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Culle vuote, aule ancor di più

La demografia è strettamente interdipendente, sia in termini di cause che di conseguenze, con il benessere sociale ed economico di un territorio. Se gli indicatori che riguardano la popolazione prendono una inclinazione negativa è tutto il paese che ne risente e viene trascinato verso il basso. In particolare, lo stato di salute e di benessere di una società e di una economia dipendono dalla consistenza quantitativa delle nuove generazioni e dalle possibilità di un loro qualificato contributo ai processi di sviluppo e innovazione.

Per lunga parte della storia dell’umanità, fino a qualche generazione fa, le classi giovanili hanno rappresentato la componente più abbondante della popolazione. Ancora ad inizio del secolo scorso, oltre un cittadino italiano su tre aveva meno di 15 anni e oltre la metà aveva meno di 25 anni. All’inizio del secolo attuale tali valori risultavano dimezzati. Oggi la prima fascia di età conta poco più del 13% e la seconda meno del 24%.

Più che dalla longevità in sé, gli squilibri demografici sono prodotti dalla persistente bassa natalità. In particolare quando la fecondità scende sensibilmente e sistematicamente sotto tale livello, come nel caso italiano, ogni nuova generazione viene ridimensionata rispetto alla precedente. Di fatto si ottiene un processo di “degiovanimento”, vale a dire una progressiva riduzione della popolazione più giovane. Il confronto con la Francia è molto istruttivo, perché la longevità di tale paese è molto simile a quella italiana e anche il numero di anziani è comparabile, ma il loro numero di giovani è marcatamente superiore. Questa differenza si deve soprattutto al diverso andamento della fecondità, rimasta vicina alla media di due figli in Francia, mentre è crollata molto sotto a un figlio e mezzo (1,32 è il dato del 2018) in Italia. Se, come abbiamo detto, gli under 25 italiani sono oggi meno del 24%, i coetanei d’oltralpe sono oltre il 30%.

Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, tale valore è previsto ridursi ulteriormente nel nostro paese, almeno fino all’orizzonte del 2035 (scendendo sotto il 20%). Va però considerato che lo scenario della natalità è stato negli ultimi anni peggiore del previsto.

Nel 2018 le nascite in Italia sono state 449 mila. Si tratta del punto più basso di un processo di continua riduzione che negli anni della recessione si è inasprito. Rispetto al 2008 i bambini iscritti per nascita all’anagrafe sono circa 130 mila in meno. I nati da entrambi i genitori italiani sono stati meno di 360 mila nel 2017, con una riduzione di oltre 120 mila nei confronti del dato pre-crisi. Ma va registrata anche una diminuzione di quasi 10 mila di nati con almeno un genitore straniero, scesi nel complesso sotto i 100 mila.

Se il contributo dell’immigrazione è in riduzione, l’incidenza rimane elevata, poco superiore al 20% del totale dei nati (ma con valori superiori al 30% in alcune regioni del Nord). Le comunità straniere che contribuiscono maggiormente, rappresentando assieme oltre la metà dei nati da genitori non italiani, sono nell’ordine quella dei rumeni, dei marocchini, degli albanesi e dei cinesi.

Un altro dato di rilievo è l’accentuazione della riduzione delle nascite, anche al netto della componente migratoria, nelle aree del paese in maggiori difficoltà economica, con più basse opportunità di lavoro per le nuove generazioni, con meno efficienti servizi di welfare.

Il tasso di fecondità più basso è quello della Sardegna (1,06) mentre quello più alto corrisponde alla Provincia di Bolzano (1,74) seguita dalla Provincia di Trento (1,49). Eppure il numero medio desiderato di figli in Italia continua ad essere vicino a due e ad essere ancora più alto nel Sud. Mancano però le condizioni favorevoli per un riallineamento verso l’alto delle scelte di vita. E’ interessante notare che alcune regioni, soprattutto del Nord, avevano mostrato un rilevante aumento prima della crisi economica. In particolare Lombardia ed Emilia Romagna erano salite da valori attorno a 1 a livelli vicini a 1,5 dal 1995 al 2008. Questa crescita non si è verificata nel complesso del Mezzogiorno. Come conseguenza ora molte regioni del Sud si trovano con un numero medio di figli per donna sotto la media nazionale.

