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Un anno di storie 2024 – Vendesi io: l’antologia annuale di Treccani

ESTRATTO:

L’Italia del XXI secolo ha 24 anni. E’ ancora giovane. In senso proprio la gioventù finisce a 25 anni. In Italia tende però ad estendersi ben oltre tale soglia. Se si è giovani finché si dipende dai genitori, la maggioranza degli italiani è in tale condizione fino ai 30 anni. Se si è giovani finché non si ha un figlio, la gioventù arriva allora fino ai 32 anni in media per le donne italiane e ai 35 anni per gli uomini.

La giovane Italia del XXI secolo è figlia del XX secolo. I Millennials sono la generazione ponte. Nati nel XX secolo ma con entrata nell’età adulta tutta contenuta nel XXI. La Generazione Zeta è, invece, la prima generazione senza memoria diretta del XX secolo, quindi tutta proiettate nelle trasformazioni di quello in corso. È con loro che il XXI secolo porta la propria novità rispetto al precedente. E’ con loro che tale novità cerca la propria strada per generare valore in coerenza con i cambiamenti dei tempi nuovi, reinterpretando l’idea di benessere, di lavoro, di impegno sociale. E’ con le loro gambe che camminano le idee del nuovo secolo. È con i loro progetti che nuovi desideri cercano affermazione.

Millennials e ancor più Generazione Zeta, nel rapporto con i propri genitori vivono il confronto tra due secoli che fanno fatica a capirsi.

Opere di narrativa recenti italiane che hanno come protagonisti giovani di tali generazioni hanno spesso al centro tre relazioni critiche intrecciate: quella tra questo secolo e il precedente, quella tra i giovani e i propri genitori, quella tra Italia e gli altri paesi con cui ha senso confrontarsi.

Sono anche le prime generazioni in cui essere giovani significa essere una minoranza.

Lo sono senz’altro dal punto di vista demografico. Al primo censimento del Secondo dopoguerra, condotto nel 1951, gli under 30 erano oltre la metà della popolazione italiana, ora sono il 27% ed è il dato più basso in Europa. Ma oltre ad avere un peso elettorale in riduzione, i giovani italiani si trovano anche con maggior debito pubblico rispetto alle generazioni precedenti, minor investimento collettivo (su formazione, politiche attive del lavoro, politiche abitative), più alti tassi di disoccupazione, percorsi di ingresso nel mondo del lavoro meno stabili, salari più bassi e più incertezza sul proprio futuro previdenziale. Di fatto il ritratto di una minoranza discriminata anche socialmente, che nel dibattito pubblico subisce una narrazione spesso negativa e piena di luoghi comuni, con tendenza a mettere più in luce le condotte negative che riconoscere aspetti positivi e interpretarne specificità e diversità senza pregiudizi.

La letteratura italiana offre un’immagine alternativa rispetto alla narrazione prevalente dei giovani nel dibattito pubblico. Quanto più quest’ultima risulta semplicistica e stereotipata, tanto più si contrappone nell’autorappresentazione letteraria il racconto di un mondo giovanile complesso, dinamico e articolato. Non vengono ritratti né come protagonisti del mondo che cambia grazie agli strumenti forniti dalle nuove tecnologie, né come vittime predestinate di una società che li tiene ai margini. Ci sono, certo, i nuovi lavori digitali e c’è la pervasiva rilevanza dei social. Ma i primi stentano a portare un complessivo miglioramento del mondo del lavoro e i secondi non sostituiscono la domanda dell’essere in relazione autentica con gli altri. Nelle storie raccontate, quando si trovano ad essere vittime è anche perché ci mettono del proprio; quando diventano protagonisti positivi, trovando la via per emergere (e magari eccellere) è perché si apre un baco nel sistema (non basta il solo proprio impegno per superare freni oggettivi e resistenze culturali).

Per trovare sé stessi e le condizioni per dare il meglio di sé, la soluzione per molti giovani italiani diventa allora quella di andarsene. Espatriare nel senso di allontanarsi allo stesso tempo da padri (e madri) troppo pressanti, da una patria poco al passo con i tempi nuovi, dal soffocante atteggiamento paternalistico della società italiana verso le nuove generazioni.

