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Mancare l’appuntamento con il Pnrr condannerà i Comuni alla marginalità

Nessuna provincia vince e nessuna perde nella classifica della qualità della vita. Vince o perde tutto il paese assieme. Vince quando la grande varietà che esprime il suo territorio è aiutata a diventare valore. Perde, invece, quando le differenze interne sono alimentate dalle diseguaglianze. Vince, inoltre, quando tutte le fasi della vita sono vissute positivamente con le proprie specificità e in relazione virtuosa tra di loro. Perde, invece, quando si creano squilibri, soprattutto dal basso, che portano poi ad uno scadimento progressivo a danno di tutti.

Questo significa che se l’Italia vuole ripartire dopo l’impatto della pandemia ripensando e riorientando il proprio percorso di sviluppo, deve farlo attraverso meccanismi in grado di generare valore all’interno di un sistema spazio-temporale che ha come coordinate la dimensione territoriale e le dinamiche generazionali. I dati sugli indicatori di benessere presentati domenica scorsa al Festival dell’Economia di Trento e pubblicati lunedì su queste pagine, hanno come pregio principiale proprio quello di fornire un quadro su scala provinciale della qualità della vita e nelle varie fasi della vita. Quando si sintetizzano indicatori diversi nessuna metodologia è esente da limiti. Ciò che rende solido il ritratto fornito è l’uso di un ampio set di dati su vari ambiti. In questo modo nessun indicatore può da solo condizionare il risultato finale e allo stesso tempo vengono integrati diversi aspetti delle condizioni di benessere che interessano la vita quotidiana dei cittadini. Inoltre l’informazione di rilievo, nell’esercizio proposto, è il posizionamento relativo delle varie province e la possibilità di valutarne l’evoluzione nel tempo. Dopo la prima edizione dell’anno scorso, già quest’anno è possibile apprezzare le variazioni. Se è vero che i dati del 2021 portano ancora in sé i limiti del percorso passato e l’impatto della crisi sanitaria, qualche segnale di ripresa inizia già a vedersi, in particolare nelle province lombarde. Ma più che il recupero dei livelli passati sarà interessante vedere nei prossimi anni quali aree del paese faranno i maggiori passi in avanti cogliendo gli investimenti e i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) come opportunità di sviluppo coerente con le specificità del proprio contesto economico e sociale.

Il potenziamento della rete dei centri per l’impiego e degli asili nido sono due esempi di forte investimento strategico, in grado di far fare un salto di qualità al paese, superando carenze sul territorio che hanno alimentato squilibri demografici e diseguaglianze sociali, vincolando verso il basso, in particolare, l’occupazione femminile e giovanile. Se finalmente le risorse sono disponibili, il successo dipenderà dalla effettiva implementazione in coerenza con le specifiche caratteristiche ed esigenze dei contesti locali. Per farlo, superando anche resistenze e sfiducia, è necessario attivare circoli virtuosi alimentati da un welfare di comunità. L’emergenza NEET, i giovani che non studiano e non lavorano, è un esempio di sfida che chiede risposte sul territorio, sia in termini di politiche attive, in grado di fare da raccordo in tutta la transizione scuola-lavoro, sia attraverso un’alleanza locale, tra istituzioni pubbliche, scuola, aziende, associazioni di giovani e famiglie, che aiuti chi è ai margini a rimettersi in gioco.

Sul fronte dei nidi, come più volte sottolineato, non basta costruirne di nuovi con finanziamenti che arrivano dall’alto. Devono essere effettivamente utili e funzionali, con modalità in grado di favorire un circuito virtuoso tra domanda e offerta. La presenza dei servizi per l’infanzia è condizione necessaria ma non sufficiente, per una ripresa delle nascite. Serve un contesto più ampio favorevole. Non a caso, l’indicatore di sintesi sui bambini è quello che maggiormente discrimina tra Nord e Sud. Va, inoltre, osservato che il numero medio di figli per donna risulta maggiore a Trento che ad Aosta. La prima provincia mantiene una posizione elevata – la settima – sia nella dimensione dei bambini che in quella dei giovani, mentre Aosta passa rispettivamente dalla prima alla trentasettesima. La fascia dei giovani ha una rilevanza cruciale, perché se le nuove generazioni non trovano un contesto attrattivo dove si può coniugare positivamente lavoro, abitare e scelte di vita, il loro contributo allo sviluppo vitale del territorio rimane debole. L’indicatore più sensibile sulla presenza di queste condizioni è la natalità. Bolzano e Trento occupano le posizioni più elevate per numero medio di figli, mentre Aosta scivola nella seconda metà della classifica. Non per mancanza di servizi di qualità ma per difficoltà ad essere attrattiva pur avendo molte potenzialità, come mostra una recente ricerca commissionata dalla Regione.

