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I millennials non votano per partito preso

Durante la campagna elettorale si è spesso detto che Sala e Parisi si somigliano. Nel primo turno hanno staccato tutti gli altri ottenendo un’analoga percentuale di voti. Persino nel confronto di Sky hanno conquistato consensi praticamente uguali. Molto diverso è però il mondo politico a cui fanno riferimento e, di conseguenza, la Milano che rappresenteranno nei prossimi cinque anni. Tale differenza emerge in modo chiaro quando si confrontano i campioni delle preferenze nelle singole liste. Nel centrodestra i nomi sono quelli di Gelmini, Salvini e Decorato, mentre per il centrosinistra troviamo Majorino, Del Corno e Tajani. Nel secondo turno più che pensare a Renzi o al candidato sindaco, dovremmo allora decidere quale desideriamo prevalga tra questi due mondi e tra le corrispondenti concezioni della Milano sociale ed economica. Questa differenza gli elettori non l’hanno capita fino in fondo e i due candidati sindaco non sono riusciti (più Sala) o non hanno voluto (più Parisi) farla capire.

Spiegate ai giovani perché i migranti ci salveranno

Nei prossimi anni il nostro Paese, compresa gran parte d’Europa, si troverà con sempre più persone ritirate dal lavoro che assorbiranno risorse per pensioni e spesa sanitaria, da un lato, e sempre meno persone in età da lavoro, dall’altro. Un quadro che rischia di diventare insostenibile, impoverendo la capacità di produrre crescita e dare solidità al sistema sociale. È possibile rispondere a questi cambiamenti in modo positivo? Sì, a tre condizioni. La prima è favorire una ripresa delle nascite. La seconda è mobilitare nel sistema produttivo le risorse finora sottoutilizzate, in particolare giovani e donne. Il terzo è rinvigorire la popolazione con l’immigrazione, rafforzando le carenze di manodopera in vari settori e rendendo più sostenibile il rapporto tra lavoratori e inattivi.

Chi dice di non volere l’immigrazione dà quindi per scontato il declino dell’Italia. Chi è accogliente accetta invece una sfida delicata e complessa, rispetto alla quale nessun paese ha saputo sinora proporre una soluzione convincente. Se lo scenario di chiusura è impossibile (a meno di togliere l’Italia dal centro del Mediterraneo e spostarla su Marte) è però anche vero che lo scenario di flussi di entrata mal gestiti e di permanenza mal integrata è il peggiore possibile, perché non migliora la crescita e va a inasprire le diseguaglianze.

L’immigrazione è quindi una sfida inevitabile che dobbiamo imporci di vincere. Ma non può essere vinta se prima non viene capita e colta, dalla classe dirigente e dai cittadini comuni, in tutta la sua rilevanza sul nostro futuro. Richiede una soluzione sia strutturale che culturale, mentre oggi prevale lo smarrimento politico e il disorientamento sociale, come ha ben evidenziato il Cardinale Scola nei suoi recenti interventi.

I dati recenti di un approfondimento del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, indicano che il 28% dei giovani tra i 18 e i 32 anni vorrebbe il rimpatrio di chiunque arriva, siano essi profughi o persone in cerca di lavoro. La grande maggioranza è invece favorevole all’accoglienza, ma non incondizionata. L’atteggiamento di fondo appare confuso e ambivalente. Da un lato, i ragazzi italiani, come evidenziano varie ricerche, tendono a non considerare straniero il compagno di banco con genitori di nazionalità diversa e colore della pelle diverso. D’altro lato, dai media vengono bombardati con notizie di sbarchi continui, di episodi di violenza e condizioni di sfruttamento. Ragioni e valori dell’accoglienza fanno così sempre più fatica a contrastare la crescita dei timori di una presenza straniera subita e non ben integrata.