Se l’impatto negativo della crisi economica sulle nascite è stato maggiore del previsto (lo scenario centrale delle proiezioni Istat con base 2011 indicava un numero di nascite che si manteneva sopra il mezzo milione), si aggiungono oggi due preoccupazioni. In primo luogo per il rischio che l’impatto congiunturale della crisi porti a conseguenze irreversibili sulle scelte delle famiglie. Se le coppie che nel periodo di crisi hanno congelato le proprie scelte di allargamento della famiglia non recuperano in questi anni, rischiano di veder definitamente trasformarsi il rinvio in rinuncia. Il secondo motivo è il fatto strutturale che siamo entrati in una fase di riduzione delle potenziali madri (come conseguenza della persistente denatalità passata), questo significa che da un basso numero medio di figli per donna si ottengono ancor meno nascite che in passato perché diventano di meno le donne in età riproduttiva (le potenziali madri). Questo dovrebbe ancor più incentivare a mettere le attuali coppie che entrano in età adulta (di meno che in passato) nelle condizioni di realizzare in pieno i propri obiettivi di vita. Che sia possibile invertire la tendenza lo mostrano le politiche familiari realizzate dalla Germania e da alcuni paesi dell’Est Europa, che hanno puntato ad incentivare con misure ben mirate sostenute da adeguati finanziamenti (M. Caltabiano e C.L. Comolli, “Declino delle nascite: un problema non solo italiano”, Neodemos, 2019)

Come conseguenza di una persistente denatalità stiamo quindi vivendo la fase più accentuata della nostra storia di riduzione della popolazione giovanile, con una intensità maggiore rispetto al resto d’Europa. Le conseguenze più evidenti degli squilibri demografici prodotti sono quelle riscontrabili concretamente nelle aule scolastiche.

Accentua, inoltre, la spirale del degiovanimento quantitativo e qualitativo, anche la più alta dispersione scolastica dell’Italia rispetto alla media europea e il saldo negativo di giovani qualificati nei confronti degli altri paesi avanzati. Entrambi questi due fenomeni sono più accentuati nelle regioni meridionali, che si trovano quindi con una riduzione degli studenti delle scuole secondarie superiori inasprito dall’abbandono prematuro e con una crescente propensione dei giovani con alte aspirazioni a iscriversi negli Atenei del nord o direttamente all’estero.

Secondo i dati Istat, la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 che hanno lasciato precocemente gli studi (Early leavers from education and training-ELET) è stata nel 2017 pari al 14% a livello nazionale (contro 10,6% media Ue-28). Tra i maschi del Mezzogiorno si sale a ben il 21,5%.

Sia i dati Istat che quelli del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, evidenziano come tra i motivi della decisione di non proseguire gli studi si sia ridotto nel tempo quello della volontà di confrontarsi subito con l’esperienza di lavoro, mentre sia in crescita la mancanza di interesse nello studio, soprattutto per chi ha famiglie meno supportive. Nella valutazione che i ragazzi italiani danno ai propri insegnanti, in termini comparativi con gli altri grandi paesi europei, emerge un apprezzamento per la preparazione e le conoscenze dei propri professori, ma anche una più ridotta capacità di far appassionare e fornire stimoli.

Come inoltre evidenzia il Rapporto Svimez 2018: “Nel Mezzogiorno sono presenti livelli qualitativamente inferiori, dai trasporti, alle mense scolastiche, ai materiali didattici. Sul tasso di apprendimento al Sud pesa anche il contesto economico-sociale e territoriale: la disoccupazione, la povertà diffusa, l’esclusione sociale, la minore istruzione delle famiglie di provenienza e, soprattutto, la mancanza di servizi pubblici efficienti influenzano i percorsi scolastici e l’apprendimento”. Oltre al fattore demografico, al “depauperamento del capitale umano meridionale” contribuiscono, quindi, sia le emigrazioni universitarie che il declino del tasso di passaggio all’Università (Rapporto Svimez 2017).

