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Riecco il bonus bebè, un’arma spuntata per la natalità

Perché pochi figli?

Riecco il bonus bebè. Qualche giorno fa il ministro Beatrice Lorenzin ha proposto una sostanziale modifica degli importi erogati attraverso la misura, con l’obiettivo dichiarato di evitare il crac demografico.
Lo spostamento dell’agenda in tema di politiche sociali dall’ennesima discussione sulle pensioni a temi più alla radice dei problemi del paese non può che essere valutato positivamente. Tuttavia viene il dubbio che – ancora una volta – si usi uno strumento poco appropriato all’obiettivo dichiarato. In altre parole, il bonus bebè, sia come misura in sé sia per come è stato disegnato in Italia, appare più adatto a contenere l’alto rischio di povertà minorile che a influire in modo significativo sugli anemici tassi di natalità degli ultimi decenni.
Il primo passo per realizzare politiche che aiutino a risollevare la natalità è capire perché in Italia si fanno pochi figli.
La risposta non sta in un maggior egoismo o nichilismo dei cittadini italiani rispetto a francesi e americani. Se noi facciamo in media un figlio e un terzo e loro due non è perché noi ne desideriamo di meno, ma perché riusciamo di meno a mettere i giovani e le coppie italiane nelle condizioni di realizzare in pieno i propri obiettivi riproduttivi.
E allora diventa più utile chiedersi: perché gli italiani non fanno tutti i figli che vorrebbero fare?
Uno dei motivi principali è la condizione di difficoltà e di adattamento al ribasso che blocca non solo le ambizioni lavorative, ma ancor più i progetti di vita futuri dei giovani-adulti. I dati dell’indagine “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo mostrano come nei confronti del lavoro sia aumentata la preoccupazione del reddito adeguato, tanto da far mettere in secondo piano l’autorealizzazione.
La situazione di incertezza li porta a posticipare le tappe di entrata nella vita adulta. Subentrano poi le difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia. Di rinvio in rinvio, alla fine ci si trova a non aver avuto il numero di figli desiderato. Secondo i dati Istat, le donne rimaste del tutto senza figli sono salite dall’11 per cento nella generazione del 1950 (che ha concluso la sua storia riproduttiva alla fine del secolo scorso) al 21 per cento della generazione del 1970 (le nuove over 45).

A cosa serve il bonus?

Per come è disegnato, il bonus bebè è una misura di sostegno al reddito per coppie la cui situazione economica è poco florida. Si tratta in sostanza di un trasferimento monetario non condizionato alle famiglie a basso reddito. Il finanziamento non è vincolato a null’altro che alla prova di mezzi e la misura si estende solamente ai figli fino ai tre anni di età. Di fatto, la descrizione corrisponde a una politica di contrasto alla povertà tra le famiglie con figli sotto i quattro anni, cui tuttavia mancano misure di disegno e inclusione attiva e forme di controllo su come gli importi trasferiti vengano utilizzati. Intendiamoci, dati gli elevati livelli di povertà tra minori si tratta comunque di una misura positiva, ma è ben lungi dall’essere efficace per stimolare i tassi di natalità.

Come alzare davvero i tassi di fecondità

Se è comunque un bene mettere al centro del dibattito pubblico il sostegno alle famiglie, è ancor più importante predisporre misure efficaci in grado di restituire la fiducia di vivere in un paese che funziona e che incoraggia a fare scelte di impegno positivo verso il futuro.
Il bonus bebè non offre alle nuove generazioni le sicurezze di cui hanno bisogno prima di “avventurarsi” nella genitorialità. C’è una lunga serie di misure che lo stato può implementare e che sarebbero più appropriate per favorire la scelta di avere un figlio. Ne elenchiamo alcune (per una riflessione più ampia su approccio e misure si veda “Generare futuro”).

  1. Innanzitutto bisogna favorire l’accesso alla casa e al lavoro (stabile). Il Jobs act sembra essere un buon passo in questa direzione. Ma per l’occupazione giovanile e femminile bisogna fare di più. In questo senso la “Garanzia giovani” è lontana dall’essere una politica di successo.
  2. È poi necessario migliorare la possibilità di rimanere nel mercato del lavoro per le coppie con figli. Questo vuol dire servizi di accudimento a costi accessibili fino ai tre anni, ma anche attività rivolte ai bambini più grandi (fino almeno ai 14 anni) negli orari e periodi dell’anno in cui le scuole sono chiuse. Su questo punto negli ultimi anni si sono registrati forti tagli da parte dei comuni. E che fine hanno fatto i mille asili in mille giorni promessi dal presidente del Consiglio e dal ministro Graziano Delrio? Su passodopopasso.italia.it non se ne trova traccia.
  3. Bisogna incentivare i padri a fare la loro parte. Sono molte le ricerche che mostrano che si fanno più figli quando i padri sono più partecipi alla vita familiare. Due giorni di paternità obbligatoria sono solo simbolici, serve di più.
  4. Bisogna, infine, dare più stabilità alle politiche – anche a quelle di trasferimenti economici. Le misure episodiche, con finanziamenti insufficienti e limitati nel tempo possono essere un ottimo strumento di acquisizione del consenso elettorale, ma sono cattive politiche. Gli italiani sanno bene che i governi passano, mentre i figli rimangono.