Tutto questo in un contesto di crisi economica, di welfare in sofferenza, di risorse familiari in riduzione, di bassa fiducia nelle istituzioni e di alta disoccupazione giovanile. Non stupisce quindi che i giovani italiani siano quelli più indotti, rispetto ai coetanei degli altri grandi paesi europei, a pensare che chi arriva dall’estero più che aiutarci ad allargare la torta comune ci possa costringere ad una riduzione delle fette pro capite. Gli under 30 intervistati che concordano con l’affermazione che gli immigrati peggiorano le condizioni del paese in cui vanno a vivere sono oltre il 60% in Italia e Francia. Va però tenuto presente che la Francia ha subito attentati drammatici di matrice islamica e che ha una presenza straniera maggiore della nostra. Valori più bassi, poco sopra al 40%, si registrano invece in Germania, paese nel quale risulta più larga la consapevolezza che l’immigrazione sia parte integrante del processo di crescita del paese.

Questi dati devono far riflettere perché ci dicono che rischiamo di far chiudere in difesa una generazione potenzialmente aperta al confronto positivo tra mondi e culture. Conforta, in ogni caso, il fatto che si ottengono valori meno negativi nei contesti in cui l’integrazione funziona e tra chi è più informato sul fenomeno. La maggioranza di chi dice che gli immigrati sono troppi non sa infatti dire esattamente quanti siano, tende ad enfatizzare la componente irregolare e la voce dei costi sul welfare rispetto alla ricchezza economica prodotta.

La strada è quindi quella del miglioramento degli strumenti conoscitivi rivolti ai cittadini oltre che di una responsabilità più solida della politica nella guida al cambiamento. Iniziative come Open migration, siti di informazione come Neodemos, eventi pubblici di confronto positivo tra culture, misure di successo nelle periferie come Quarto Oggiaro a Milano, mostrano che la diffidenza si può superare e che la diversità può diventare ricchezza culturale ed economica. Lasciare che una larga parte dei giovani scivoli invece dalla diffidenza all’ostilità è l’errore più grande che oggi possiamo fare, del quale possono beneficiare solo le forze politiche che speculano sulle paure e che sanno solo alzare muri.

Se l’immigrazione è una di quelle sfide a cui non possiamo sottrarci è anche vero che senza un ruolo positivo delle nuove generazioni difficilmente possiamo pensare di vincerla.

Il tempo giusto (forse) per essere giovani a Milano

Se li si forma bene e gli si offrono gli stimoli giusti diventano una risorsa preziosa per rendere le aziende italiane competitive, produrre innovazione, far crescere il territorio in cui vivono. Se non li si dota delle competenze necessarie e non si offrono opportunità vere di valorizzazione rischiano di scoraggiarsi e diventare un costo sociale. Sono i membri delle nuove generazioni, gli attuali under 30. Presentano caratteristiche simili in tutto il mondo perché sono cresciuti assieme alla realtà che cambia e sono quindi anche potenzialmente i migliori interpreti delle sfide del proprio tempo, quelle poste dalla globalizzazione, dalla rivoluzione digitale, dalle trasformazioni demografiche.

Riattivare i NEET: da vittime della crisi a protagonisti della crescita

SENZA GIOVANI E GIOVANI SENZA

Non basta uscire dalla recessione per tornare a crescere. La crisi non è come una tempesta, finita la quale il sole tornerà a brillare come prima. Anche perché il cielo italiano non era certo limpido e terso prima della crisi. La recessione non ci avrà insegnato nulla se continueremo a pensare che crescere equivalga a levare il segno negativo davanti alle variazioni del PIL. Una convinzione deve essere soprattutto chiara e condivisa: non imboccheremo mai un solido sentiero di crescita finché non diventeremo un paese in grado di trasformare le nuove generazioni in energia creativa e produttori a pieno regime di sviluppo e benessere.

La dimostrazione che sinora non ci siamo riusciti è l’abnorme numero di NEET (under 30 che non studiano e non lavorano) che abbiamo prodotto. Più in generale, siamo oggi il paese con la peggior combinazione tra riduzione del peso demografico di giovani, basso investimento in capitale umano delle nuove generazioni, alta quota di inattivi e scoraggiati, saldo negativo di interscambio di talenti con l’estero. Se dovessimo quindi sintetizzare il rischio maggiore che sta correndo questo paese e quello di perdere le nuove generazioni. Non solo abbiamo ridotto quantitativamente la presenza dei giovani nella popolazione italiana ma abbiamo desertificato l’età più fertile della vita. Tra i 20 e i 30 anni le nuove generazioni italiane si formano meno, lavorano meno, guadagnano meno e fanno meno carriera, fanno meno esperienze di autonomia e hanno meno figli, rispetto ai coetanei degli altri paesi avanzati.

