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Un nuovo patto generazionale

L’Italia continua ostinatamente a non essere un Paese per giovani e questo la rende sempre meno anche un Paese per anziani e per tutte le fasi della vita. Tutte le economie mature avanzate si trovano con anziani in aumento, grazie all’estensione della longevità, e con una natalità insufficiente a garantire un adeguato rinnovo generazionale.

Il problema principale non è l’invecchiamento e nemmeno, a ben vedere, la denatalità, ma il processo di degiovanimento. I paesi che vanno verso squilibri accentuati e sempre meno sostenibili, come l‘Italia, non sono quelli con più anziani ma quelli con meno giovani. D’altro canto, l’indebolimento delle nuove generazioni non dipende solo dalle basse nascite ma anche dai flussi di uscita verso l’estero e dalla scarsa capacità di gestire positivamente l’immigrazione. Le stesse nascite, inoltre, possono aumentare solo dove ci sono giovani messi nelle condizioni di realizzare in modo pieno i propri progetti professionali e di vita. La situazione di marginalità sociale ed economica, in cui molti si trovano, contribuisce alla crescita di sfiducia ed espone al rischio di demotivazione, che poi porta a non votare (astensionismo) o a votare con le gambe (diventando Expat).

Serve allora far arrivare ai giovani il messaggio chiaro e forte che – tanto più per il fatto di essere demograficamente di meno – il sistema paese darà ancor più attenzione alle loro esigenze e istanze. Che investirà ancor più sulla loro formazione e sulle loro opportunità. Che chi studia e si impegna, indipendentemente dalle origini, troverà strumenti adeguati per dare il meglio di sé in Italia.

Questo impegno non va però preso per i giovani, ma con i giovani e per il Paese. Non può, quindi, basarsi su rassicurazioni generiche ma richiede la definizione di un nuovo patto generazionale.

Ci sono (almeno) cinque questioni centrali che vanno esplicitamente affrontate nel nuovo patto.

La prima è quella della transizione demografica, a cui corrisponde un mutamento inedito del rapporto quantitativo tra generazioni. A fronte dell’aumento della spesa per pensioni, assistenza e cura della crescente popolazione anziana, quali garanzie ha oggi un giovane che il Paese in cui vive non si troverà ad indebolire le risorse per la formazione, le politiche abitative, gli strumenti di conciliazione tra vita e lavoro?

Il secondo punto riguarda i mutamenti all’interno del mercato del lavoro in combinazione con i cambiamenti demografici. Essere di meno non implica necessariamente trovare maggiori opportunità e maggiore valorizzazione. L’Italia rischia di rimanere vincolata in un percorso di basso sviluppo se oltre al necessario potenziamento della formazione non migliorano anche i sistemi di incontro efficace tra domanda e offerta, gli stipendi e la qualità del lavoro in generale. Se queste condizioni i giovani non le troveranno in Italia andranno sempre più a cercarle altrove. Quale impegno strutturale è in grado di prendere il sistema paese per andare in tale direzione a regime, anche oltre le risorse di Next Generation Ue?

Se non si imbocca un solido sentiero di crescita peggiorerà ulteriormente anche il debito pubblico. Qui sta il terzo punto da rinegoziare nel patto generazionale. Già oggi l’Italia scarica sulle nuove generazioni un indebitamento tra i peggiori al mondo. Come ha ricordato il Governatore di Banca d’Italia, siamo l’unico paese in Europa con interessi sul debito che bruciano l’equivalente della spesa in istruzione. Quale impegno a ridurlo nei prossimi anni? Quali obiettivi misurabili con quali modalità e quali risorse?

Il quarto punto riguarda la spesa in Ricerca, sviluppo e innovazione. Continuiamo ad essere tra le economie mature avanzate che meno investono su tale voce. Questo ha ricadute negative sulla competitività del sistema economico e sulla capacità di adattarsi alle sfide globali. Limita lo sviluppo dei settori più dinamici e competitivi che creano nuove opportunità di lavoro e consentono alle idee dei giovani di diventare nuovi prodotti e servizi che allargano il mercato.

