Ovunque le sicurezze del passato sono in discussione. Se in alcuni paesi prevale ciò che di nuovo si ottiene rispetto a quello che si perde, l’Italia sembra invece spaesata. Spinta dalla storia fuori dalla comfort zone che pensava di aver trovato negli anni Sessanta e all’interno della quale si è trincerata fin quasi alla fine del secolo scorso, ora sembra non aver ben chiaro dove andare e a fare cosa. Ad un certo punto è sembrato che la soluzione fosse semplicemente quella di entrare in Europa. Ma da tempo è oramai ben chiaro che l’appartenenza, anche convinta, all’Unione non significa agganciarsi come un vagone ad una locomotiva; non è sostitutiva del trovare una proprio modello sociale e di sviluppo coerente con i tempi nuovi. Poi è arrivata la crisi economica utilizzata come alibi per continuare nella tattica della difesa e del rinvio anziché cambiare e rilanciare.
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Servono cittadini che sanno scegliere
Sarà interessante per ciascun cittadino valutare la coerenza tra i propri progetti di vita e il nuovo corso che intende imprimere chi sostituirà Pisapia a Palazzo Marino. Un diciottenne può, ad esempio, pensare di scegliere di perfezionare il proprio capitale umano in una delle università della città oppure andare all’estero. L’eventuale decisione di fare un’esperienza di formazione o lavoro oltre confine può poi prevedere il ritorno o la scelta definitiva di rimanere altrove. Tutto questo ha a che fare con la scelta del nuovo sindaco?
Un neodiplomato o uno studente universitario può avere un’idea di startup da realizzare. Per provare a concretizzarla con successo ha bisogno di un ecosistema adeguato. Servono competenze avanzate, un ambiente stimolante, finanziamenti possibili, servizi di supporto, incubatori, luoghi di interazione e contaminazione attiva. Contano le politiche di sviluppo, di stimolo alla creazione di un network internazionale, di accesso a spazi, di facilitazione e incentivo all’innovazione da parte dell’ente pubblico?
Come investire nel futuro
Uno dei principali nodi del nostro paese è la difficoltà a far stare positivamente assieme la scelta di avere un figlio con quella di un lavoro. Favorire la possibilità di realizzare tali due obiettivi ha ricadute positive per tutti: dovrebbe quindi essere considerata una priorità per un paese che vuole crescere e migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini. Passare dalla competizione alla conciliazione tra lavoro e famiglia è stato uno dei punti di svolta principali delle società moderne avanzate. I paesi sviluppati che più hanno investito in tale direzione presentano oggi una fecondità più elevata e una maggior presenza femminile nel mercato del lavoro. Si trovano di conseguenza con un invecchiamento della popolazione meno accentuato, una crescita economia più solida, un sistema sociale più sostenibile, maggior entrate nelle famiglia e quindi anche minore povertà infantile. Se l’Italia mostra una condizione più problematica su tutti questi ultimi aspetti, nel confronto con il resto del mondo avanzato, è perché abbiamo a lungo pensato che le misure di conciliazione fossero un costo su cui risparmiare, anziché un investimento ad alto rendimento in termini di benessere sociale e crescita economica. Ci troviamo quindi ora con un numero di nascite sceso ai livelli più bassi di sempre e una occupazione femminile bloccata su valori tra i più imbarazzanti in Europa. Non è certo questo l’esito di politiche intelligenti.
Il meglio per domani dal possibile di oggi
Le nuove generazioni, cresciute nella società del benessere, si trovano oggi in condizione di scarsità. I dati appena pubblicati dall’Istat, in un approfondimento appositamente dedicato agli under 35, confermano andamenti negativi in corso da troppi anni. Raccontano di un paese in cui i giovani sono sempre di meno, nel quale trovano limitate possibilità di lavoro di qualità e dal quale ne vanno sempre di più. Il risparmio privato delle famiglie italiane, mediamente più elevato rispetto agli altri paesi, è stato fortemente eroso dalla crisi ed è messo a dura prova dalla lunga dipendenza economica dei figli. Alto debito pubblico e accentuato invecchiamento della popolazione pongono dei vincoli alla spesa sociale da destinare a formazione e welfare attivo per i giovani. Come conseguenza le nuove generazioni rischiano di trovarsi con un presente di scarse risorse e ridotte opportunità, rinviando ad un incerto futuro prossimo la realizzazione dei propri progetti di vita e ad un indefinito futuro remoto la possibilità di raggiungere una pensione decente, come ribadito anche recentemente dal presidente dell’INPS.
Il cambiamento imposto non migliora le opportunità
Siamo esperti in Italia a trasformare le opportunità in vincoli. Non sapendo governare preferiamo obbligare. E’ vero che a volte il cambiamento va forzato, ma consentendo, nel caso, di arrivare preparati e con strumenti adeguati per gestirlo con successo. Questa attenzione non c’è stata, ad esempio, con la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Con l’esito che l’occupazione giovanile non è migliorata e si è anzi espansa l’area grigia tra lavoro e non lavoro. Abbiamo così fatto scadere la flessibilità, potenzialmente positiva, in precarietà di vita. Se siamo un paese culturalmente resistente al cambiamento è anche perché la politica si è troppo spesso rivelata incapace di gestirlo in modo da ottenere vantaggi collettivi. Per crescere deve vincere il cambiamento di successo, quello che incoraggia scelte positive, non quello che complica la vita delle persone e induce reazioni difensive.