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Il futuro dipende da noi

La crisi della natalità dipende da noi. Se consideriamo la struttura demografica dell’Italia come un edificio, l’esposizione al rischio di crollo non è dovuta a un terremoto, ma al progressivo deterioramento di muri portanti per incuria e scarsa manutenzione. L’aumento della longevità agisce come un aumento dei piani al vertice, ma se la struttura portante viene lasciata indebolire non si possono considerare le crepe che si allargano (il sistema di welfare sempre più debole) e i pezzi che progressivamente si staccano (i giovani che se ne vanno) una fatalità, ma l’esito delle nostre inadempienze. Insomma, se non usciamo da questa crisi, che ogni anno si aggrava un po’ di più come mostrano gli ultimi dati Istat, significa che non ci interessa o non ne siamo capaci. Finora abbiamo attraversato in sequenza entrambe tali due fasi.

La qualità del lavoro salva le società del rinnovo generazionale debole

Il recente Rapporto annuale dell’Inps somiglia molto ad una rassicurante comunicazione dal ponte di comando ai passeggeri quando il rischio di trovare sulla rotta un iceberg è elevato ma per il momento tutto procede tranquillamente e non c’è nulla di preoccupante in vista. I resoconti del naufragio del Titanic dicono che l’iceberg fu avvistato quando si trovava approssimativamente a 500 metri di distanza. Venne subito ordinata una manovra di emergenza con virata a sinistra, ma, a causa della grande massa della nave, non fu sufficiente ad evitare la collisione. La demografia ha una propria inerzia analoga a quella di una grande nave. Più aspettiamo a fare le operazioni che servono, più alto è il rischio di andare incontro ad un destino nefasto. All’interno del territorio italiano ci sono già contesti in tale situazione. Alcune aree interne del nostro Paese si trovano con una combinazione di bassa natalità, fuoriuscita netta di giovani, struttura demografica compromessa, da non aver più margine per cambiare la rotta che porta verso l’insostenibilità sociale ed economica.

Contro l’inverno demografico serve una politica dell’inclusione per giovani, donne e immigrati

di EMANUELE FELICE E ALESSANDRO ROSINA

Quale sarà il futuro dell’Italia? Forse lo spopolamento interno, il declino demografico che porta con sé anche il declino economico e culturale? E come possiamo evitarlo? Se l’inverno demografico è un pericolo reale, già in corso, la politica più adatta a fronteggiarlo non è quella conservatrice e nazionalista, come una certa vulgata vuol far passare. Al contrario, è quella che proviene da una visione progressista fondata su diritti e inclusione, e su un approccio razionale e relazionale, privo di pregiudizi.

Partiamo dai dati. L’Italia si distingue in Europa soprattutto per una natalità da lungo tempo molto bassa: la media Ue è scesa a 1,5 figli in media per coppia, l’Italia è da 40 anni sotto tale livello, e di recente il dato è ulteriormente peggiorato. Questo aspetto si lega a un doppio svantaggio competitivo dell’Italia. Il primo è, a fronte dell’aumento della componente anziana, una maggior riduzione della forza lavoro potenziale.

Il secondo svantaggio competitivo è il sottoutilizzo del capitale umano delle nuove generazioni e delle donne: per il primo aspetto, si pensi che la Germania presenta una percentuale di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) pari a meno della metà dell’Italia; per il secondo, si pensi che la Svezia presenta un divario occupazionale di genere di circa 5 punti percentuale, nell’Unione è pari a 10, mentre in Italia siamo al doppio, quasi 20 punti (e questo è in buona parte riconducibile al gap fra l’occupazione delle donne senza figli e con figli).

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Denatalità. Non è più un tema solo femminile

(Estratto)

“Il processo decisionale è cambiato rispetto al passato e oggi avere figli è una scelta non scontata. Una scelta sulla quale non funzionano le ragioni negative dei timori sulla possibilità che saltino pensioni e welfare, ma che deriva da un desiderio personale che trova incoraggiamento dalle condizioni oggettive del presente e dalla visione positiva del futuro. Le nuove generazioni non vogliono sentire il dover avere figli come imperativo biologico o obbligo morale, ma come risposta al desiderio di vederli crescere in un contesto sicuro con prospettive di benessere e opportunità.

Quindi il punto di partenza è la libertà di scelta. A cui segue strettamente la possibilità, per chi desidera avere figli, di rendere il diventare madri e padri una esperienza positiva, che non porta a eccesso di penalità in termini di costi economici e di complicazioni organizzative su tempi di vita e lavoro, ma condizioni e tempo per migliorare il benessere relazionale di coppia e tra genitori e figli. In presenza di misure e strumenti che vanno in questa direzione aumenta anche la libertà di chi non ha figli. Perché consente di non averli non come esito di una rinuncia, implicita o esplicita, ma come effettiva scelta, sapendo che se si decide di averli si troveranno le migliori condizioni possibili perché essa si integri bene con la realizzazione anche in altri campi. Inoltre, consente a chi ha figli di poter ridurre il rischio di povertà economica ed educativa, rafforzando quindi il contributo delle nuove generazioni ad uno sviluppo più solido ed equilibrato del paese a beneficio di tutti, anche di chi (qualsiasi sia il motivo) non li ha”.

Si fa presto a dire “childfree”!

Quello delle donne (degli uomini e delle coppie) che scelgono volontariamente di non avere figli è un tema caldo, di grande risonanza, soprattutto in un’epoca di crisi della fecondità come quella attuale. Perché cresce il numero di donne che arrivano al termine della propria vita fertile senza figli (l’Istat stima una su quattro fra le nate nel 1980)? Dipende solo dalle precarie condizioni economiche dei giovani e dalla mancanza di politiche per la conciliazione? In altri termini, è frutto della posticipazione indefinita di coloro che non trovano le precondizioni per avere figli? Oppure sono cambiate le preferenze, i valori, che muovono le progettualità di vita dei giovani, che quindi non valutano più positivamente la scelta di diventare genitori?