L’aumento della fecondità nel Nord Italia tra il 1995 e l’inizio della recessione, in combinazione con una maggior capacità attrattiva nei confronti dell’immigrazione, consentirà nei prossimi 10 anni alla fascia d’età che corrisponde alla scuola secondaria di secondo grado di non ridursi (anzi di aumentare un po’). Per le fasce più basse e per il Sud le previsioni indicano, invece, una forte contrazione, in alcuni casi con perdite dell’ordine del 20%. Secondo le stime della Fondazione Agnelli “La riduzione della popolazione scolastica comporterà dunque una contrazione degli organici dei docenti, a partire dai gradi inferiori, per un totale di oltre 55.000 posti/cattedre persi” (S. Molina, Scuola. Orizzonte 2028: anticipare il cambiamento per governarlo, Neodemos, 2018).

Il rischio è quello di sprofondare in una spirale negativa di “degiovanimento” quantitativo e qualitativo della società. La carenza di prospettive porta i giovani ad andare altrove già nella fase di formazione o a rinunciare ad investire sulla propria istruzione.

Varie proposte possono essere suggerite nella prospettiva di spezzare tale spirale. L’approccio di fondo è quello di non rispondere alla riduzione quantitativa delle nuove generazioni con un riadattamento al ribasso dell’offerta formativa, ma, al contrario, riattivare un percorso virtuoso di stimolo tra domanda e offerta a partire da un potenziamento qualitativo (che ha ricadute sulla formazione dei giovani, sui progetti di vita, sulla riduzione delle diseguaglianze, sulle famiglie, sul territorio in cui vivono).

Una prima prospettiva è quella di una scuola a misura delle persone, come richiamato da Pierpaolo Triani in queste pagine (P. Triani, “Scuola, oltre il mito delle grandi riforme”, 3/2018). Ad esempio restituendo una “reale regia pedagogica alla vita scolastica, partendo dall’assegnare realmente ad ogni istituto il proprio dirigente e ricominciando a mettere a tema la questione dell’ampiezza delle scuole”.

In coerenza con questa è anche la proposta della Fondazione Agnelli di rispondere alla riduzione degli studenti con un rafforzamento del contrasto all’abbandono scolastici e con aumento del numero medio di insegnanti per classe, favorendo una coprogettazione interdisciplinare.

Infine, è indispensabile dare solide basi ai percorsi delle nuove generazioni, qualsiasi sia la loro condizione e provenienza, attraverso il diritto a un’educazione di qualità fin dalla prima infanzia che può essere garantito da una effettiva implementazione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni (A. Fortunati, A. Pucci, “0-6: lavori in corso. Prove di integrazione”, in Bambini, ottobre 2018). Un’operazione cruciale per potenziare copertura, qualità e continuità della formazione a partire dalla prima infanzia, con ricadute positive anche sulla conciliazione tra lavoro e famiglia, di conseguenza anche sulla natalità.

L’articolo è un estratto dell’articolo “Allarme demografico nelle aule scolastiche” Vita e Pensiero, 4/2019, p.68-72

La strada dello “Ius culturae”

L’Italia è uno dei paesi in cui il tema è più sentito, perché si trova al centro del Mediterraneo e perché la presenza straniera è cresciuta in modo particolarmente rapido nel passaggio al nuovo secolo. È quindi uno dei paesi chiave non solo per la gestione dei flussi verso l’Europa, ma di tutto ciò che mette in relazione interdipendente le dinamiche del vecchio continente e lo sviluppo dell’Africa.

La sfida che l’immigrazione pone non ha soluzioni semplici, ma ciò che è certo è che va affrontata con un coordinamento internazionale e con strumenti e misure che vadano oltre la logica dell’emergenza. Questa consapevolezza, dopo molte contraddizioni e incertezze del recente passato, sembra oggi trovare maggior terreno favorevole sia nei nuovi vertici europei che nel nuovo governo italiano.

Nell’opinione pubblica, non solo italiana, è molto sentita la preoccupazione verso la parte irregolare del fenomeno, che risulta nella percezione comune anche enfatizzata rispetto ai numeri reali. Esiste invece un ampio riconoscimento che gli stranieri bene integrati forniscano un contributo alla crescita del paese in cui vivono. Questo vale ancor più per i loro figli: per il potenziale impatto positivo sul lato sia quantitativo, compensando la bassa natalità (particolarmente accentuata in molti stati europei), sia qualitativo, convergendo con i coetanei autoctoni nel fornire vivaci energie e intelligenze per lo sviluppo futuro delle economie mature avanzate.

