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I giovani possono amare l’Unione solo se la conoscono e la vivono

L’uscita delle Gran Bretagna dall’Europa impone riflessioni che vanno oltre le ragioni e le conseguenze immediate di un sì o un no su una scheda referendaria. Brexit va considerato prima di tutto il riscontro di quanto il progetto europeo sia diventato debole e non pienamente convincente. A sua volta tale risultato può indebolire ancor più il percorso di integrazione e farlo implodere. E’ però anche possibile che inneschi una reazione positiva, in grado di produrre un rinsaldamento nell’immediato e metta le basi per un rilancio nel medio e lungo periodo. La possibilità che questo avvenga realmente è bassa ma non ci sono alternative e va quindi non solo auspicata ma favorita ad ogni livello. Gli attori principali per un salto qualitativo – dopo il processo di allargamento quantitativo che ha portato ad estendere ad est perdendo però ora ad ovest – sono due: le istituzioni e le nuove generazioni. Di fatto significa spingere verso l’alto il rapporto tra domanda e offerta di una migliore Europa, la prima riferita soprattutto ai giovani e la seconda alla politica.

Le generazioni che hanno subito la guerra mondiale e quelle successive che hanno vissuto il clima della guerra fredda si sono riconosciute in un desiderio di Europa diversa dal passato, che al suo interno non si sentisse divisa tra parti ostili. Oggi tale spinta si è esaurita e più che ridurre il rischio di conflitto interno serve ora un processo di vera comunione. Questo significa superare non solo i confini geografici tra popoli ma anche le barriere mentali che li separano tra di loro e che li rendono vittime delle proprie paure. Per un’Europa così si sarebbe un posto di primo piano nel mondo, mentre i singoli paesi sono destinati a smarrirsi andando da soli verso il futuro. Nel 1950 ben tre delle cinque città più popolate al mondo stavano in Europa, ora nessuna metropoli di questo continente è tra le prime quindici nel pianeta. Nello stesso lasso di tempo l’Italia è scesa dal decimo posto al ventitreesimo posto tra i paesi demograficamente più consistenti. Nel 2050 nessun paese europeo sarà tra i primi venti, nemmeno la Germania, attualmente il più popoloso ma in sensibile sofferenza demografica. Se però l’Europa fosse uno Stato verrebbe superata, come abitanti, solo da Cina e India.

Per ottenere un’Europa più forte nel mondo non basta però sommare nazioni diverse e nemmeno è sufficiente porsi regole e vincoli per stare assieme come famiglie di uno stesso condominio (peraltro composte da anziani o coppie con un solo figlio). Sono due le sfide principali che un rilancio del progetto europeo deve allora porsi e vincere: quella demografica e quella culturale, in parte intrecciate tra di loro. L’investimento quantitativo e qualitativo sulle nuove generazioni è cruciale per qualsiasi realtà sociale, economica, politica che voglia aprirsi alla produzione di nuovo benessere e non chiudersi a difesa di vecchie sicurezze. Ma allo stesso tempo è difficile che le coppie abbiano figli, che i giovani siano incoraggiati ad essere attivi e intraprendenti, che l’accoglienza di immigrati si inserisca in un contesto favorevole, se non ci si sente parte di un processo di crescita culturale comune, con valori solidi e condivisi alla base e la visione di un futuro desiderabile da raggiungere. Che le generazioni più mature abbiano perso le ragioni iniziali del progetto europeo è ben rappresentato dal voto degli over 65 al referendum inglese, caratterizzato da alta partecipazione ma con orientamento spiccato verso il Leave. Che le nuove generazioni non si sentano pienamente coinvolte in un processo di crescita comune è ben espresso dalla forte astensione degli under 25. Se un rilancio è possibile non può però che far soprattutto leva sui più giovani. Come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’istituto Toniolo, il loro atteggiamento nei confronti dell’Europa è ambivalente. Da un lato sono molti critici: quelli con titoli di istruzione più bassi soprattutto per come è stata gestita la crisi economica, per la difficoltà a proteggere le fasce più deboli, per i timori verso l’immigrazione, per la crescita di insicurezze economiche e sociali; quelli con titoli più alti soprattutto per una “delusione da attese”. D’altro lato, si riconoscono nella combinazione unica di cultura, libertà e valore della persona, intravedono le potenzialità di un salto di qualità verso gli Stati Uniti d’Europa e considerano una conquista irrinunciabile la possibilità di muoversi liberamente senza confini. Questi aspetti positivi sono ampiamente condivisi ma prevalgono, sui punti critici sopra elencati, soprattutto in chi ha capitale umano elevato e ha svolto periodi di studio o lavoro in altri paesi.