Anche le grandi città si trovano con una natalità bassa che si correla, anche qui, a livelli bassi sul versante giovani. In questo caso non per mancanza di attrattività legata alle opportunità di lavoro, ma per tutti gli altri aspetti. Pesa senz’altro il costo degli affitti ma anche un livello di servizi che fatica a stare al passo con la complessità dell’organizzazione dei tempi di vita e lavoro dei centri metropolitani, dove più alta è anche la qualità attesa. Gli stessi contesti che presentano attualmente condizioni migliori per gli anziani, senza un rinnovo generazionale solido e di qualità sono destinati a veder aumentare nel tempo l’invecchiamento demografico con crescente difficoltà a garantire servizi di qualità per tutti.

Nel complesso, si conferma un ritratto con ampia variabilità, non scontato, sia in positivo che in negativo. Tranne pochi casi è difficile trovare sia province posizionate sempre in cima rispetto a tutte le tre fasce d’età sia province sempre in fondo. Anche Messina, che non va mai sopra il 75esimo posto, sui giovani fa meglio di Milano e Roma. Nel recentissimo libro “Città Italia” di Roberto Bernabò, che delinea “i nodi chiave di un’Agenda urbana per il governo della provincia italiana”, un focus è proprio dedicato a Messina e agli interessanti segnali di vitalità sociale che sta esprimendo.

La classifica del Sole 24 Ore non deve, quindi, né rassicurare né portare a rassegnazione. Come i dati testimoniano, ogni territorio combina elementi di forza assieme a limiti e fragilità. E’ allora necessario sia prendere consapevolezza dei primi, da consolidare ancora di più, sia assumere un impegno responsabile verso i secondi, cogliendo l’occasione dei fondi del PNRR per avviare processi di sostanziale miglioramento. Se finora la mancanza di risorse è stata per i Comuni un alibi, non utilizzare virtuosamente i finanziamenti disponibili rischia nei prossimi anni di diventare una colpa che condanna definitivamente ad un futuro di basso sviluppo e marginalità.

La trappola demografica evitabile solo migliorando la messa a terra delle politiche

Siamo entrati nell’anno dell’inversione di tendenza delle nascite? Quasi certamente nel 2022 si interromperà l’impressionante sequenza di record negativi osservati nel recente passato, ma non è ancora ben chiaro quanto ci rialzeremo. All’uscita dalla Grande recessione del 2008-13 l’Italia non ha mostrato alcuno slancio vitale. Dopo il minimo storico pari a 503 mila nel 2014, le nascite sono scese sotto 500 mila nel 2015 e poi via via ancor più sotto fino a 420 mila nel 2019. Nel 2020 si è aggiunto l’impatto negativo della crisi sanitaria. Nel complesso, in meno di quindici anni, dal 2008 al 2021, l’Italia è crollata da 577 mila a 400 mila nati. Ricordiamo che il dato del 2008 era comunque già di oltre 200 mila unità inferiore alle nascite osservate a metà degli anni Settanta, prima che il numero medio di figli per donna scendesse definitivamente sotto 2 (livello che garantisce l’equilibrio tra generazioni).

Ultima chiamata per evitare la trappola demografica

Le dinamiche demografiche nel decennio scorso sono risultate peggiori del previsto. In particolare, più di quanto ci si poteva attendere, è diminuita la fecondità sotto i 35 anni; l’andamento delle nascite da coppie straniere ha invertito la tendenza (passando da circa 80 mila nel 2012 a circa 63 mila nel 2019); si è ulteriormente consolidata la relazione tra rischio di povertà e numero di figli.