L’Unione europea ha tra gli obiettivi quello di favorire livelli uniformi di diritti e doveri tra immigrati regolari e cittadini comunitari. L’Italia, in particolare, è uno dei paesi occidentali con criteri più rigidi per l’ottenimento della cittadinanza. La legge sul cosiddetto “Ius soli” è naufragata nella precedente legislatura, prima del voto del 4 marzo 2018, non solo perché osteggiata dai partiti di destra, ma anche per i timori nel centrosinistra di perdere consenso con l’approssimarsi delle elezioni.

Se l’idea di concedere la cittadinanza a chi è nato in Italia ed è già residente da anni, all’interno di un processo di integrazione della famiglia, è considerata largamente condivisa, più controversa è invece l’applicazione dell’automatismo a chiunque e in qualsiasi modo arrivi sulla penisola. Più consenso potrebbe allora trovare lo “Ius culturae”, che condiziona la richiesta di cittadinanza all’aver superato con successo almeno un ciclo scolastico. Ha alla base un principio che trova forte consenso nelle nuove generazioni, ovvero che ciò che si riconosce a un giovane deve dipendere dal suo percorso e dal suo impegno, non tanto dalle caratteristiche dei genitori e dalla loro provenienza.

L’atteggiamento dei giovani è stato sondato all’interno di una indagine promossa dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo e condotta da Ipsos ad aprile 2019 su un campione rappresentativo di duemila giovani tra i 20 e i 34 anni. I risultati oggi disponibili ci dicono che oltre due intervistati su tre sarebbero “molto” o “abbastanza” d’accordo con l’introduzione dello “Ius culturae”. Poco meno di uno su quattro è poco concorde, mentre chi ha un atteggiamento di completa chiusura è meno del 10 percento.

Ci sono quindi le condizioni favorevoli, sia politiche che di opinione pubblica, per ripartire da questa proposta, che potrebbe essere ancor meglio accolta e dar frutti positivi se attivata in concomitanza con un rilancio dell’insegnamento nelle scuole dell’educazione alla cittadinanza. Scoprire e coltivare assieme il senso e il valore di una comune appartenenza, tra coetanei di diversa provenienza, aiuta a formare italiani consapevoli e a farli sentire parte attiva del miglioramento del paese in cui vivono.27

Un welfare per dare (e generare) benessere

L’Italia è tra i paesi europei che, nell’azione pubblica, di meno hanno interpretato le misure di welfare come investimento sociale verso i propri cittadini, ovvero come strumenti non solo per ricevere benessere ma soprattutto per contribuire a generarlo.

Le stesse politiche redistributive dovrebbero privilegiare le voci che al contempo consentono di ridurre le diseguaglianze di partenza e favorire il contributo di ciascuno ai processi di crescita del paese. Mettere al centro le misure che aumentano occupazione giovanile e femminile, e mettere in campo un piano di rafforzamento dell’offerta degli asili nido sul territorio – come indicato dal premier Conte nel discorso alla Camera per la fiducia al suo secondo Governo – sono azioni che vanno esattamente in questa direzione. Mirano infatti ad incidere su indicatori che da troppo tempo ci vedono in fondo alle classifiche dei paesi più sviluppati, con implicazioni negative sia sulla crescita economica che sulle diseguaglianze sociali. Tali indicatori vanno inoltre letti in combinazione tra di loro. I livelli del tasso di occupazione in età 25-49 anni delle donne single laureate sono vicini a quelli che si osservano nelle aree più avanzate d’Europa. Il tasso di occupazione per le madri con figli e titolo di studio basso si trova, invece, circa 25 punti percentuali sotto. Sono, quindi, soprattutto bassa istruzione e carenza di servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia che portano nel complesso l’Italia ad avere uno dei più bassi tassi di occupazione femminile in Europa. Espongono, inoltre, le famiglie con condizione sociale più bassa ad un alto rischio di povertà materiale ed educativa infantile. Ne consegue una trasmissione generazionale delle diseguaglianze che costituisce uno dei freni principali alla mobilità sociale. La povertà materiale ed educativa all’infanzia si associa, poi, ad alto rischio di dispersione scolastica e allo scivolamento nella condizione di NEET (giovani che non studiano e non lavorano). Esiste quindi una spirale negativa che forza al ribasso occupazione giovanile, occupazione dipendente e autonoma femminile, natalità, benessere delle famiglie, mobilità sociale, che va spezzata.