Questi dati suggeriscono la necessità di rafforzare la qualità di domanda di Europa favorendo nelle nuove generazioni processi di aumento dei livelli di formazione; migliorando la conoscenza specifica delle istituzioni europee; potenziando la possibilità di fare esperienze (in età molto giovane e con particolare attenzione per chi proviene da classi sociali basse) di crescita personale, confronto culturale, impegno civile in ambito internazionale.

Serve però, allo stesso tempo, un miglioramento dell’offerta di Europa, più in sintonia con le esigenze e le sensibilità specifiche delle nuove generazioni. Per andare in questa direzione abbiamo bisogno di istituzioni con maggior capacità di visione: in grado di favorire – all’interno – la creazione di un modello di sviluppo che sappia coniugare innovazione e inclusione sociale, ma in grado anche di esprimere – all’esterno – una posizione comune e incisiva sulle grandi questioni internazionali.

Al di là del voto inglese e dei suoi esiti, è dalle nuove generazioni e dalla loro Europa desiderata e partecipata che bisogna in ogni caso ripartire. Sempre che, anziché rassegnarsi alla disgregazione, ci sia l’effettiva volontà di scommettere su un vero progetto di rilancio.

Brexit: un voto contro le giovani generazioni

In democrazia il voto va sempre rispettato e accettato qualsiasi esito produca. Quando si chiama il popolo a decidere – anche su questioni complesse che richiederebbero conoscenze approfondite – non c’è un risultato giusto o sbagliato, ma solo da accettare e a cui dar seguito. Tutto questo in teoria. Poi c’è Brexit e tutto salta. Chi ha votato per l’abbandono dell’Unione europea presenta segni di ripensamento; i politici che hanno vivacemente sostenuto le ragioni dell’uscita appaiono ora più cauti e in parte ritrattano le promesse fatte; chi ha perso raccoglie firme per fare un altro referendum. A monte una campagna referendaria mal condotta dal fronte Remain e spregiudicata sul fronte Brexit, che ha anche conosciuto momenti tragici come l’assassinio della deputata laburista Jo Cox. A valle un risultato che pochi si aspettavano, come mostra l’euforia delle Borse il giorno prima, e nessuno era preparato a gestire, come rivela l’assenza di un piano vero di attuazione da parte del governo inglese. Si è votato per l’uscita dall’Ue, ma l’effetto più forte del voto sembra l’uscita degli scozzesi dallo Uk. Questa più che democrazia sembra una sua grottesca rappresentazione. Brexit è un caso da studiare attentamente per capire cosa dobbiamo cambiare per far funzionare davvero i meccanismi democratici.
Tra gli aspetti che hanno suscitato un acceso dibattito del post referendum c’è inoltre il fatto che ha vinto il voto degli anziani, corsi in massa alle urne, ma le conseguenze principali le vivranno i giovani, che in larga parte si sono astenuti. La divisione generazionale, sia nell’affluenza che nell’orientamento al voto, è un tema complesso e delicato, che produce opinioni molto contrastanti e richiede quindi un surplus di riflessione.
Partiamo da una premessa. Le nuove generazioni nei confronti dell’Unione europea, come mostrano varie ricerche, hanno nel complesso un atteggiamento ambivalente. Sono molto critiche rispetto alle istituzioni, a come è stato sinora realizzato il progetto europeo, a come è stata gestita la crisi, alla mancanza di un vero modello sociale. Condividono però i valori comuni (la combinazione unica tra cultura, libertà e valore della persona), ne intravedono le potenzialità e apprezzano soprattutto la possibilità di mobilità per fare esperienze di formazione e lavoro. In sintesi, questa Europa non piace ai giovani ma anziché abbandonarla vorrebbero un salto di qualità, una Europa socialmente più solida all’interno e politicamente più forte all’esterno.