Le sei “p” del nuovo welfare

C’è stata una fase nella storia di questo paese in cui tra crescita economica, welfare e demografia si è innescato un circuito virtuoso che ha portato al rialzo le condizioni di benessere materiale e di fiducia sociale. E’ stato il periodo che ha visto protagonista la generazione entrata in età adulta nel periodo della ricostruzione e nel corso del quale si è socializzata la generazione dei baby boomers.

Quel modello sociale e di sviluppo oggi non esiste più e uno dei motivi per cui economia e demografia inciampano l’una sull’altra, anziché spingersi a vicenda, va attribuito ad un welfare allo stesso tempo inadeguato e superato.

Quel sistema di protezione sociale era basato quasi esclusivamente sull’azione pubblica, con un approccio prevalentemente assistenzialistico e risarcitorio. Se oggi non funziona più, sia nel difendere da vecchi rischi che nel prevenire i nuovi, non è solo per i costi diventati insostenibili, ma ancor più per il fatto che le rigide risposte fornite dall’alto sono sempre meno in grado di dare una risposta completa ed efficace, in sintonia con l’evoluzione della domanda dal basso.

A questa inefficienza si è risposto, nel nostro paese, più tagliando  la spesa pubblica che innovando l’azione sociale. Ma i bisogni non sono certo diminuiti. Le trasformazioni demografiche, sociali e del mercato del lavoro hanno fatto emergere nuovi rischi. L’inadeguatezza delle risposte a questi cambiamenti ha portato sia ad un aumento delle disuguaglianze che a una riduzione del benessere complessivo della popolazione. Situazione aggravata dalla crisi che ha fatto crescere la vulnerabilità del ceto medio e frenato le scelte virtuose delle famiglie.

Più che tagliare è quindi necessario aprire una nuova stagione di politiche sociali in grado di rinnovare e rilanciare, sostenendo, da un lato, le persone nei percorsi che alimentano il benessere personale e familiare, ma anche continuando, d’altro lato, a proteggere dal rischio di scivolare in spirali di progressivo impoverimento. In questi ultimi casi, come mostrano molti studi, se non si interviene per tempo si genera uno “svantaggio corrosivo” che va ad intaccare profondamente la capacità di reagire e risollevarsi.

Abbiamo quindi bisogno urgentemente di un nuovo welfare che metta al centro la persona, non prendendosi in carico passivamente dei bisogni ma supportandone sviluppo umano e inclusione sociale. I risultati migliori li ottengono, del resto, le politiche sociali che considerano i cittadini come persone responsabili e attive, in grado non solo di porre domande ma anche di contribuire a fornire risposte.

In sintesi, il nuovo welfare andrebbe incardinato su sei “p”. Tre riferite agli obiettivi da affidargli: proteggere chi sta peggio, prevenire dai rischi di peggioramento, ma anche promuovere lo star meglio. E tre “p” corrispondenti agli attori da mettere assieme in campo: oltre al pubblico, anche il privato sociale e la partecipazione dei cittadini. L’insieme di tutti questi fattori sta alla base di un welfare comunitario che stimola l’innovazione sociale sul territorio puntando a favorire coesione e capacità generativa delle comunità locali, a consolidare i legami di fiducia, a dar sostegno alla propensione alla condivisione e alla corresponsabilità verso il bene comune.

Nel suo recente Rapporto annuale l’Istat ritrae le nuove generazioni, quelle nate dagli anni Ottanta in poi, come vittime di un vecchio sistema di welfare che non funziona più. Dobbiamo invece sempre più pensare ad esse, per sensibilità e competenze, come principali protagoniste di un nuovo sistema sociale più in linea con le trasformazioni in corso e con le sfide dei tempi nuovi. Un welfare che metta assieme sia innovazione che inclusione, nel quale i cittadini siano allo stesso tempo destinatari e produttori di nuovo benessere. Parte centrale di un modello sociale e di sviluppo in cui nessuno, a partire dal pubblico, si deresponsabilizza, e che anzi incentiva tutti a fare un passo avanti, verso un futuro comune e condiviso