Nel libro “Le perfezioni” di Latronico, Anna e Tom non lasciano l’Italia per guadagnare di più ma come scelta di vita. Il lavoro che svolgono – strettamente connesso alle nuove opportunità offerte dall’evoluzione delle tecnologie digitali – è l’elemento di maggior continuità tra il prima e il dopo il trasferimento a Berlino. Le competenze sviluppate e applicate per passione mentre ancora erano nel percorso formativo sono diventate un lavoro che più che scelto hanno accettato di continuare e far evolvere, in parte anche adattare alle proprie esigenze ed aspirazioni. Hanno il vantaggio di non dover sottostare a modalità e coordinate spazio-temporali tipiche del lavoro novecentesco. Non hanno problemi di precarietà, semmai di sovraccarico di lavoro. Rappresentano quindi la dimensione più elettiva (la parte davvero nuova in coerenza con le trasformazioni di questo secolo) che di necessità dell’essere Expat.

Più che la posizione geografica e la mobilità fisica, contano i nodi della propria rete, fatta di luoghi e di persone in relazione dinamica. Alcuni nodi si aggiungono, alcuni si rafforzano, alcuni si indeboliscono, altri scompaiono. Tra i nodi  c’è ovviamente anche il luogo di origine e ci sono i genitori. Ma più che costituire nodi di riferimento sono punti da cui distinguersi e allontanarsi per liberarsi da modelli che non sanno aprirsi a nuovi significati, ma inducono spesso un effetto di vischiosa assuefazione all’esistente, con sovraccarico di aspettative e pressione a conformarsi. La prima reazione è allora quella di cercare ossigeno altrove. La necessità di sentirsi “liberi da” spinge a spostarsi lontano non tanto e solo fisicamente dai genitori, ma anche dal tempo del secolo precedente verso tempi diversi in cui sperimentare cose diverse, oltre che dall’idea di te che hanno gli altri e che ti senti addosso come un vestito stretto o troppo largo.

Ma se questa spinta centrifuga ad un certo punto non viene sostituita da una forza attrattiva che porta ad evolvere verso una “libertà per”, l’esito finale rischia di essere quello di trovarsi con una identità di “spatriati” – come ben racconta Mario Desiati nel romanzo che ha tale titolo – anziché sentire di aver trovato il proprio posto (ovvero l’idea di sé in cui ci si riconosce pienamente e che trova riconoscimento nel contesto relazionale significante).

Il protagonista del libro di Desiati, Francesco Veleno, cerca il suo spazio altrove, non dove indicato dal padre, non nell’idea di persona “sistemata” imposta dal contesto sociale e culturale del paese di origine, non banalmente dove lo porta il cuore, ma dove c’è libertà di essere, anche se non necessariamente se stessi.

Non è lo spostamento fisico in sé che cambia le cose, ma serve un cambiamento di coordinate per consentire di collocare il proprio essere a agire all’interno di un nuovo sistema di significati. Se invece le coordinate non cambiano si rischia di trovarsi ad essere spatriato in patria, che altro non è che la versione riadattata del figliol prodigo al XXi secolo. Ad essere spatriato, a ben vedere, è questo secolo per come oggi lo viviamo e interpretiamo, senza averlo ancora ben capito. Chi è nato nel Novecento fa fatica a ritrovarsi nel XXI e quindi tende a replicare gli schemi del precedente. Chi è nato in questo secolo non è messo in condizione di creare nuove coordinate di riferimento, nuovi significati e nuovo benessere (…)

L’invecchiamento della popolazione e la condizione anziana

La Transizione demografica sta portando la popolazione in tutto il pianeta da livelli di elevata mortalità, caratteristici delle società del passato, a una longevità in continua espansione. Ne deriva anche il passaggio da una popolazione in cui gli anziani erano pochi a un’ampia presenza di persone in età avanzata.  Siamo, detto in altre parole, nel mezzo della gestione del traghettamento dell’umanità verso la società matura o “società della longevità”. Questo grande mutamento demografico di fondo pone tre elementi di novità che vanno interpretati e gestiti nel contesto di uno sviluppo sostenibile integrato: la variazione del rapporto quantitativo tra generazioni, il cambiamento qualitativo delle varie fasi della vita, l’aumento della domanda di cura e assistenza in età anziana.