Il voto degli under 35 inglesi è coerente con questo atteggiamento. Un’elevata astensione (maggioritaria per gli under 25, ma sopra il 50% comunque nella fascia 25-34) con una alta prevalenza del Remain tra chi ha votato, ben esprime l’idea di un mandato a continuare per il progetto europeo ma tenendo conto di un’ampia quota di insoddisfazione (sentita soprattutto dalle classi sociali più basse). Questo è il messaggio che sarebbe arrivato se avessero votato solo gli under 35. Questo «sì» poco entusiastico è stato però del tutto sommerso dal «no» convinto e compatto all’Europa dato delle generazioni più mature. Hanno così, di fatto, deciso gli anziani su una questione che non cambia molto la vita di un ottantenne ma che avrà conseguenze rilevanti sui ventenni sia inglesi che europei.
È interessante inoltre notare come, di fatto, i giovani che si sono astenuti non abbiano lasciato che altri coetanei decidessero per loro, hanno invece subìto la scelta di generazioni molto lontane dalla propria come sensibilità e interessi. Questo era più difficile in passato quando i giovani erano tanti e gli anziani pochi. Il rischio che – quando è in gioco una scelta che ha conseguenze soprattutto sulle nuove generazioni – la scelta dell’elettorato più giovane venga contraddetta da un orientamento contrario dell’elettorato più anziano è in continua crescita per l’invecchiamento della popolazione.
Il tema che si pone non è tanto se sia migliore il voto di un ventenne o quello di un ottantenne, visto però che sarà soprattutto il primo a beneficiare o subire domani le conseguenze delle scelte collettive prese oggi, si può pensare che sia giusto che al suo parere venga dato adeguato peso. Detto in altri termini, se da una decisione comune Ego può guadagnare 2 e perdere 2 e Alter invece al massimo può perdere 1 o guadagnare 1, è giusto che entrambi contribuiscano allo stesso modo alla scelta da prendere?
La necessità di far contare di più il futuro sulle scelte del presente è sempre più riconosciuta nel dibattito pubblico dei Paesi occidentali, anche se stenta a trovare una via innovativa di concretizzazione. In un seminario organizzato dalla Corte costituzionale nell’ambito delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, Gustavo Zagrebelsky ha affrontato la questione dei diritti delle generazioni future partendo dalla storia dell’Isola di Pasqua, «grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro, per gigantismo e imprevidenza». Come fare in modo che le generazioni di oggi non facciano scelte miopi, a danno di chi verrà dopo? Per riconoscere i diritti delle generazioni future è necessario ribilanciarli con i doveri di quelle presenti. Per estendere i diritti «nel tempo futuro, può essere necessario ridurne la portata nel tempo presente».
Un tema davvero molto complesso e delicato che richiederebbe una grande e profonda riflessione collettiva in grado di trovare soluzioni nuove, anche rimettendo in discussione vecchie e consolidate certezze.

Lezione inglese sul voto dei giovani

Le conseguenze del referendum

Il 23 giugno 2016 il popolo britannico si è espresso a favore dell’abbandono dell’Unione Europea. Un risultato ottenuto con meno del 2 percento di scarto. Un margine ridotto, in termini elettorali, ma con conseguenze certamente storiche. Ovviamente, l’esito di un voto non è mai giusto o sbagliato in sé e la decisione va semplicemente accettata e rispettata. Ci sono, tuttavia, alcune questioni che questo referendum mette in evidenza rispetto alla spaccatura che si è determinata nel paese sulle dimensioni territoriale e generazionale, oltre che su quella sociale.

