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Il Paese che dimentica i giovani

C’è una crisi che precede la grande recessione, che la congiuntura negativa ha inasprito e che prosegue anche dopo, è quella che investe le nuove generazioni italiane. Una crisi che più che a fattori contingenti esterni va attribuita a persistenti limiti strutturali (e culturali) interni.

Un’alleanza per guidare la Nave Italia

Caro Direttore,
la nave Italia sta viaggiando nella direzione sbagliata. Trasformare la rabbia diffusa in odio può dare la sensazione di alleviare i problemi. Affermare che l’Italia può fregarsene delle compatibilità internazionali è un inganno che sarà pagato caro. Immaginare che la crescita si ottenga semplicemente aumentando il debito e alimentando i consumi è una illusione pericolosa.
Più presto il paese uscirà da questa fase onirica, meglio sarà. L’Italia ha bisogno, anzi l’opportunità, di cominciare a scrivere una pagina di storia nuova.
Ma per andare al di là di questa stagione triste è necessario avere una lettura diversa.
Sono tre le piste principali su cui lavorare.
Crescita economica e sviluppo sociale devono tornare a marciare insieme. Per navigare in mare aperto non possiamo più tollerare chi distrugge valore: sperperando denaro pubblico, distruggendo l’ambiente, sfruttando il lavoro, non pagando le tasse. Attorno a politiche nuove abbiamo al contrario bisogno di alleare tutti coloro che contribuiscono alla creazione del ben-essere e ben-vivere comune. Se vogliamo trasformare la rabbia in energia, la nostra convivenza e le nostre istituzioni vanno ricostruite su un nuovo scambio “contributivo e sostenibile” cosi da ridisegnare completa-mente i rapporti cittadino-stato e lavoro-impresa. Per mettere il passato alle spalle, la vera svolta è passare dalla irresponsabilità diffusa alla partecipazione costruttiva. Non dobbiamo aver paura di darci traguardi ambiziosi: aspirare ad una società dove ciascuno (incluso chi oggi é ai margini) sia messo in condizione di dare il proprio contributo per migliorare l’esistente, sentendosene responsabile
Il valore va prima di tutto creato e poi redistribuito, in una logica dinamica e virtuosa che attribuisca alla redistribuzione una funzione di investimento mirato sia alla riduzione delle diseguaglianze che alla produzione di nuovo valore e maggior benessere. In un paese che invecchia il rapporto tra tradizione e innovazione va ristabilito investendo nei giovani e nelle loro potenzialità, senza relegarli in panchina con politiche paternalistiche e assistenzialistiche. Solo ciò che migliora oggi la capacità di essere e fare delle nuove generazioni porta ad un futuro comune migliore. Non si esce dalla crisi semplicemente immaginando che l’economia sia una macchina da rendere efficiente. La sfida che abbiamo davanti è piuttosto quella di realizzare un modello di crescita sostenibile capace di farci fare un passo in avanti sul piano culturale e spirituale. E di raccordare meglio mezzi e fini, efficienza e inclusione, innovazione e umanizzazione, individuo e collettività realizzando una crescita di qualità, attributo che non è dei sistemi ma delle persone e delle comunità. Per questo non ci sarà nessuna nuova stagione senza mettere al centro la formazione, la scuola, il lavoro. Dove anche il welfare sia visto come investimento sociale, attivo e abilitante.
Lo scopo di questo intervento è quello di innescare processi e suscitare alleanze tra le tante forze positive che già operano nel paese. Forze, autonome dai partiti politici, dei mondi vitali dell’impegno sociale, educativo, civile, non che sono oggi disperse e che rischiano di finire sommerse dall’onda alta del populismo.
Non servono manifesti e cartelli politici, è venuto il momento di associare queste forze in uno sforzo comune. Serve un passo avanti per uscire dal “ricatto di breve termine”: tutto ci dice che i progetti umani con un orizzonte corto sono inefficaci e finiscono per essere dannose.
Invece che promesse mirabolanti o imperativi categorici, il paese a cui pensiamo lavora per unire visione e competenza, innovazione e inclusione, audacia e saggezza, sogno e concretezza.
Ricominciamo da qui. Insieme.