Il rafforzamento dei servizi per l’infanzia – puntando in tempi brevi ad una convergenza dal 24% attuale di copertura dei nidi al 33% fissato come target europeo – è uno degli investimenti sociali con potenziali maggiori ricadute positive individuali e collettive che il nostro paese può fare. Aiuta a ridurre gli squilibri demografici prodotti dalla denatalità consentendo di rivedere al rialzo la scelta di avere figli e di essere presenti nel mercato del lavoro; aiuta le donne a valorizzare meglio il proprio capitale umano; riduce il rischio di povertà delle famiglie con figli; riduce le diseguaglianze di partenza perché i margini maggiori di miglioramento su occupazione femminile e rischio di povertà riguardano le famiglie delle classi sociali più basse.

La funzione dei servizi per l’infanzia non è, però, meramente di custodia dei figli per i genitori che lavorano, ma deve essere pensata a favore di tutti i bambini e con finalità di formazione e promozione del loro sviluppo umano.

Pertanto non basta l’impegno ad aumentare la copertura fino al 33% e a ridurre i costi a partire dalle fasce meno abbienti, ma va garantito anche un livello di qualità di base su tutto il territorio italiano e sull’offerta sia pubblica che privata. Questo salto di qualità può essere fatto solo considerando come “diritto di ogni bambino” il poter contare su una proposta educativa stimolante e qualificata fin dall’infanzia, qualsiasi siano le caratteristiche dei genitori. La stessa lunga vita attiva ha bisogno di formazione continua, non solo estesa nelle età più mature, ma anche anticipata, declinata in coerenza con le specificità di ogni fase della vita. Con la consapevolezza, confermata da molti studi, che prima si interviene e più alto è il ritorno collettivo dell’investimento sullo sviluppo umano, in termini sia di minori costi sociali sia di maggior contributo alla crescita. I maggiori benefici, in particolare, della frequenza di nidi di qualità li ottengono, sulle dimensioni della crescita sia socio-emotiva che cognitiva, coloro che partono da condizioni familiari più svantaggiate.

Più che dalla creazione di nuovi posti, un piano strategico in questa direzione potrebbe partire da una efficiente e qualificante implementazione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni, superando così il cronico gap italiano tra nidi e scuole per l’infanzia. Le basi di un futuro più solido partono necessariamente da qui, per arricchire poi tutto il percorso di vita successivo. Non bastano però promesse vaghe – sentite troppo spesso da vari governi negli ultimi decenni – ma servono impegni concreti su obiettivi precisi e misurabili, con alla base la convinzione che le politiche familiari siano da considerare parte integrante delle politiche di sviluppo.

Quel dannoso pareggio (1-1) tra lavoratori e pensionati

Sappiamo una sola cosa certa del futuro, che è diverso dal presente. Per star meglio domani rispetto ad oggi è necessario allora operare in modo che tale diversità sia sostenibile e, possibilmente, si integri positivamente con i meccanismi che producono benessere collettivo. Dell’Italia del 2050 sappiamo che sarà strutturalmente diversa da quella di oggi, senz’altro con più popolazione nelle età considerate tradizionalmente anziane e meno persone in età lavorativa.

L’indicatore che misura il rapporto tra tali due categorie di popolazione è uno di quelli guardati con più attenzione dalle economie avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si produce ricchezza a quello dell’età in cui si assorbono risorse pubbliche per spesa previdenziale e sanitaria. Quando, nei primi decenni del secondo dopoguerra, l’Italia cresceva in modo solido – al pari o più del resto del mondo sviluppato – il primo piatto aveva un peso cinque volte maggiore del secondo. Nel 2050 ci troveremo con un rapporto 4 a 3. Si tratta di uno dei valori più squilibrati in Europa, non tanto a causa dei livelli di longevità italiani, non molto diversi da quelli francesi o scandinavi, ma per la nostra persistente bassa natalità. L’impatto sull’economia e sulla sostenibilità della spesa sociale di tale squilibrio demografico è però accentuato dai criteri di accesso alla pensione e dal numero di effettivi lavoratori tra le persone in età attiva.