Il terzo elemento corrisponde alla parte più problematica dell’invecchiamento. Se sono in continuo aumento nel tempo le opportunità di un protagonismo attivo nell’economia e nella società dei sessantenni e settantenni, attualmente oltre gli ottant’anni si osserva, invece, una riduzione della capacità di fornire un contributo esterno. Oltre tale soglia diventa prevalente la necessità di ricevere sostegno anche per le proprie attività quotidiane. Gli over 80, infatti, sono la componente in maggior crescita quantitativa nella popolazione europea ed italiana. Papa Francesco è più volte intervenuto richiamando l’importanza di opporsi alla cultura della scarto (che porta “all’avvertire la presenza degli anziani come un peso” e “ad abbandonare gli anziani che non servono ai propri interessi”, come viene rispettivamente sottolineato in “Amoris Lætitia” e in “Laudato sì”), promuovendo, invece, una “cultura dell’incontro”, la quale implica prestare attenzione a tutti, specialmente a coloro che più sono emarginati, escludendo qualsiasi forma di discriminazione, di abbandono, di indifferenza.

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Il futuro dipende da noi

La crisi della natalità dipende da noi. Se consideriamo la struttura demografica dell’Italia come un edificio, l’esposizione al rischio di crollo non è dovuta a un terremoto, ma al progressivo deterioramento di muri portanti per incuria e scarsa manutenzione. L’aumento della longevità agisce come un aumento dei piani al vertice, ma se la struttura portante viene lasciata indebolire non si possono considerare le crepe che si allargano (il sistema di welfare sempre più debole) e i pezzi che progressivamente si staccano (i giovani che se ne vanno) una fatalità, ma l’esito delle nostre inadempienze. Insomma, se non usciamo da questa crisi, che ogni anno si aggrava un po’ di più come mostrano gli ultimi dati Istat, significa che non ci interessa o non ne siamo capaci. Finora abbiamo attraversato in sequenza entrambe tali due fasi.

La qualità del lavoro salva le società del rinnovo generazionale debole

Il recente Rapporto annuale dell’Inps somiglia molto ad una rassicurante comunicazione dal ponte di comando ai passeggeri quando il rischio di trovare sulla rotta un iceberg è elevato ma per il momento tutto procede tranquillamente e non c’è nulla di preoccupante in vista. I resoconti del naufragio del Titanic dicono che l’iceberg fu avvistato quando si trovava approssimativamente a 500 metri di distanza. Venne subito ordinata una manovra di emergenza con virata a sinistra, ma, a causa della grande massa della nave, non fu sufficiente ad evitare la collisione. La demografia ha una propria inerzia analoga a quella di una grande nave. Più aspettiamo a fare le operazioni che servono, più alto è il rischio di andare incontro ad un destino nefasto. All’interno del territorio italiano ci sono già contesti in tale situazione. Alcune aree interne del nostro Paese si trovano con una combinazione di bassa natalità, fuoriuscita netta di giovani, struttura demografica compromessa, da non aver più margine per cambiare la rotta che porta verso l’insostenibilità sociale ed economica.

Contro l’inverno demografico serve una politica dell’inclusione per giovani, donne e immigrati

di EMANUELE FELICE E ALESSANDRO ROSINA

Quale sarà il futuro dell’Italia? Forse lo spopolamento interno, il declino demografico che porta con sé anche il declino economico e culturale? E come possiamo evitarlo? Se l’inverno demografico è un pericolo reale, già in corso, la politica più adatta a fronteggiarlo non è quella conservatrice e nazionalista, come una certa vulgata vuol far passare. Al contrario, è quella che proviene da una visione progressista fondata su diritti e inclusione, e su un approccio razionale e relazionale, privo di pregiudizi.

Partiamo dai dati. L’Italia si distingue in Europa soprattutto per una natalità da lungo tempo molto bassa: la media Ue è scesa a 1,5 figli in media per coppia, l’Italia è da 40 anni sotto tale livello, e di recente il dato è ulteriormente peggiorato. Questo aspetto si lega a un doppio svantaggio competitivo dell’Italia. Il primo è, a fronte dell’aumento della componente anziana, una maggior riduzione della forza lavoro potenziale.

Il secondo svantaggio competitivo è il sottoutilizzo del capitale umano delle nuove generazioni e delle donne: per il primo aspetto, si pensi che la Germania presenta una percentuale di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) pari a meno della metà dell’Italia; per il secondo, si pensi che la Svezia presenta un divario occupazionale di genere di circa 5 punti percentuale, nell’Unione è pari a 10, mentre in Italia siamo al doppio, quasi 20 punti (e questo è in buona parte riconducibile al gap fra l’occupazione delle donne senza figli e con figli).

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