Mauro Magatti
Marco Bentivogli
Leonardo Becchetti
Alessandro Rosina

Campania, entro 10 anni 7mila classi in meno

L’Italia si svuota dal basso e da sud. La popolazione italiana è in riduzione come conseguenza di una persistente denatalità. Un fenomeno che prima ha colpito il Nord e ora sempre più il Sud. La questione vera non è tanto l’essere di meno, ma gli squilibri demografici che ne derivano. Le generazioni quantitativamente più consistenti, nate nei primi decenni del secondo dopoguerra, si stanno spostando sempre più in età da pensione, mentre nelle classi scolastiche italiane entrano sempre meno bambini.

Ancora nel 2000, il tasso di fecondità totale, che corrisponde al numero medio di figli per donna in età riproduttiva, era pari a 1,35 nel Mezzogiorno e a 1,2 nel Nord. Le aree con fecondità più elevata erano la Campania e la provincia di Bolzano con 1,48 figli per donna. La provincia di Bolzano negli anni successivi ha visto leggermente crescere il suo valore e assestarsi attorno a 1,6. Di conseguenza il numero di nascite in tale area rimasto costante, cosicché i bambini che entrano nel sistema scolastico ogni anno oscillano attorno ai 5500. La Campania è stata invece una delle regioni che maggiormente hanno visto ridursi la natalità, perdendo completamente il vantaggio rispetto alla media nazionale. Questa accelerata convergenza al ribasso ha prodotto un forte indebolimento della base demografica della regione. La generazione di chi ha oggi 25 anni presenta una numerosità ancora abbondantemente sopra le 70 mila persone, si scende però a poco più di 60 mila per chi ha 10 anni e a meno di 50 mila per i nuovi nati. Un riscontro è, appunto, l’avvitamento verso il basso della popolazione studentesca, monitorato ormai da vari anni dalla Fondazione Agnelli.

Quali sono le implicazioni di questo processo e come si può rispondere? La prima cosa da fare è evitare che gli squilibri prodotti si allarghino ulteriormente, ovvero cercare di fermare la riduzione della natalità e ridare forza alle componenti di vitalità del territorio. Sono soprattutto due i punti nodali su cui agire, il primo è quello della relazione tra lavoro e autonomia dei giovani, il secondo è l’armonizzazione tra lavoro e famiglia nei percorsi femminili (e in corrispondenza anche maschili). Riguardo al primo nodo, la difficoltà dei giovani nel consolidare il percorso lavorativo porta ad aumentare la dipendenza dalla famiglia di origine. Come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, la situazione di incertezza porta a posticipare la formazione di una propria famiglia, condizionandola all’aver terminato gli studi, all’aver trovato un lavoro abbastanza stabile e con uno stipendio che consenta uno standard di vita dignitoso, alla prospettiva di poter acquistare casa. La difficoltà a realizzare tali tappe rende i giovani ipercauti nelle scelte verso il futuro.

Se il primo nodo pota ad un rinvio continuo del primo figlio, il secondo nodo frena la possibilità di andar oltre. Se, infatti, dopo la prima nascita ci si trova in difficoltà a rendere compatibili i tempi familiari con quelli lavorativi, per carenza di servizi per l’infanzia e per carenza di collaborazione del padre, difficilmente ci si sente incentivati ad averne un secondo. I dati comparativi europei mostrano che dove più solidi e accessibili sono gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia, chi ha lavoro sceglie maggiormente di avere un figlio e chi ha un figlio maggiormente si offre nel mercato del lavoro.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. Con la ripresa della natalità si può limitare l’ampliamento degli squilibri, ma quelli oramai prodotti dalla denatalità passata sono destinati a rimanere. Come affrontarli? La risposta principale è compensare la riduzione quantitativa delle generazioni nate negli ultimi quindici anni con un solido piano di investimento qualitativo su di essi, a partire dalla formazione. Come suggerisce la stessa Fondazione Agnelli, pensare che, dato che gli alunni sono di meno, si possa risparmiare su risorse, spazi e insegnanti, sarebbe l’implicita conferma di aver accettato un declino, non solo demografico, senza prospettive.