Si è poi aggiunto l’imprevisto della crisi sanitaria che ha ulteriormente inasprito le dinamiche negative già in corso. Eloquenti in questo senso sono i dati appena pubblicati del Secondo Rapporto del Gruppo di esperti “Demografia e Covid-19”, istituito dalla Ministra per le pari opportunità e la famiglia, dal titolo “L’impatto della pandemia di Covid-19 su natalità e condizione delle nuove generazioni”. I dati derivanti da indagini condotte durante il lockdown e a distanza di un anno, mostrano come l’impatto sia stato forte in tutta Europa ma a sospendere i propri piani di formazione di una famiglia siano risultati in misura maggiore i giovani italiani.

Lavoro di qualità per arginare la crisi demografica

La popolazione europea si è fermata e sta entrando in fase di declino. All’inizio del 2021 vivevano nell’Unione Europea poco meno di 450 milioni di persone. Si tratta di 312 mila in meno rispetto al 1° gennaio 2020. Il paese che ha contribuito maggiormente a tale riduzione è stata Italia (-384 mila). La popolazione del pianeta continua invece ad aumentare, pur a ritmi rallentati rispetto al secolo precedente e in modo molto differenziato al suo interno. Nella seconda metà del XXI secolo la spinta della crescita demografica mondiale, sempre più limitata al continente africano, andrà progressivamente ad esaurirsi. Nel frattempo la popolazione diventerà sempre più anziana, come conseguenza del declino delle nascite e dell’aumento della longevità. Gli over 65, che per tutta la storia dell’umanità fino alla fine nel millennio appena concluso avevano un peso demografico inferiore al 5 percento, entro il 2100 arriveranno ad essere circa il 22 percento, ovvero il valore che l’Italia ha già oggi.

Crollo della forza lavoro e mancanza di politiche efficaci contro il declino

La nostra penisola alla fine del secolo scorso è diventata uno dei paesi con più bassa fecondità al mondo e con maggiore contrapposizione, al proprio interno, tra crescita della fascia anziana e diminuzione di quella più giovane. L’evoluzione in direzione opposta di tali due componenti ha portato la fascia degli under 25 a dimezzarsi nel corso del secondo dopoguerra e ad essere superata, nel 2019, dalla fascia degli over 65.

In questa fase l’interesse del paese è rimasto concentrato sulla popolazione anziana e sulle implicazioni della sua crescita. Mentre il processo di “degiovanimento”, ovvero la riduzione sistematica del peso delle nuove generazioni, non è stato quasi per nulla preso in considerazione non incidendo sulla spesa pubblica. L’impatto della grande recessione del 2008 ha reso, poi, ancor più fragile la condizione delle nuove generazioni e rallentato il loro ingresso solido nel mondo del lavoro. Nel contempo anche le politiche familiari sono rimaste tra le meno sviluppate in Europa.

Da un lato, la denatalità passata, dopo aver ridotto il peso dei giovani è andata successivamente ad erodere sempre più anche la potenziale forza lavoro, d’altro lato le dinamiche più recenti delle nascite hanno mostrato un ulteriore peggioramento scendendo sui livelli più bassi di tutta la storia del paese.

L’Italia, tra la grande recessione del 2008 e la pandemia del 2020, si è trovata quindi ad entrare in un’inedita fase. I due fatti nuovi sono l’inizio di un secolare processo di declino dell’ammontare della popolazione, anticipato rispetto al resto d’Europa, e la contrazione della componente attiva della popolazione, più accentuato rispetto alle altre economie mature avanzate. Detto in altro parole, se nei decenni precedenti il rapporto tra popolazione anziana e popolazione in età attiva era peggiorato per l’esuberante crescita del numeratore, ora a tale peggioramento contribuiva sempre più anche l’indebolimento del denominatore. In particolare, sempre nel 2019, la fascia 30-34 anni risultava essersi ridotta di circa un terzo rispetto ad inizio secolo. A quel punto le implicazioni del processo di “degiovanimento”, ovvero la riduzione della forza lavoro con l’ingresso di nuove generazioni demograficamente sempre più deboli, non potevano più essere ignorate.

L’Italia si è presentata all’appuntamento con la crisi sanitaria del 2020 come uno dei paesi in Europa con meno giovani, meno inseriti nel mondo del lavoro (record di under 35 che non studiano e non lavorano), con età più tardiva di conquista della piena autonomia economica, con maggior riduzione delle donne in età riproduttiva, con più bassa fecondità in generale. Tutti aspetti sui quali l’impatto della crisi causata da Covid-19 ha prodotto un ulteriore peggioramento.