Infine, il quinto punto è quello del peso sulle scelte collettive. La transizione demografica sta producendo uno sbilanciamento dell’elettorato a sfavore delle nuove generazioni. Per contenere questo indebolimento è necessario migliorare i meccanismi di coinvolgimento dei giovani nei processi decisionali. Serve però anche una collettività che riconosca e supporti le istanze delle nuove generazioni. In generale, come inglobare meglio – in coerenza con l’approccio dello sviluppo sostenibile – il benessere futuro nelle scelte del presente?

La ridefinizione stessa del patto generazionale è pienamente inserita in tale prospettiva. Una rinegoziazione a partire da un confronto aperto, che abbia come base condivisa l’incontro tra quello che le nuove generazioni vorrebbero poter esser e fare (in coerenza con le sfide del proprio tempo) e quello di cui ha bisogno il Paese (con le sue specificità) per rafforzare i propri processi di sviluppo e benessere.

Forse siamo ancora in tempo per mettere in sicurezza il nostro futuro demografico

La demografia italiana, un po’ come la costruzione della Torre di Pisa, via via che evolve nel corso di questo secolo rischia di andare verso uno sbilanciamento sempre meno sostenibile. Due soluzioni sono possibili. La prima impone la rinuncia di un percorso solido di crescita, con relativa condanna all’Italia del XXI a rimanere un progetto incompiuto. La seconda, analogamente all’operazione fatta a su tempo con la Torre di Pisa, richiede di reimpostare il progetto di sviluppo del paese seguendo una curvatura opposta alla pendenza. I punti dell’infrastruttura demografica da cui partire adottando questa seconda soluzione sono quelli delle generazioni di chi ha oggi tra i 45 e i 50 anni e di chi ha tra i 20 e i 25 anni.

Un approccio sistemico per riequilibrare la società italiana

Nelle società mature avanzate se si desidera che le nascite diminuiscano non è necessario mettere in atto nessuna azione di disincentivo, basta semplicemente non realizzare politiche efficaci di sostegno alla libera scelta di avere un figlio.

Il posto dei giovani, tra presente e futuro

Progettare il futuro in un contesto in continua e rapida trasformazione
È ormai consolidato come, nel corso degli ultimi decenni, i profondi mutamenti che hanno interessato le società contemporanee abbiano determinato importanti cambiamenti sulla vita di uomini e donne, che si sono trovati a vivere le proprie scelte in un contesto in continua e rapida trasformazione. Questo è avvenuto, e sta avvenendo, in uno scenario dove i sistemi di welfare (quando presenti) non sempre riescono a garantire efficaci reti di protezione. In una situazione di marcata instabilità, profondamente segnata dalla crisi economico-finanziaria del 2008, la pandemia da Covid-19 ha rappresentato un improvviso e inatteso cambiamento nelle dinamiche globali, determinato una discontinuità imprevista e improvvisa 1.

All’interno di queste dinamiche, i giovani rappresentano la componente più colpita nel breve e nel medio-lungo periodo, sia per quanto riguarda le condizioni materiali, sia relativamente ai processi e alle dinamiche di costruzione dell’identità. Rilevanti (e potenzialmente profonde) sono le conseguenze sulla propensione a investire e progettare il futuro, in un contesto in cui le politiche faticano a dare risposte efficaci e sostegni opportuni, rimanendo sbilanciate verso la tutela delle generazioni adulte (con più peso elettorale e più presenza nelle categorie più influenti e meglio rappresentate). La pandemia ha acuito le diseguaglianze intergenerazionali e intragenerazionali, mettendo a dura prova tanto i sistemi politico-istituzionali quanto i sistemi economico-produttivi. Da ultimo, le recenti tensioni politiche connesse al conflitto russo-ucraino, hanno aggiunto ulteriore incertezza, sia rispetto alle dinamiche economiche della ripresa sia nell’atteggiamento dei singoli verso il futuro.

Uno dei caratteri distintivi delle società avanzate è identificabile nel binomio complessità e rapidità, dal quale derivano molte più opzioni per le nuove generazioni, rispetto alle generazioni precedenti, ma anche un maggior grado di insicurezza rispetto alle scelte da intraprendere. In questo senso la carenza, se non la mancanza, di sistemi di orientamento e supporto negli snodi dei percorsi di vita e professionali, aumenta il vincolo al ribasso di aspirazioni e obiettivi, generando un passaggio alla vita adulta in cui si rischia di portare delusioni e frustrazioni, anziché energie e competenze, necessarie per contribuire alla crescita e allo sviluppo sociale.

