Tagged: giovani

Fare dell’Italia un paese per giovani è la sfida del futuro

E’ bene o male che sempre più persone, soprattutto giovani qualificati, decidano di trasferire la propria residenza in paesi che offrono maggiori possibilità di crescita? Le opinioni sulla crescente mobilità internazionale del capitale umano delle nuove generazioni si dividono in modo netto nel dibattito pubblico italiano, ma non esiste una risposta semplice ed univoca. Come tutte le grandi trasformazioni sociali, anche questa porta con sé sia potenziali rischi sia nuove opportunità. Per contenere i primi e favorire i secondi serve uno sforzo combinato di miglioramento nella lettura della realtà in mutamento e di intervento con politiche efficaci.

La generazione senza futuro

I paesi che forniscono ai giovani strumenti efficaci di incontro tra domanda e offerta di lavoro, che consentono ai giovani di formarsi con adeguate capacità e competenze, che stimolano il sistema produttivo a valorizzare il capitale umano dei nuovi entranti,  sono quelli che meglio possono crescere facendo leva sulla qualità del contributo delle nuove generazioni. Al contrario, i paesi che meno agiscono in tale direzione sono quelli che trasformano maggiormente i giovani da potenziale risorsa per la crescita a costo sociale.

Disinnescare le bombe. Terrore e giovani: nodo esplosivo

E’ evidente che siamo di fronte ad un mix di fattori che rende esplosiva la condizione di alcuni giovani nati in Europa da genitori provenienti da paesi di cultura islamica. La scelta di un ragazzo di morire facendo strage di coetanei, civili in festa, persino bambini, dopo che fino al giorno prima aveva frequentato quegli stessi luoghi, partecipato ad eventi simili, interagito disinvoltamente con le loro potenziali vittime, ci sconvolge. Ci sconvolge a tal punto che stiamo facendo il loro gioco, ma ancor più quello delle leadership del terrorismo che usano quei ragazzi per colpirci al cuore. Cosa vogliono da noi? Vogliono soprattutto indebolire le nostre convinzioni, farci rimettere in discussione le basi del nostro modello sociale e culturale. Vogliono che cambiamo, che reagiamo con rabbia, che ci chiudiamo e che diventiamo come loro. Vogliono che l’occidente sia spaventato da questi gesti, che si senta insicuro, che diventi vittima delle proprie paure. Perché sanno che non hanno la forza di vincere, ma possono indurci a fare errori fatali. In parte ci stanno riuscendo. Basta leggere quello che scriviamo sui social network. Basta vedere l’evidenza sui giornali e sui mass media, che sembra volutamente indirizzata a favorire l’emulazione e suscitare reazioni emotive. Se il loro obiettivo è ottenere un impatto mediatico, noi stiamo facendo di tutto per concederglielo. Se il loro obiettivo è destabilizzare politica e istituzioni, creare divisioni interne, non stanno certo mancando il bersaglio. Se un giovane su mille tra i figli di immigrati in condizione di disagio sociale, può essere sedotto dalla realizzazione di un gesto che nel contempo sia eclatante e faccia parlare di lui, che sia distruttivo verso il mondo che non lo accetta, che lo renda un martire agli occhi di dell’islamismo radicale, trova oggi un terreno fertile per dare i suoi frutti più avvelenati.

Le condizioni favorevoli sono molte. La crisi economica ha colpito soprattutto le nuove generazioni, ha inasprito le disuguaglianze e di conseguenza ha accentuato anche il senso di ingiustizia sociale. Questo effetto è amplificato dalla persistenza di una sovrapposizione tra diseguaglianze e diversità, che sta alla base anche delle rivolte degli afroamericani negli Stati Uniti. In Europa non è tanto l’immigrazione in sé a favorire queste dinamiche, ma le modalità della sua gestione rispetto alla possibilità di offrire vera integrazione. Una integrazione che riguarda le opportunità di formazione e lavoro, ma che si gioca prima ancora sul campo culturale. La sfida dell’immigrazione è complessa e delicata. Si può sia vincere che perdere. Nessuno ha una ricetta sicura, ma quel che è certo è che il nodo vero di questa sfida è incarnato nelle seconde generazioni. E’ dentro di loro che viene prima di tutto vissuta la convivenza o il conflitto tra culture diverse. Se tale confronto ha successo è un arricchimento, se fallisce produce una fragilità permanente che può interagire pericolosamente con il disagio sociale, con la sfiducia nelle istituzioni, con l’erosione delle prospettive future. Apre un vuoto di senso e di valore che i giovani di seconda generazione si trovano spesso ad affrontare da soli. E’ su questo snodo che alcuni di loro rischiano di perdersi, con la tentazione di trasformare la rinuncia ad un sogno nella volontà di lasciare un segno. Possono essere pochi, ma in grado oggi, in ordine sparso, di fare danni enormi, grazie anche alle nuove potenzialità del web e alla capacità dell’estremismo religioso di raggiungerli ovunque offrendo risposte semplici e definitive.

Rafforzare le misure di sicurezza va bene nell’immediato. Ma anziché cambiare il nostro modello sociale dovremmo con ancor più determinazione cercare di realizzarlo con pieno successo. Consentire ai giovani di non trovarsi intrappolati in condizione di insignificanza è, in particolare, la migliore azione che possiamo fare per disinnescare le bombe con le quali il terrorismo vuole minare il nostro futuro.