Scelta e non scelta di avere figli
Negli ultimi anni, analizzando i dati delle indagini dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo condotte con Ipsos, abbiamo messo in luce la necessità di rimodulare il sistema di indicatori con cui tradizionalmente si interpretano le intenzioni e i desideri di fecondità. In particolare, abbiamo evidenziato come sia utile considerare, accanto a desideri e intenzioni, la motivazione intrinseca ad avere figli: quanto le persone considerano l’avere figli una dimensione necessaria per sentire pienamente realizzata la propria vita?

Secondo i dati del Rapporto Giovani del 2020, fra i giovani italiani di età compresa fra i 25 e i 34 anni, il 41% dichiara che si sentirebbe comunque realizzato nella vita anche senza figli (li indichiamo come “debolmente motivati); fra di loro è incluso un 14.5% di chi dichiara di non desiderarli affatto (“childfree”), senza significative differenze di genere. Se ci si concentra sulla fascia centrale della vita riproduttiva, quella tra i 30 e i 34 anni, si osserva che tra chi è senza figli la percentuale di childfree e di debolmente motivati sale ulteriormente (perché una parte di chi è orientato ad averli li ha avuti): il 15% degli uomini e quasi il 19% delle donne afferma di non desiderare diventare genitore, mentre più genericamente i debolmente motivati risultano il 38% degli uomini e il 45% delle donne.

Va comunque considerato che orientamenti e decisioni possono mutare nel corso di vita: si può partire da una posizione di childfree ma poi cambiare opinione e avere figli (anche in funzione della presenza di un partner e dei suoi desideri), così come una donna che desidera diventare madre può successivamente valutare che tale obiettivo non sia prioritario e investire nella realizzazione professionale e in altri ambiti di vita.

Il progetto di diventare genitori tende inoltre a indebolirsi non solo per questioni socio-economiche e culturali, ma anche per le accresciute incertezze con cui le giovani generazioni di oggi guardano al futuro. Secondo i dati pubblicati nel Rapporto Giovani 2024 (Frageri, Luppi e Zanasi, 2024), mentre il 68% dei giovani italiani non pianifica un figlio a breve perché preoccupato per la situazione economica del paese, il 62%1 dichiara di non farlo perché preoccupato per il futuro che attenderebbe il figlio in un mondo compromesso dal cambiamento climatico. I paesi, però, che in modo più solido investono sulla formazione delle nuove generazioni, che promuovono un loro ruolo attivo nei processi di sviluppo sostenibile, che sostengono i loro progetti di vita, mettono i giovani nelle condizioni di affrontare meglio tali preoccupazioni e abilitare maggiormente scelte impegnative e responsabilizzanti verso il futuro, come quella di avere un figlio

Fattori culturali e difficoltà oggettive coesistono
Tornando al nostro quesito iniziale, ovvero se contano di più i fattori socio-economici (contestuali e individuali) o quelli culturali, l’evidenza ottenuta dai nostri studi non supporta interpretazioni univoche, ma indica piuttosto la coesistenza di entrambi i fattori (Luppi, Rosina e Testa 2024). Il fenomeno delle donne “childfree” – ovvero di coloro che dichiarano di non desiderare figli e per cui la scelta di non averne è l’espressione di una esplicita preferenza individuale – è forse oggi meno semplice da interpretare di quanto lo fosse vent’anni fa. Se precedenti studi avevano evidenziato il carattere “progressista”, “postmaterialista” e l’orientamento alla carriera delle donne childfree (mediamente più istruite e più facilmente occupate delle donne con figli), le evidenze che riscontriamo sui dati del rapporto giovani offrono una prospettiva un po’ diversa e più articolata (Luppi, Rosina e Testa 2021; Luppi, 2022).

Considerando le donne di 30-34 anni senza figli, coloro che si dichiarano childfree risultano dalle nostre analisi mediamente meno istruite di chi desidera figli (25% di laureate vs 32%), sono meno frequentemente in una relazione stabile (31% vs 50%), sono in maggior percentuale nella condizione di Neet (27% vs 23%), oltre ad avere un reddito individuale mediamente più basso (il 41% guadagna meno di 500 euro al mese contro il 23% delle donne che desiderano figli). Fra le donne senza figli, quindi, sono le childfree quelle che si trovano in una condizione relazionale, lavorativa e di autonomia economica meno adatta per pianificare una famiglia. Le donne che rientrano nella categoria “debolmente motivate”, invece, hanno più facilmente una laurea, un partner e un lavoro con reddito elevato, anche maggiore in media rispetto alle coetanee più fortemente orientate alla famiglia con figli. Sono quindi le debolmente motivate quelle che hanno maggiormente da perdere incorrendo nella motherhood penalty.

È quindi molto difficile pensare che tutte le childfree non abbiano figli esclusivamente “per scelta”, così come invece è legittimo immaginare la difficoltà delle poco motivate alla maternità a conciliare l’idea di avere figli con quella di realizzarsi pienamente anche in altri ambiti della vita.

Se da una parte l’accresciuta accettazione sociale della possibilità di non avere figli nella vita e la necessità di realizzarsi pienamente in molti ambiti (e non solo in quello genitoriale) è sicuramente legata a un cambiamento valoriale fra le giovani generazioni, dall’altra ricondurre il fenomeno childfree a una sola spiegazione culturale sembra riduttivo. Se è sempre più accettabile non avere figli, dichiararsi childfree può avere anche la funzione di riduzione della dissonanza cognitiva fra il desiderio, quello non dichiarato, e una realtà antagonista.

(articolo di  and )

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