Se i giovani, forse ancor più che in passato, rappresentano la chiave fondamentale per agire sul cambiamento, occorre garantire condizioni adeguate perché possano svolgere tale ruolo, a fronte dell’aumento di complessità e dell’indebolimento del loro peso demografico, in senso sia assoluto che relativo, rispetto alle generazioni più mature. Se messe nelle condizioni adeguate, le giovani generazioni rappresentano la componente della popolazione maggiormente in grado di cogliere nuove opportunità dalle trasformazioni in atto. Se, invece, i giovani sono deboli e mal supportati, il rischio è che prevalgano le fragilità esponendoli a vecchi e nuovi rischi.

L’investimento dell’Ue, il ritardo italiano
Il programma NextGenerationEU, con i suoi 750 miliardi di euro messi a budget, rappresenta la principale risposta dell’Europa per porre le basi di una nuova partenza. Al nostro Paese sono stati riconosciuti poco più di 190 miliardi confermando il ruolo che l’Italia ha deciso di giocare attraverso l’attuazione del Piano di Ripresa e Resilienza. La centralità posta dall’Unione Europea sul fattore “giovani” risiede anche nella scelta di titolare il programma proprio alle “nuove generazioni europee” prevedendo, tra le sei principali missioni dei programmi di spesa nazionali, una specifica missione dedicata alle “politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani, come l’istruzione e le competenze”.

Nonostante la consistente quota destinata all’Italia, il nostro Paese non ha ritenuto necessario declinare le politiche per il contrasto al divario delle giovani generazioni all’interno del proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), limitandosi, peraltro anche in tema di pari opportunità, a prevedere una generica (quanto poco monitorabile) “priorità orizzontale”. Nonostante ciò, a livello politico si sono attivate anche misure che vanno nel senso di una attenzione specifica, come l’istituzione del COVIGE – Comitato per la Valutazione dell’Impatto Generazionale delle politiche pubbliche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri 2.

Il progressivo processo di disinvestimento sulle giovani generazioni, che ha caratterizzato negli ultimi decenni il nostro Paese, incidendo in termini di riduzione in quantità e qualità adeguata di nuovi entranti nella popolazione, nella società, nell’economia, non è solo iniquo ma anche controproducente 3. Determina una riduzione delle loro prospettive anche rispetto agli ambiti e ai territori nei quali vivono: partecipano di meno al mercato del lavoro, rimangono più a lungo dipendenti dalle famiglie, si devono adattare a lavori spesso irregolari o sottopagati, oppure scelgono di emigrare. La lunga dipendenza dai genitori rappresenta sempre più una risposta a squilibri generazionali e all’aumento delle incertezze occupazionali.

Il tema delle diseguaglianze strutturali continua a rappresentare un elemento determinante e discriminante nelle chance che definiscono il destino sociale. In definitiva, i giovani italiani sono numericamente pochi, risultano meno formati a livello avanzato, poco valorizzati quando si inseriscono nel sistema produttivo, più passivamente a carico del sistema pubblico o della famiglia di origine 4. Se compariamo l’Italia con gli altri Paesi europei, emerge come i giovani siano meno messi nella condizione di creare valore per il “sistema Paese” e più esposti al rischio di diventare un peso in termini di costi sociali.

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La trappola demografica evitabile solo migliorando la messa a terra delle politiche

Siamo entrati nell’anno dell’inversione di tendenza delle nascite? Quasi certamente nel 2022 si interromperà l’impressionante sequenza di record negativi osservati nel recente passato, ma non è ancora ben chiaro quanto ci rialzeremo. All’uscita dalla Grande recessione del 2008-13 l’Italia non ha mostrato alcuno slancio vitale. Dopo il minimo storico pari a 503 mila nel 2014, le nascite sono scese sotto 500 mila nel 2015 e poi via via ancor più sotto fino a 420 mila nel 2019. Nel 2020 si è aggiunto l’impatto negativo della crisi sanitaria. Nel complesso, in meno di quindici anni, dal 2008 al 2021, l’Italia è crollata da 577 mila a 400 mila nati. Ricordiamo che il dato del 2008 era comunque già di oltre 200 mila unità inferiore alle nascite osservate a metà degli anni Settanta, prima che il numero medio di figli per donna scendesse definitivamente sotto 2 (livello che garantisce l’equilibrio tra generazioni).