Tagged: donne

Contro l’inverno demografico serve una politica dell’inclusione per giovani, donne e immigrati

di EMANUELE FELICE E ALESSANDRO ROSINA

Quale sarà il futuro dell’Italia? Forse lo spopolamento interno, il declino demografico che porta con sé anche il declino economico e culturale? E come possiamo evitarlo? Se l’inverno demografico è un pericolo reale, già in corso, la politica più adatta a fronteggiarlo non è quella conservatrice e nazionalista, come una certa vulgata vuol far passare. Al contrario, è quella che proviene da una visione progressista fondata su diritti e inclusione, e su un approccio razionale e relazionale, privo di pregiudizi.

Partiamo dai dati. L’Italia si distingue in Europa soprattutto per una natalità da lungo tempo molto bassa: la media Ue è scesa a 1,5 figli in media per coppia, l’Italia è da 40 anni sotto tale livello, e di recente il dato è ulteriormente peggiorato. Questo aspetto si lega a un doppio svantaggio competitivo dell’Italia. Il primo è, a fronte dell’aumento della componente anziana, una maggior riduzione della forza lavoro potenziale.

Il secondo svantaggio competitivo è il sottoutilizzo del capitale umano delle nuove generazioni e delle donne: per il primo aspetto, si pensi che la Germania presenta una percentuale di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) pari a meno della metà dell’Italia; per il secondo, si pensi che la Svezia presenta un divario occupazionale di genere di circa 5 punti percentuale, nell’Unione è pari a 10, mentre in Italia siamo al doppio, quasi 20 punti (e questo è in buona parte riconducibile al gap fra l’occupazione delle donne senza figli e con figli).

LEGGI ARTICOLO COMPLETO

Perché il lavoro femminile fa bene sia alla demografia che all’economia

Non c’è alcun motivo per pensare che due gemelli di sesso diverso che nascono oggi debbano trovarsi a metà di questo secolo, quando avranno 28 anni, con opportunità diverse di occupazione e remunerazione solo perché uno maschio e l’altra femmina. Nemmeno si può pensare che per aver stesse possibilità lavorative chi è donna debba rinunciare ad avere figli, come invece accade alle 28enni attuali. Il tasso di fecondità delle under 30 italiane è tra i più bassi in Europa e lo stesso vale per il tasso di occupazione femminile in età 25-29 anni. Quest’ultimo risulta attorno al 50% contro il 65% della Spagna, il 70% medio europeo, il 75% della Francia, con valori ancor più alti nel Regno Unito, in Germania e nei paesi scandinavi. Non migliora molto nella fascia tra i 30 e i 34 anni, dove la percentuale di occupate in Italia arriva al 57%, non riuscendo a recuperare nemmeno il livello medio europeo osservato nella fascia precedente.

Mamme e lavoro, le nuove garanzie al tempo del Covid

Quella che si celebra oggi è una festa della mamma molto particolare, che cade in un punto indefinito tra una vecchia quotidianità perduta e una nuova normalità tutta da reinventare. Consolidati strumenti di supporto e abituali punti di riferimento risultano messi in discussione.

Mentre non è ancora chiaro cosa verrà ripristinato, cosa verrà perso per sempre, e a cosa di nuovo bisogna prepararsi. Molte madri si trovano così, in questa fase di passaggio, a far fronte ad una combinazione tra inasprimento delle difficoltà oggettive e accentuazione dell’incertezza verso il futuro. Si ottiene un variegato mix di rinunce, complicazioni e insicurezza che colpisce, con dosi differenziate, tre condizioni che ruotano attorno alla relazione con i figli e al rapporto con il lavoro.

La prima è quella delle madri che si trovano a rinunciare alla propria realizzazione professionale. L’Italia, già prima della pandemia presentava una bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro – come documenta un recente report del Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo – con valori ancor più bassi per le donne con bambini piccoli. Condizione che espone a maggior incertezza economica con corrispondente alto rischio di povertà infantile.
La seconda è quella di chi vorrebbe diventare madre ma, per mancanza di lavoro o per incerto percorso di carriera, si trova a rinviare continuamente tale scelta. L’Italia, già prima della pandemia, presentava uno dei tassi di fecondità tra i più bassi in Europa e una delle più tardive età al primo figlio. L’impatto di Covid-19 rischia di peggiorare notevolmente questo quadro, come mostrano le stime sulla natalità pubblicate dall’Istat. Mettere le donne nelle condizioni di poter realizzare – in modo integrato e con successo – scelte che generano valore sociale ed economico, deve stare alla base della nuova normalità se vogliamo trasformare, nei fatti e non solo a parole, la crisi sanitaria in una discontinuità positiva.

LEGGI ARTICOLO INTERO

Battere la denatalità infelice

L’Italia sembra avere una particolare predisposizione – al di là dei nostri desideri e delle nostre potenzialità – a generare spirali negative, e quella demografica è la spirale perfetta nel vincolare verso il basso crescita e benessere futuro. Gli squilibri prodotti sono tali che per la prima volta i nuovi nati sono meno degli ottantenni. Al primo gennaio 2018 le persone di 80 anni residenti in Italia risultano essere 482 mila, mentre le nascite nel corso del 2017 sono state 458 mila. Siamo i primi in Europa a veder realizzato tale sorpasso. Tanto per avere un ordine di paragone, nel Regno Unito e in Svezia i nuovi nati vincono 2 a 1 sugli ottantenni. Questi squilibri non sono prodotti dal fatto di vivere più a lungo (abbiamo una longevità molto simile alla Svezia), ma dalla nostra maggior denatalità.