Se allora, come indica il recente rapporto Ocse “Working Better with Age”, si mette ha propriamente un lavoro sul primo piatto e nel secondo chi è inattivo o in pensione, il rapporto rischia di diventare di 1 a 1. Si andrebbe, così, a configurare uno degli scenari peggiori tra i Paesi membri dell’Unione europea. L’Italia, che già oggi cresce meno rispetto al resto delle economie avanzate e ha una spesa pubblica tra le più squilibrate a favore delle generazioni più anziane, si troverebbe ad inasprire le sue difficoltà. In questo scenario andrebbe ad indebolirsi la crescita competitiva del paese, con conseguente riduzione dei margini per contenere il debito pubblico, per finanziare formazione, ricerca e sviluppo, politiche familiari. Le disuguaglianze sociali diventerebbero ancora più acute, interagendo con quelle generazionali, di genere e territoriali. Aumenterebbero ulteriormente i già particolarmente elevati livelli di povertà delle famiglie monoreddito con figli minori. Con meno investimenti e opportunità per le nuove generazioni ci si può inoltre aspettare una intensificazione del flusso di uscita dei giovani più dinamici e qualificati verso l’estero. La crescita della popolazione anziana, in carenza di politiche di conciliazione e di servizi per i non autosufficienti, porterebbe inoltre ad accentuare il carico di cura sulle famiglie, comprimendo, in particolare, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

La conseguenza sarebbe, insomma, un ampliamento delle distanze dagli altri paesi avanzati, ma anche tra le varie aree e le diverse categorie sociali all’interno del nostro paese. Se negli ultimi trent’anni i livelli del debito pubblico, delle diseguaglianze sociali, della dipendenza passiva dei giovani dalla famiglia di origine, sono aumentati, l’allargamento degli squilibri demografici va nella direzione di renderli ancora meno sostenibili, rendendo l’Italia sempre più marginale nei processi di produzione di benessere nel resto di questo secolo.

Si tratta di un destino ineluttabile? La risposta è no, ma lo diventa implacabilmente se non cambiamo, ovvero se non ci mettiamo a fare nei prossimi trent’anni quello che nei trent’anni scorsi non siamo riusciti a fare, in un contesto che nel frattempo è peggiorato. Quello che serve per scongiurare lo scenario peggiore delineato dall’Ocse e che ci condannerebbe al declino infelice, è dar peso al piatto della componente di popolazione che produce ricchezza. In tale direzione va una redistribuzione delle risorse del Paese non assistenzialista o clientelare, ma a favore delle voci che al contempo consentono di ridurre le diseguaglianze e promuovere un contributo attivo e qualificato alla crescita. L’Italia presenta attualmente tra i più bassi tassi di occupazione giovanile e femminile in Europa, ancora più bassi nel Sud e nelle categorie sociali con basse risorse socioculturali. Questo significa che politiche efficaci rivolte a queste aree e a queste categorie sono quelle in grado di dare la maggior spinta al riequilibrio del paese. Da realizzare in coerenza con le sfide che l’innovazione tecnologica pone, con la necessità di mettere positivamente assieme scelte di vita e professionali, favorendo la collaborazione tra competenze, facendo in modo che le diversità (di età, genere, provenienza) portino valore aggiunto alla crescita comune anziché alimentare diseguaglianze corrosive. Se c’è una strada che porta verso un 2050 non peggiore (forse anche migliore) del presente, va senz’altro in questa direzione.

Un governo che restituisca futuro in Italia ai giovani

Nel discorso al Senato di chiusura dell’esperienza del primo Governo Conte, il premier dimissionario ha lanciato uno sguardo in avanti sugli impegni che dovrebbe assumersi “una politica con la P maiuscola”. Al primo punto ha posto il “lavorare per offrire ai giovani giuste opportunità di vita personale e professionale: ogni giovane che parte e non torna è una sconfitta per il futuro del Paese”. Nel discorso di accettazione del mandato per la formazione di un Governo Conte bis, il premier incaricato ha poi ribadito tra le sfide principali quella di rendere l’Italia “un Paese che non lasci che le proprie energie giovanili si disperdano fuori dei confini nazionali”, ma “sia anzi fortemente attraente per i giovani che risiedono all’estero”.

