Nei giovani di ogni epoca è sempre alta la propensione a partire, ad allargare i propri orizzonti. Il “dove si va” e a “fare cosa” è spesso meno importante della spinta in sé ad avventurarsi oltre confini prestabiliti. Non è però mai stato così facile andarsene come oggi. Da un lato, è sempre più riconosciuto che andare a studiare all’estero e fare una esperienza di lavoro in un altro paese arricchisce molto conoscenze, competenze, network e aumenta il senso di autonomia e intraprendenza; tanto che l’Unione europea promuove con programmi specifici la mobilità tra paesi membri. D’altro lato, le difficoltà oggettive che i giovani incontrano nel nostro paese hanno creato un’ampia accettazione sociale del fatto che un neolaureato cerchi migliori opportunità altrove. Se poi si moltiplicano i messaggi negativi sulle prospettive di chi rimane in Italia, l’adozione di una “exit strategy” non può che consolidarsi e ampliarsi. La grande enfasi sulla “generazione perduta” e sui lunghi decenni che serviranno per tornare ai livelli pre-crisi, recentemente ripresa anche dal Fondo Monetario Internazionale, è un efficace invito a partire.
Sulla decisione di emigrare agiscono sia fattori di push che di pull: i primi sono gli elementi negativi che ci si lascia alle spalle, i secondi sono gli aspetti positivi a cui si va incontro. I fattori di pull sono in crescita anche per la maggior propensione delle nuove generazioni a muoversi, oltre che per la maggior facilità a farlo rispetto al passato. A questo si aggiunge l’azione dei fattori di push, particolarmente rilevante in paesi come l’Italia dove le opportunità – non solo attuali ma anche quelle attese nel breve e medio periodo – vengono percepite come sensibilmente più basse rispetto a gran parte degli altri paesi sviluppati.
Va inoltre considerato che le migrazioni sono un processo che, una volta messo solidamente in moto, si autoalimenta attraverso il meccanismo delle “catene migratorie”: più giovani se ne vanno e più coetanei saranno portati a fare tale scelta, sia perché è una esperienza sempre più comune tra i propri amici e conoscenti, sia perché chi si trova già all’estero diventa punto di riferimento per informazioni pratiche e primo appoggio logistico. Su questi meccanismi contano sempre di più anche le nuove tecnologie e il web. Viene utilizzato spesso il termine Expat per indicare i giovani espatriati, proprio per distinguerne atteggiamento e caratteristiche rispetto alle emigrazioni del passato. Un frutto di questa diversità è la crescita esponenziale di siti ed app di Expat e per (potenziali) Expat, che stanno mutando il modo di partire e di stare nel mondo.
L’enfasi sulla “generazione perduta” oltre che esagerata è quindi, a ben vedere, sbagliata. Non sono i giovani che si perdono ma è l’Italia che li perde. Più adeguato è invece parlare di “generazione smarrita”, ma nel senso di chi sta cercando la propria strada e fa fatica a trovarla nel nostro paese. Con il rischio quindi di diventare anche una “generazione dispersa”, non solo e non tanto in senso geografico, ma più nell’accezione di energia non usata in modo efficiente per produrre cambiamento e sviluppo. Se vogliamo che l’Italia nei prossimi anni cresca – evitando che la profezia del Fondo monetario internazionale si autoadempia – è questo rischio che va soprattutto evitato.
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L’istruzione rende di più all’estero che in Italia
Un territorio può crescere e prosperare se mette i propri abitanti nelle condizioni di realizzare, come singoli e come parte di una comunità, obiettivi economici e sociali rilevanti. Tali obiettivi possono essere ottenuti con tanto più successo quanto maggiore è la dotazione di capitale umano del territorio. I processi di sviluppo delle economie avanzate hanno, in particolare, bisogno di formazione di qualità e competenze continuamente aggiornate. Il titolo di studio è una buona misura del capitale umano non solo perché chi ha formazione più elevata parte con un patrimonio maggiore di conoscenze e competenze di base, ma anche perché con più facilità viene immesso in un percorso virtuoso di miglioramento e aggiornamento continuo.
Le nuove generazioni: un capitale su cui investiamo troppo poco
C’è un dubbio che dobbiamo sciogliere una volta per tutte e poi non discuterne più ma solo agire con coerenza e determinazione: i giovani italiani valgono veramente? Le nuove generazioni allevate nel nostro paese sono portatrici di energie ed intelligenze utili per far crescere l’Italia e farla tornare competitiva nel mondo? Se crediamo di no, allora prendiamo atto che siamo senza futuro e attrezziamoci per rendere più dolce possibile il declino. Se invece la risposta è positiva, non basta dirlo a parole, dobbiamo anche realizzare azioni concrete per far sì che quelle energie ed intelligenze diano la migliore espressione di sé. Per farlo dobbiamo intervenire sia sulla componente culturale che su quella strutturale. Riguardo al primo aspetto è necessario consolidare, ad ogni livello sociale, la convinzione che questo paese crede nei propri giovani e li considera la risorsa più preziosa su cui investire per produrre sviluppo e benessere. Aiutare i giovani ad adottare l’approccio giusto avendo attorno a sé un clima di fiducia e di stimolo continuo alla buona formazione e all’intraprendenza è una precondizione. E’ come preparare bene il terreno rendendolo fertile, ma bisogna però poi seminare, coltivare e dimostrare di essere in grado di ottenere buoni frutti. Per far questo servono misure concrete che incidono sugli aspetti strutturali, con riforme mirate e con investimenti adeguati. E’ qui che la politica viene messa alla prova e deve dimostrare quanto crede davvero nel valore sociale e produttivo delle nuove generazioni.
La generazione stage chiede vero lavoro
Il lavoro per un paese è come il vento per una barca a vela. Se non soffia, la barca rimane ferma. Ma ciò accade anche se le vele, per imperizia, non sono ben disposte. E’ inoltre vero, citando Seneca, che nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove andare. In questi anni abbiamo sentito molte discussioni sul vento che mancava o che cambiava, ma poco si è ragionato sulla direzione da intraprendere. Irrisolta è rimasta, in particolare, la questione di quale lavoro per quale modello di sviluppo.
L’ascensore sociale da far ripartire
In questi anni abbiamo subìto la recessione come si fa con un evento meteorologico. Ciascuno ha cercato di ripararsi come poteva e ora, scorgendo qualche spiraglio di sole che passa attraverso le nuvole, ci auguriamo l’un l’altro che il peggio sia passato. Dopo aver sbagliato l’approccio alla crisi rischiamo però ora di non interpretare nel modo giusto la fase di ripresa, dalla quale invece il paese potrebbe trarre grande slancio. Se non ripartiamo con il passo giusto il nostro destino è quello di rimanere irrimediabilmente nelle posizioni di coda dei paesi più sviluppati.