Crisi delle nascite, un macigno sul nostro futuro

La fecondità oscilla in Europa da valori attorno ai due figli in media per donna a valori poco sopra un figlio. Quando rimane persistentemente bassa (più vicina a uno che a due figli), il calo delle nascite diventa progressivamente riduzione nelle età giovanili e successivamente erosione della popolazione al centro della vita attiva (asse portante della crescita economica e della sostenibilità del sistema di welfare).

Due casi interessanti da confrontare sono Francia e Italia. I due grandi paesi presentano livelli simili di longevità, livelli simili di preferenze riproduttive, ma dinamiche molto diverse sulla fecondità realizzata. Francesi e italiani partono a vent’anni con un analogo numero di figli desiderato (entrambi poco sopra ai due, come indicano i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo), ma i primi, nel corso della loro vita, riescono sostanzialmente a raggiungere l’obiettivo, mentre i secondi si trovano progressivamente a rinviare e a rivedere al ribasso le proprie scelte.

La conseguenza è che: a) gli italiani hanno in media il primo figlio dopo i 30 anni, ovvero quando i francesi stanno in media per avere già il secondo, b) il nostro tasso di fecondità totale (pari a 1,34) è circa un terzo sotto il loro (1,96).

Il confronto indica due cose. Che i maggiori squilibri demografici tra i due paesi (figura 1) sono da ricondurre soprattutto alle diverse dinamiche della natalità (che ci portano ad avere oltre 6 milioni di under 35 in meno) e che i più bassi valori italiani non sono da imputare a un più basso desiderio di formare una famiglia con figli. Gli squilibri a livello di popolazione stanno, quindi, soprattutto nella differenza tra quanto si vorrebbe realizzare e quello che effettivamente si riesce a fare nei progetti di vita individuali. E quella differenza è lo spazio di azione delle politiche, carenti e occasionali in Italia e ben mirate e solide in Francia. Insomma il divario nasce da un approccio culturale, a monte, con opportuni strumenti a sostegno delle scelte individuali e di coppia, nel mezzo, da cui derivano i comportamenti riproduttivi, a valle.

Approccio cultuale e servizi fanno la differenza

Sulle differenze a valle abbiamo già detto. L’approccio diverso a monte ha a che fare con l’idea, più presente in Italia, che i figli siano un costo privato dei genitori, contro la convinzione, più consolidata in Francia, che le nuove generazioni siano un bene collettivo su cui investire in modo solido a vantaggio di tutto il paese. Coerentemente, il sistema di tassazione francese rende meno gravosi i costi dell’allevamento di un figlio. Il loro “quoziente familiare”, in particolare, consente di calcolare l’imposta non solo in relazione al reddito complessivo, ma anche in funzione delle persone a carico di quel reddito.

Il sostegno sul versante economico alle famiglie con figli risulta nel complesso più generoso, mentre in Italia risulta sia più debole che più frammentato (una selva di assegni, detrazioni, bonus) e alla fine anche più inefficiente e iniquo, ovvero meno in grado di aiutare davvero le famiglie e ridurre le diseguaglianze di partenza.

La proposta di Matteo Renzi di un bonus figli di 80 euro (per famiglie con minori) può essere utile solo se è alla base di un progetto più ampio di razionalizzazione e maggior stabilità delle misure a favore delle famiglie (nella prospettiva di un “assegno universale unico” come previsto da un disegno di legge in discussione in Parlamento).

Oltre agli aiuti monetari – che vanno soprattutto razionalizzati e meglio mirati – la differenza con la Francia e altri paesi con fecondità meno sofferente, la fanno i servizi. Quello che va potenziato sono soprattutto strumenti che mettono demografia ed economia in relazione virtuosa tra di loro, grazie a un welfare attivo che aiuti a riconnettere lavoro e scelte di vita. In particolare, la carenza di politiche attive (a cominciare da servizi per l’impiego efficienti) contribuisce a far scivolare molti giovani nella condizione di Neet (o a mal collocarsi nel mondo del lavoro), con il conseguente rinvio dell’autonomia dai genitori e della formazione di una propria famiglia. Non è un caso se siamo uno dei paesi con maggior crollo della fecondità under 30 e maggior rinvio del primo figlio. Quando poi arriva il primogenito, le coppie italiane si scontrano con carenti politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia, in particolare con un meno diffuso e meno accessibile (per costi e orari) sistema di servizi per l’infanzia (il tasso di copertura italiano è la metà di quello francese). Non vale solo per il lavoro dipendente, come confermano le richieste di “Donne Impresa” di Confartigianato.

L’impegno a rendere più solido il futuro

Misure di questo tipo dovrebbero diventare la priorità non solo per la denatalità, ma anche per ridurre le diseguaglianze e per una più solida crescita del paese. Consentono, infatti, ai cittadini di realizzare meglio i propri obiettivi di vita e alle famiglie con figli di proteggersi dal rischio di povertà. Ma aiutano anche a contenere gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, a renderne più sostenibili i costi e a rafforzare la crescita economica aumentando la platea (in particolare nuove generazioni e donne) di chi è attivo e produce ricchezza nel paese.

Ma per andare in questa direzione ci vuole coraggio, che è quello di non promettere nessun euro in più alle pensioni (semmai rendere al suo interno la spesa più efficiente ed equa) e investire tutto quello che serve per rendere più solido il paese con le nuove generazioni. C’è qualche forza politica pronta a prendersi questo impegno?

QUI L’ARTICOLO PUBBLICATO SU LA VOCE