Un voto che spacca

Una delle divisioni più evidenti e più immediate è quella geografica: Scozia e Irlanda del Nord – più la città di Londra – si sono espresse a maggioranza per il “remain”, mentre Inghilterra e Galles per il “leave”. Il distacco della Gran Bretagna dall’Unione potrebbe quindi avere come conseguenza una divisione interna del paese. Scozia e Irlanda del Nord hanno espresso una propria volontà che però è stata annullata da una volontà opposta altrui. Assecondando le mai sopite spinte indipendentiste, potrebbero volersi mettere nella condizione di decidere da sole per il proprio futuro. Le affermazioni della premier scozzese vanno già in questa direzione.
Una seconda dimensione, ancor più delicata e complessa da maneggiare e interpretare, è quella generazionale. Da un lato, confermando una tendenza abbastanza consolidata, la partecipazione al voto è stata maggiore per le fasce più anziane (i dati provvisori danno un’affluenza sensibilmente minoritaria sotto i 25 anni, sopra il 50 per cento tra i 25-34, per poi salire via via sin oltre l’80 per cento per gli over 65). D’altro lato, l’orientamento di voto ha visto il prevalere del “leave” per le fasce più anziane della popolazione (over 50) e invece del “remain” per quelle più giovani.
Perché tutto ciò è particolarmente interessante? Perché qualunque siano le conseguenze del voto, chi dovrà subirle maggiormente sono proprio coloro che non avrebbero voluto lasciare l’Unione Europea. Come varie indagini e ricerche evidenziano, esiste un atteggiamento ambivalente delle nuove generazioni nei confronti dell’Europa. Da un lato, i giovani sono molto critici su come è stato sinora realizzato il progetto europeo, d’altro lato si identificano in valori comuni, riconoscono potenzialità e opportunità di mobilità. Secondo i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, riferiti a un approfondimento internazionale condotto a luglio 2015, quasi il 60 per cento degli inglesi tra i 18 e i 30 anni considera favorevolmente la possibilità di spostarsi liberamente per fare esperienze di studio e lavoro in altri paesi europei.
Insomma, il ritratto è quello di una generazione che più che veder smantellato il progetto europeo lo vorrebbe rilanciato e migliorato. Un’alta astensione, ma con prevalenza del “remain”, esprime coerentemente questa posizione: il desiderio di non uscire, ma dando anche un segnale di forte insoddisfazione e incertezza su questa Europa. Il “sì” non entusiasta dei giovani è stato però spazzato via dal “no” pieno e convinto delle generazioni più anziane.

Articolo scritto in collaborazione con Paolo Balduzzi

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Come rispondere al declino demografico

I dati pubblicati dall’Istat ufficializzano la conclusione di una lunga fase di crescita della popolazione italiana. Nei primi decenni del secondo dopoguerra siamo aumentati soprattutto perché facevamo molti figli, in grado di compensare persino l’alto numero di espatri. Tale effervescente fase demografica tocca l’apice a metà anni Sessanta e si esaurisce negli anni Settanta. Nel 1977 il numero medio di figli per donna scende sotto la soglia di due, per poi inabissarsi sotto uno e mezzo nel 1984. A partire dagli anni Ottanta il saldo migratorio da negativo inizia a virare verso valori positivi aprendo una nuova fase in cui la diminuzione della popolazione italiana viene più che compensata dagli ingressi dall’estero. Le previsioni Istat, con base 2011, mettevano comunque in conto che ad un certo punto l’immigrazione non sarebbe più bastata ad alimentare la crescita totale. Questo sarebbe però dovuto accadere molto più in là, attorno al 2040, non già nel 2015. Il motivo dell’anticipazione del declino è da attribuire all’impatto particolarmente severo della crisi economica in un paese con una demografia già da tempo in sofferenza. I fattori negativi si sono inaspriti e quelli positivi si sono raffreddati: le nascite sono crollate ai livelli più bassi di sempre, le iscrizioni all’anagrafe dall’estero si sono ridimensionate, le cancellazioni verso l’estero sono lievitate. Inoltre, anche la fecondità delle donne straniere è scesa sotto i due figli per donna.