Per il percorso successivo l’Italia ora ha di fronte tre futuri possibili. Nel primo, dopo la discontinuità prodotta dalla pandemia il paese continua a presentare sostanzialmente gli stessi freni e limiti della sua storia precedente. A questo futuro corrisponde un’evoluzione demografica ben rappresentata dallo scenario “basso” delle proiezioni Istat (le ultime disponibili, con base 2018). Il numero medio di figli per donna rimane sotto 1,3, bloccato ai livelli peggiori in Europa. Di conseguenza le nascite vanno ulteriormente a ridursi e il rapporto tra popolazione anziana e giovane-adulta ad aggravarsi, portandosi su livelli incompatibili con qualsiasi prospettiva di sviluppo nella dimensione economica e sociale. In particolare, all’orizzonte del 2050, la popolazione in età da lavoro arriva a perdere oltre 9 milioni di persone a fronte di un aumento di almeno 4,5 milioni di over 65.

Il secondo dei futuri possibili non porta ad esiti finali molto diversi dal primo. E’ quello in cui il paese mette in campo alcune misure a favore delle nuove generazioni e delle famiglie, ma senza portarsi ai livelli delle politiche più avanzate in Europa. Partendo dalle posizioni peggiori nell’Unione – sia in termini di squilibri demografici che di diseguaglianze sociali, oltre che di debito pubblico – senza una forte spinta iniziale l’Italia non riesce a risollevarsi per mettersi a correre e recupere lo svantaggio accumulato. L’evoluzione che ne deriva è un temporaneo rialzo delle nascite nella ripresa post pandemia ma senza che si agganci a un vero e solido processo di inversione di tendenza. In questo caso, nel medio e lungo periodo non si arriva a distinguersi in modo sensibile dal precedente scenario.

Il terzo futuro possibile è invece quello in cui l’Italia adotta misure efficaci a favore dei percorsi formativi e professionali delle nuove generazioni (qualsiasi sia il genere, la provenienza territoriale e sociale) e politiche familiari sia allineate al meglio delle migliori esperienze europee (il meglio che si può ottenere dal Family act), sia integrate con le politiche di sviluppo del paese nella nuova fase post pandemia (il meglio che si può ottenere dal Pnrr). Questo consente di riorientare il percorso del paese e fargli cogliere, prima che sia definitivamente troppo tardi, il sentiero stretto di un aumento della fecondità in grado di più che compensare la riduzione della popolazione in età riproduttiva. Solo in questo caso le nascite tornano a salire e, in combinazione con flussi migratori coerenti e integrati con il modello economico e sociale, possono fare davvero la differenza tra un futuro in cui il peso degli squilibri demografici (e del debito) sono sostenibili e uno in cui il destino di scivolamento ai margini dei processi più virtuosi di sviluppo nella parte matura di questo secolo sono irreversibilmente preclusi.

Questo terzo futuro andrebbe a collocarsi tra lo scenario mediano e quello “alto” delle proiezioni Istat al 2050. La popolazione totale continuerebbe a diminuire, ma le dinamiche più positive di nascite e migrazioni porterebbero quantomeno a dimezzare la perdita della popolazione in età lavorativa. Una contrazione quantitativa ricondotta così a livelli tali da poter in buona parte essere compensata da un aumento della partecipazione giovanile e femminile al mercato del lavoro, oltre che da condizioni favorevoli per una lunga vita attiva. L’esperienza di altri paesi europei mostra, del resto, che dove migliora la valorizzazione di tali componenti nel mondo del lavoro, in combinazione con ben mirate e calibrate politiche abitative e familiari, si mettono i cittadini nelle condizioni di realizzare i propri progetti di vita migliorando le proprie condizioni di benessere e diventando parte attiva di processi di sviluppo sostenibile.

Cari italiani del 2050, voi certo ben sapete in quale di questi tre possibili futuri vi trovate. Ma presto lo scopriremo anche noi, perché a rivelarlo sarà l’andamento delle nascite nei prossimi anni. Se la ripresa sarà timida e breve il paese non avrà più la possibilità di contrastare gli squilibri che lo portano verso lo scenario “basso”, rendendo sempre più difficile tenere il passo con le condizioni di sviluppo del resto d’Europa. Purtroppo voi non potete tornare indietro nel tempo e venire ad avvisarci, ma i dati demografici qualche indicazione potrebbero darla a chi oggi sa e vuole ascoltare.