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Expat, la generazione delle opportunità

Si sono spesi fiumi di inchiostro e fiato da riempirci mongolfiere, sui giovani che se ne vanno dall’Italia. Peccato che quell’inchiostro e quel fiato, in molti casi, siano troppo spesso spesi male. Per piangerci addosso, per maledire un Paese che non sa valorizzare i propri talenti, per puntare il dito contro chi – politici, imprenditori, insegnanti, genitori – quei talenti (nell’accezione più ampia) non è riuscito a valorizzarli. Nella retorica dei ”cervelli in fuga” è implicito il senso di una duplice sconfitta. Di chi se ne va, perché è stato costretto a farlo. Di chi l’ha lasciato partire, per i supposti costi mal investiti nell’educazione di chi parte.
È una retorica che non ci piace e che vogliamo decostruire, mattone dopo mattone. In primo luogo perché è depressiva. Soprattutto, però, perché è sbagliata. Basterebbe guardare la realtà senza farsi inquinare la vista dall’autocommiserazione per capire che non è così e che la retorica della “fuga” è limitativa rispetto alla portata e alle implicazioni dei grandi processi in atto nel mondo che vedono protagoniste le nuove generazioni.

Dalla crisi immobiliare si esce con una nuova idea dell’abitare

Casa e lavoro sono da sempre, ma ancor più oggi, le preoccupazioni principali dei giovani italiani. Su entrambi tali obiettivi sono tramontate le certezze che hanno caratterizzato il percorso di entrata nella vita adulta dei loro genitori. Attraverso il lavoro fisso e l’acquisto di una propria casa venivano poste solide basi attorno a cui costruire la propria vita. Completava il quadro un welfare pubblico ancora generoso e in grado di rispondere a gran parte delle esigenze di protezione sociale. L’Italia cresceva più di oggi e per allargare ancor più la coperta si poteva espandere il debito pubblico. Ora quel mondo non esiste più. Per un po’ si è provato a far finta esistesse ancora, ma con l’entrata nel nuovo secolo la discrasia con la realtà è diventata sempre più evidente. Non è stata tanto la crisi a dare il colpo definitivo, ma la sua durata. Solo infatti con l’entrata nella seconda decade del XXI secolo possiamo dire che l’Italia è uscita dal Novecento, senza però avere ancora ben chiaro dove andare e come arrivarci.

Un patrimonio da valorizzare per tornare a crescere

Le nuove generazioni sono sempre state protagoniste delle fasi di crescita e cambiamento. Da qualche tempo in Italia sembrano però aver dismesso tale funzione. Le loro prerogative si sono ridotte e, non a caso, il paese ha nel contempo ridotto la sua capacità di creare ricchezza e benessere. Le difficoltà dei giovani vanno infatti considerate allo stesso tempo causa e conseguenza dello scarso dinamismo economico e sociale dell’Italia. Va però anche messo in evidenza che questo arretramento, sia del ruolo dei giovani che della crescita relativa del paese, si è prodotto assieme alla riduzione del peso demografico delle nuove generazioni. Questo aspetto è centrale per le sfide che abbiamo di fronte e va quindi ancor più sottolineato. I giovani sono sempre stati una risorsa ricca e abbondante nella storia dell’uomo. Da qualche decennio questo non è più vero. In particolare l’Italia, dopo decenni di denatalità, si trova ora particolarmente povera di persone nella  verde età. Il paradosso che vive oggi il nostro paese è che al “degiovanimento” quantitativo delle nuove generazioni non ha corrisposto un potenziamento qualitativo.

Il J Factor per welfare e lavoro

TUTTE le indagini condotte prima dell’inizio della recessione ritraevano la generazione dei Millennial — gli attuali under 35 — come una delle più orientate a produrre cambiamento e più decise a voler migliorare la realtà attorno a sé. Da qualche anno è invece indicata come la “lost generation”, ovvero quella che meno delle precedenti riuscirà a realizzare i propri obiettivi di vita e maggiormente costretta a rivedere al ribasso le proprie ambizioni. Questo è ancor più vero in Paesi come il nostro, per motivi sia culturali che politico-istituzionali. La combinazione tra iperprotezione della famiglia, economia debole, inefficienze del mercato del lavoro, tendenza delle aziende allo sfruttamento con contratti al massimo ribasso, disattenzioni e inadempienze della politica, ha creato un mix di fragilità tale da ingabbiare in molti il desiderio di spiccare il volo. Quella voglia è però ancora viva nell’animo di molti giovani. Crescente però è anche il rischio di demotivazione, soprattutto per chi parte da condizioni più svantaggiate e fa fatica a trovare nella scuola un’occasione di riscatto. Un’insegnante delle medie mi ha raccontato che non è raro sentire un alunno che spronato a impegnarsi risponde che tanto per avere successo nei talent show la matematica non conta e che se dovesse andar male ad X Factor si può sempre continuare a vivere con i genitori fino a sessant’anni e oltre. Un’opzione questa, nemmeno presa lontanamente in considerazione dai coetanei al nord delle Alpi.

L’implosione demografica del Sud

Il Mezzogiorno ha tradizionalmente rappresentato una riserva demografica per l’Italia e, nei decenni passati, la fecondità, pur declinando, è rimasta al di sopra della media nazionale. A partire dal 1995 tale tendenza ha cominciato a invertirsi, fino al sorpasso avvenuto nel 2006, quando per la prima volta la fecondità al Nord ha superato quella al Sud. Le dinamiche che nel Mezzogiorno hanno condotto a questo rovesciamento vanno dalla minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro alle difficoltà dei giovani a trovare impiego e, di conseguenza, a metter su famiglia, alla necessità sempre più frequente di cercare fortuna all’estero. Bassa natalità e forte mobilità delle nuove generazioni sono alla base del fenomeno del degiovanimento, che rischia di avvitare il Meridione in una spirale senza ritorno. Per invertire la rotta prima che sia tardi, è necessario promuovere un modello sociale che rimetta al centro le persone.