Quello che però preoccupa non è tanto essere qualche migliaio in più o in meno. Ciò che dobbiamo guardare con attenzione ed affrontare, con maggiore e rinnovata capacità che in passato, sono gli squilibri generazionali, che interagiscono con quelli sociali e territoriali. La riduzione delle nascite sottrae popolazione dal basso: rende meno consistenti le generazioni più giovani mentre la popolazione anziana continua ad aumentare ed anzi accresce il suo peso relativo. Gli over 65 di cittadinanza italiana non hanno infatti subito alcuna riduzione nel corso del 2015 e continueranno ad aumentare nei prossimi decenni. Mentre i giovani sono già da tempo in progressivo declino, tanto da poterci fregiare oggi d’essere il paese in Europa con più bassa presenza di under 30.

Il declino demografico dell’Italia va quindi soprattutto letto nel rapporto tra generazioni. I giovani sono potenziali produttori di nuova ricchezza che fa crescere l’economia e va a sostenere le politiche sociali. Gli anziani tendono più ad assorbire risorse (per pensioni e spesa sanitaria) che a generane di nuove. Il declino demografico non ci dice solo che i secondi crescono più dei primi e nemmeno che i secondi crescono mentre i primi diminuiscono: ci avverte che abbiamo reso la diminuzione dei giovani ancor più accentuata della crescita degli anziani.

Come se ne esce? Non c’è un’unica soluzione, ma un complesso di azioni che dobbiamo mettere in campo urgentemente e tutte assieme: rinvigorire le nascite, ampliare la partecipazione alla forza lavoro, rendere una sfida positiva il vivere più a lungo, aumentare l’attrazione di qualità e l’integrazione degli immigrati. Sostenere e incoraggiare i percorsi professionali dei giovani e i progetti di formazione di una famiglia consentirebbe al paese di potenziare le sue capacità produttive e generative, limitando anche la fuoriuscita verso altri paesi. Migliorare le misure di conciliazione tra lavoro e famiglia permetterebbe a molte donne (ma anche uomini) di mettere in relazione positiva la scelta di avere un figlio e di essere attive nel mercato del lavoro. Una conciliazione che sempre di più, come conseguenza dell’invecchiamento, riguarda anche la cura degli anziani non autosufficienti. Cruciale è inoltre l’apporto dell’immigrazione, che non può essere quella gestita come emergenza e piegata allo sfruttamento, ma resa parte integrante di un comune modello sociale e di sviluppo. Infine, dobbiamo valorizzare molto di più le opportunità che il vivere più a lungo offre, in ogni campo. Non tanto obbligando le persone a lavorare più a lungo per decreto ma creando le condizioni per mantenersi economicamente e socialmente attivi per scelta e con successo.

Il declino demografico non si vince guardando solo alla quantità, ma promuovendo prima di tutto la qualità della vita delle persone, delle loro relazioni, dell’essere attive ad ogni età, del poter realizzare con successo i propri progetti sia lavorativi che familiari. Tutto questo ha però fortemente bisogno anche di una politica di qualità.

I millennials non votano per partito preso

Durante la campagna elettorale si è spesso detto che Sala e Parisi si somigliano. Nel primo turno hanno staccato tutti gli altri ottenendo un’analoga percentuale di voti. Persino nel confronto di Sky hanno conquistato consensi praticamente uguali. Molto diverso è però il mondo politico a cui fanno riferimento e, di conseguenza, la Milano che rappresenteranno nei prossimi cinque anni. Tale differenza emerge in modo chiaro quando si confrontano i campioni delle preferenze nelle singole liste. Nel centrodestra i nomi sono quelli di Gelmini, Salvini e Decorato, mentre per il centrosinistra troviamo Majorino, Del Corno e Tajani. Nel secondo turno più che pensare a Renzi o al candidato sindaco, dovremmo allora decidere quale desideriamo prevalga tra questi due mondi e tra le corrispondenti concezioni della Milano sociale ed economica. Questa differenza gli elettori non l’hanno capita fino in fondo e i due candidati sindaco non sono riusciti (più Sala) o non hanno voluto (più Parisi) farla capire.