La dispersione del capitale umano delle nuove generazioni viene evidentemente considerata da Giuseppe Conte uno dei segnali più preoccupanti del declino del Paese. Ne è infatti allo stesso tempo causa e conseguenza. Meno il paese cresce e offre opportunità, più i giovani ben preparati e dinamici se ne vanno. Ma più ci si priva delle “energie giovanili”, meno spinta per crescere ha il Paese.

Capacità e competenze delle nuove generazioni sono considerate la risorsa principale per produrre crescita ed innovazione nelle economie mature del XXI secolo. In Italia questa risorsa è scarsa per l’accentuata denatalità, per la più bassa incidenza di laureati rispetto alle altre economie avanzate, ma anche per la maggior facilità con cui la sprechiamo e disperdiamo. Deteniamo in Europa, del resto, anche il record di Neet, ovvero di under 35 che dopo aver concluso gli studi non riescono ad entrare saldamente nel mondo del lavoro.

Per usare una metafora sportiva è come se in una partita della nazionale noi relegassimo i giovani in panchina o li regalassimo alle altre squadre concorrenti. Nella costruzione di squadre vincenti per le sfide di questo secolo è in atto una guerra dei talenti, intesi nell’accezione più ampia, che riguarda non solo le aziende ma i “sistemi paese” più in generale. Tale guerra, ci dicono le sottrazioni annuali di laureati e dottori di ricerca, l’Italia la sta perdendo rischiando di scivolare sempre più ai margini dei processi più solidi e virtuosi di crescita dei prossimi decenni. I contesti che si collocano al centro di tale processi sono, invece, proprio quelli che offrono opportunità alle nuove generazioni. Non è un caso che in questo secolo abbiano ripreso consistenza i flussi di uscita dal Sud verso il Nord Italia e dall’Italia verso l’estero. Giovani che non partono con la valigia di cartone, ma sempre più con un tablet pieno di idee, alte aspirazioni e voglia di eccellere in contesti aperti e stimolanti. Partono per andare dove le cose accadono, per farsi parte attiva del mondo che cambia. Ciò è del tutto naturale che avvenga. Il problema non è la mobilità dei giovani in sé, ma i motivi che rendono l’Italia un polo sempre meno attrattivo all’interno dei processi che – attraverso le energie e le intelligenze delle nuove generazioni – forniscono spinta e direzione alla produzione di nuovo benessere. Una delle eccezioni più rilevanti è Milano che, in controtendenza con il resto del paese, ha visto negli ultimi dieci anni la fascia tra i 20 e i 29 anni aumentare di circa il 25 percento.

L’Istat misura il fenomeno della mobilità internazionale, da e per l’Italia, attraverso l’iscrizione e la cancellazione dall’anagrafe. Tale criterio porta a una sottostima rilevante, come documentato in varie ricerche, perché molti fuoriusciti mantengono, soprattutto nei primi anni, la residenza in Italia finché la permanenza all’estero non è consolidata e si ha necessità di formalizzarla. In ogni caso il bollettino di guerra è impressionante. Nel Rapporto annuale Istat del 2019 rivela che nell’ultimo decennio “le cancellazioni dall’anagrafe per l’estero sono aumentate in maniera marcata, passando da 62 mila a 160 mila”. Per il Mezzogiorno si aggiunge inoltre il flusso verso le regioni italiane del Centro-nord: a spostarsi sono stati circa 483 mila giovani di 20-34 anni, di cui oltre l’80 percento con istruzione medio-alta.

Generare opportunità all’altezza delle migliori aspirazioni dei giovani è l’unica vera risposta al rischio di “degiovanimento” cronico del paese, che alla persistente denatalità somma la continua emorragia verso l’estero. Cosa fare dunque? Per le nuove generazioni più che le condizioni attuali offerte da un territorio (o una azienda), conta il sentirsi parte attiva di un processo credibile di miglioramento. Anche nel Sud Italia molte aree possono diventare attrattive se in grado di coniugare le specificità locali con la valorizzazione delle competenze dei giovani, la loro spinta all’innovazione con l’apertura al mercato internazionale. In questo modo si favorirebbe sia la scelta di restare sul territorio, sia quella di tornare dopo un periodo all’estero, portando come arricchimento il valore aggiunto di tale esperienza. Un governo “per” l’Italia dovrebbe partire, con scelte nette e coraggiose, proprio da qui.