Milano laboratorio di innovazione diffusa

Ovunque le sicurezze del passato sono in discussione. Se in alcuni paesi prevale ciò che di nuovo si ottiene rispetto a quello che si perde, l’Italia sembra invece spaesata. Spinta dalla storia fuori dalla comfort zone che pensava di aver trovato negli anni Sessanta e all’interno della quale si è trincerata fin quasi alla fine del secolo scorso, ora sembra non aver ben chiaro dove andare e a fare cosa. Ad un certo punto è sembrato che la soluzione fosse semplicemente quella di entrare in Europa. Ma da tempo è oramai ben chiaro che l’appartenenza, anche convinta, all’Unione non significa agganciarsi come un vagone ad una locomotiva; non è sostitutiva del trovare una proprio modello sociale e di sviluppo coerente con i tempi nuovi. Poi è arrivata la crisi economica utilizzata come alibi per continuare nella tattica della difesa e del rinvio anziché cambiare e rilanciare.

Servono cittadini che sanno scegliere

Sarà interessante per ciascun cittadino valutare la coerenza tra i propri progetti di vita e il nuovo corso che intende imprimere chi sostituirà Pisapia a Palazzo Marino. Un diciottenne può, ad esempio, pensare di scegliere di perfezionare il proprio capitale umano in una delle università della città oppure andare all’estero. L’eventuale decisione di fare un’esperienza di formazione o lavoro oltre confine può poi prevedere il ritorno o la scelta definitiva di rimanere altrove. Tutto questo ha a che fare con la scelta del nuovo sindaco?

Un neodiplomato o uno studente universitario può avere un’idea di startup da realizzare. Per provare a concretizzarla con successo ha bisogno di un ecosistema adeguato. Servono competenze avanzate, un ambiente stimolante, finanziamenti possibili, servizi di supporto, incubatori, luoghi di interazione e contaminazione attiva. Contano le politiche di sviluppo, di stimolo alla creazione di un network internazionale, di accesso a spazi, di facilitazione e incentivo all’innovazione da parte dell’ente pubblico?

Come investire nel futuro

Uno dei principali nodi del nostro paese è la difficoltà a far stare positivamente assieme la scelta di avere un figlio con quella di un lavoro. Favorire la possibilità di realizzare tali due obiettivi ha ricadute positive per tutti: dovrebbe quindi essere considerata una priorità per un paese che vuole crescere e migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini. Passare dalla competizione alla conciliazione tra lavoro e famiglia è stato uno dei punti di svolta principali delle società moderne avanzate. I paesi sviluppati che più hanno investito in tale direzione presentano oggi una fecondità più elevata e una maggior presenza femminile nel mercato del lavoro. Si trovano di conseguenza con un invecchiamento della popolazione meno accentuato, una crescita economia più solida, un sistema sociale più sostenibile, maggior entrate nelle famiglia e quindi anche minore povertà infantile. Se l’Italia mostra una condizione più problematica su tutti questi ultimi aspetti, nel confronto con il resto del mondo avanzato, è perché abbiamo a lungo pensato che le misure di conciliazione fossero un costo su cui risparmiare, anziché un investimento ad alto rendimento in termini di benessere sociale e crescita economica. Ci troviamo quindi ora con un numero di nascite sceso ai livelli più bassi di sempre e una occupazione femminile bloccata su valori tra i più imbarazzanti in Europa. Non è certo questo l’esito di politiche intelligenti.

Il meglio per domani dal possibile di oggi

Le nuove generazioni, cresciute nella società del benessere, si trovano oggi in condizione di scarsità. I dati appena pubblicati dall’Istat, in un approfondimento appositamente dedicato agli under 35, confermano andamenti negativi in corso da troppi anni. Raccontano di un paese in cui i giovani sono sempre di meno, nel quale trovano limitate possibilità di lavoro di qualità e dal quale ne vanno sempre di più. Il risparmio privato delle famiglie italiane, mediamente più elevato rispetto agli altri paesi, è stato fortemente eroso dalla crisi ed è messo a dura prova dalla lunga dipendenza economica dei figli. Alto debito pubblico e accentuato invecchiamento della popolazione pongono dei vincoli alla spesa sociale da destinare a formazione e welfare attivo per i giovani. Come conseguenza le nuove generazioni rischiano di trovarsi con un presente di scarse risorse e ridotte opportunità, rinviando ad un incerto futuro prossimo la realizzazione dei propri progetti di vita e ad un indefinito futuro remoto la possibilità di raggiungere una pensione decente, come ribadito anche recentemente dal presidente dell’INPS.