quella dei giovani è tra le più basse in Europa. Chi è senza lavoro potrà avere nel presente un maggior aiuto economico, ma la vera necessità del Paese è aumentare la platea di chi produce ricchezza se vogliamo evitare un futuro sempre più scadente. Purtroppo continua a mancare un piano solido e credibile per trasformare le nuove generazioni in una vera leva per la crescita competitiva del Paese. Anche su questo nella manovra non si vede una vera discontinuità con i governi precedenti. Su alcuni strumenti di potenziamento della transizione scuola-lavoro c’è addirittura un arretramento.
La quinta leva è il contributo alla crescita attraverso le nuove opportunità, grazie alla longevità e alla tecnologia, di una lunga vita attiva. Sembra che la politica italiana sia solo in grado di pensare a forzare i sessantenni a continuare lavorare o lasciare che le aziende se ne liberino il prima possibile. Molto meno degli altri Paesi avanzati investiamo sulle condizioni che favoriscono una lunga vita attiva, soddisfacente per il lavoratore maturo e produttiva per le aziende.
La demografia non condanna, ma la politica sì.
Nemmeno gli immigrati frenano il crollo dei nati nel Mezzogiorno
Nei prossimi decenni il Mezzogiorno potrebbe conoscere un declino della popolazione di proporzioni mai verificatesi nell’era moderna. È sufficiente osservare l’andamento delle nascite in tale territorio a partire dal 1960 per rendersi conto di questo crollo verticale. Negli anni ’60 nascevano al Sud in media 400.000 bambini all’anno, 280.000 negli anni ’80, appena 175.000 nell’ultimo quinquennio (2011-2016), e il futuro è ancor meno roseo secondo le ultime previsioni Istat (144.000 nati al 2030).