I giovani possono amare l’Unione solo se la conoscono e la vivono

L’uscita delle Gran Bretagna dall’Europa impone riflessioni che vanno oltre le ragioni e le conseguenze immediate di un sì o un no su una scheda referendaria. Brexit va considerato prima di tutto il riscontro di quanto il progetto europeo sia diventato debole e non pienamente convincente. A sua volta tale risultato può indebolire ancor più il percorso di integrazione e farlo implodere. E’ però anche possibile che inneschi una reazione positiva, in grado di produrre un rinsaldamento nell’immediato e metta le basi per un rilancio nel medio e lungo periodo. La possibilità che questo avvenga realmente è bassa ma non ci sono alternative e va quindi non solo auspicata ma favorita ad ogni livello. Gli attori principali per un salto qualitativo – dopo il processo di allargamento quantitativo che ha portato ad estendere ad est perdendo però ora ad ovest – sono due: le istituzioni e le nuove generazioni. Di fatto significa spingere verso l’alto il rapporto tra domanda e offerta di una migliore Europa, la prima riferita soprattutto ai giovani e la seconda alla politica.

Le generazioni che hanno subito la guerra mondiale e quelle successive che hanno vissuto il clima della guerra fredda si sono riconosciute in un desiderio di Europa diversa dal passato, che al suo interno non si sentisse divisa tra parti ostili. Oggi tale spinta si è esaurita e più che ridurre il rischio di conflitto interno serve ora un processo di vera comunione. Questo significa superare non solo i confini geografici tra popoli ma anche le barriere mentali che li separano tra di loro e che li rendono vittime delle proprie paure. Per un’Europa così si sarebbe un posto di primo piano nel mondo, mentre i singoli paesi sono destinati a smarrirsi andando da soli verso il futuro. Nel 1950 ben tre delle cinque città più popolate al mondo stavano in Europa, ora nessuna metropoli di questo continente è tra le prime quindici nel pianeta. Nello stesso lasso di tempo l’Italia è scesa dal decimo posto al ventitreesimo posto tra i paesi demograficamente più consistenti. Nel 2050 nessun paese europeo sarà tra i primi venti, nemmeno la Germania, attualmente il più popoloso ma in sensibile sofferenza demografica. Se però l’Europa fosse uno Stato verrebbe superata, come abitanti, solo da Cina e India.

Per ottenere un’Europa più forte nel mondo non basta però sommare nazioni diverse e nemmeno è sufficiente porsi regole e vincoli per stare assieme come famiglie di uno stesso condominio (peraltro composte da anziani o coppie con un solo figlio). Sono due le sfide principali che un rilancio del progetto europeo deve allora porsi e vincere: quella demografica e quella culturale, in parte intrecciate tra di loro. L’investimento quantitativo e qualitativo sulle nuove generazioni è cruciale per qualsiasi realtà sociale, economica, politica che voglia aprirsi alla produzione di nuovo benessere e non chiudersi a difesa di vecchie sicurezze. Ma allo stesso tempo è difficile che le coppie abbiano figli, che i giovani siano incoraggiati ad essere attivi e intraprendenti, che l’accoglienza di immigrati si inserisca in un contesto favorevole, se non ci si sente parte di un processo di crescita culturale comune, con valori solidi e condivisi alla base e la visione di un futuro desiderabile da raggiungere. Che le generazioni più mature abbiano perso le ragioni iniziali del progetto europeo è ben rappresentato dal voto degli over 65 al referendum inglese, caratterizzato da alta partecipazione ma con orientamento spiccato verso il Leave. Che le nuove generazioni non si sentano pienamente coinvolte in un processo di crescita comune è ben espresso dalla forte astensione degli under 25. Se un rilancio è possibile non può però che far soprattutto leva sui più giovani. Come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’istituto Toniolo, il loro atteggiamento nei confronti dell’Europa è ambivalente. Da un lato sono molti critici: quelli con titoli di istruzione più bassi soprattutto per come è stata gestita la crisi economica, per la difficoltà a proteggere le fasce più deboli, per i timori verso l’immigrazione, per la crescita di insicurezze economiche e sociali; quelli con titoli più alti soprattutto per una “delusione da attese”. D’altro lato, si riconoscono nella combinazione unica di cultura, libertà e valore della persona, intravedono le potenzialità di un salto di qualità verso gli Stati Uniti d’Europa e considerano una conquista irrinunciabile la possibilità di muoversi liberamente senza confini. Questi aspetti positivi sono ampiamente condivisi ma prevalgono, sui punti critici sopra elencati, soprattutto in chi ha capitale umano elevato e ha svolto periodi di studio o lavoro in altri paesi.

Questi dati suggeriscono la necessità di rafforzare la qualità di domanda di Europa favorendo nelle nuove generazioni processi di aumento dei livelli di formazione; migliorando la conoscenza specifica delle istituzioni europee; potenziando la possibilità di fare esperienze (in età molto giovane e con particolare attenzione per chi proviene da classi sociali basse) di crescita personale, confronto culturale, impegno civile in ambito internazionale.

Serve però, allo stesso tempo, un miglioramento dell’offerta di Europa, più in sintonia con le esigenze e le sensibilità specifiche delle nuove generazioni. Per andare in questa direzione abbiamo bisogno di istituzioni con maggior capacità di visione: in grado di favorire – all’interno – la creazione di un modello di sviluppo che sappia coniugare innovazione e inclusione sociale, ma in grado anche di esprimere – all’esterno – una posizione comune e incisiva sulle grandi questioni internazionali.

Al di là del voto inglese e dei suoi esiti, è dalle nuove generazioni e dalla loro Europa desiderata e partecipata che bisogna in ogni caso ripartire. Sempre che, anziché rassegnarsi alla disgregazione, ci sia l’effettiva volontà di scommettere su un vero progetto di rilancio.