Dai giovani più fiducia nelle imprese che nella politica

L’azione del governo appare più orientata alla difesa e al “contro”.
Azione contro l’immigrazione, contro i privilegi della casta, contro le aziende che assumono ricorrendo troppo a contratti flessibili. Azione che risponde al timore di non perdere quanto sinora acquisito, di dare sicurezza, in coerenza con i sentimenti dell’elettorato di Lega e M5S, ma con il rischio di un ulteriore schiacciamento sul presente.
Si fa fatica a intravedere invece un’azione che aumenti le prospettive di lavoro all’interno di un solido progetto di sviluppo del Paese e di incoraggiamento alle energie positive ad aprirsi verso il futuro.
Questo trova riscontro nell’atteggiamento delle nuove generazioni, che rimangono con livelli bassi di fiducia nelle istituzioni e nello stesso nuovo governo, in attesa di vedere un’azione più concreta e convincente di miglioramento delle proprie condizioni.
Più fiducia offrono invece alle aziende, al volontariato e alla ricerca scientifica. Ovvero in contesti in cui possono diventare protagonisti per la crescita sociale ed economica del Paese.
I dati raccolti dal “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo dal 2 al 13 luglio 2018 su un campione di oltre 2mila giovani tra i 20 e i 34 anni, mostrano come chi assegna voto positivo al governo sia poco più di un giovane su tre. Sotto tale percentuale si collocano i partiti, le banche e i sindacati, ma anche i social network (che appaiono screditati da oltre due giovani su tre).
Scuola e forze dell’ordine continuano a essere considerati due punti di riferimento solidi da circa il 60% dei rispondenti. Ma piccole imprese, volontariato si collocano su livelli simili, con la ricerca scientifica che si posiziona sopra a tutto il resto.
Per converso può preoccupare che un 30% dei giovani non esprima fiducia quasi in nulla. Una sfiducia spesso legata a una condizione senza prospettive che poi diventa corrosiva in ogni dimensione della vita e della partecipazione sociale.
In positivo c’è il fatto che, nonostante le condizioni in cui si trovano i giovani italiani (si pensi al record di Neet in Europa, all’incertezza occupazionale e alle basse retribuzioni), la grande maggioranza degli intervistati guardi con fiducia alla scuola, all’impegno sociale nel volontariato, all’intraprendenza delle piccole e medie imprese, alla ricerca scientifica e all’innovazione. Ovvero nei contesti in cui si è messi nelle condizioni di imparare e fare (l’opposto della condizione di Neet in cui troppi continuano a essere intrappolati).
Rimane il punto debole del ruolo della politica e delle istituzioni. Dato confermato dal fatto che circa il 60% degli intervistati non ha visto sinora un’azione pubblica impegnata nel migliorare le condizioni delle nuove generazioni e la considera poco attenta a offrire spazi e opportunità per favorire il loro inserimento attivo nei processi di crescita sociale ed economica del Paese. Il fatto che a malapena il 10% dei giovani assegni un voto superiore o uguale a 8 al ruolo del governo e delle istituzioni su questi punti evidenzia che anche molti di coloro che hanno votato per Lega e M5S siano ancora in attesa di vedere azioni concrete che vadano oltre all’offrire difesa dai rischi di peggioramento delle condizioni presenti, per mettere le basi di un processo che immetta le nuove generazioni solidamente nei processi di costruzione di un futuro migliore.

L’ARTICOLO SUL SOLE 24 ORE

Poco lavoro e tanti sogni. Così i giovani di 18 anni si vedono a 45 anni

Mettere le nuove generazioni nelle condizioni di realizzare con successo la transizione alla vita adulta è il compito principale per un Paese che si prende cura del proprio futuro. Questo è ancor più importante oggi per la maggiore complessità e incertezza che pesa sulle scelte formative, occupazionali e familiari. In carenza di sistemi esperti efficienti di orientamento e supporto negli snodi del percorso di vita e professionale, troppi giovani rischiano di perdersi e di portare nella vita adulta delusioni e frustrazioni anziché energie e competenze per realizzarsi e far crescere il paese.