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L’umanità al tempo della crisi del rinnovo generazionale

L’Umanità sta attraversando una fase critica rispetto ai meccanismi di rinnovo generazionale. Per la prima volta nella sua lunga storia la capacità di darsi continuità nel tempo è messa a rischio non tanto da fattori esogeni (elementi di costrizione esterna che comprimono la sopravvivenza dei suoi membri o la possibilità di formare unioni) ma da fattori endogeni legati all’esercizio delle scelte delle persone e alle condizioni che trovano nella società in cui vivono.

La popolazione non è una entità astratta. E’ un insieme di storie di vita in relazione tra di loro e in continua tensione con le sfide del proprio tempo. La popolazione possiamo considerarla come il grande libro che contiene tali storie. Ciascuna generazione aggiunge il proprio capitolo e prima di chiuderlo predispone le pagine bianche che ospiteranno le vicende di quella successiva.

Per gran parte della storia dell’umanità l’aggiunta di nuove pagine è avvenuta in modo del tutto spontaneo e scontato. Le persone comunemente non si ponevano la questione del “quando” avere una gravidanza e a “quanti” bambini fermarsi. La condizione comune era quella di formare un’unione di coppia e poi i figli semplicemente arrivavano (e ne arrivavano tanti quanti ne arrivavano).

Oggi non è più così. I mutamenti legati al processo di Transizione demografica ci hanno fatto entrare nell’era della scelta di quanti figli avere e quando averli. La domanda di aver meno figli ha portato poi allo sviluppo di strumenti efficaci (la contraccezione moderna) per ridurne il numero.

La prima fase di riduzione della fecondità rispetto agli elevati valori del passato è avvenuta “per sottrazione”: la norma era avere figli e la scelta che veniva esercitata era quella di averne di meno, con un assestamento verso il basso guidato dai ceti più istruiti. E’ in questa fase che il numero di figli desiderato si è assestato attorno a due.

Si è poi entrati in una nuova fase, in cui il numero realizzato è sceso sistematicamente sotto. Ciò è avvenuto come conseguenza di un cambiamento delle condizioni stesse del processo decisionale. Se in passato una donna come condizione di base era feconda e la contraccezione interveniva in modo mirato per limitare le nascite, da poche generazioni la situazione si è per la prima volta nella storia umana ribaltata. La condizione comune è diventata quella di non essere feconda, attraverso una copertura contraccettiva di fatto continua, che viene sospesa se si decide di avere dei figli.

Nel mondo in cui oggi viviamo tale scelta, quindi, oltre che “non scontata” richiede di essere esercitata “in aggiunta” (non più in sottrazione). Detto in altre parole: se in passato il non scegliere portava ad accettare la condizione di avere figli (averne quanti naturalmente ne arrivavano), oggi la non-scelta lascia nella condizione di non averne nessuno. Non serve, pertanto, una esplicita rinuncia, è sufficiente rimanere nello stato di non-scelta per deprimere la fecondità. E’, appunto, in questa nuova fase che numero di figli è sceso sotto il numero desiderato ma anche sotto la soglia di equilibrio nel rinnovo generazionale.

Va considerato senz’altro in modo positivo il fatto che l’avere figli sia oggi una scelta consapevole. Ma questo solleva la cruciale questione irrisolta di cosa significa oggi per noi tale scelta. Ci sono alcune cose che facciamo e diamo per scontato fare senza chiederci costi e benefici, come era per le nascite in passato e come vale oggi per prendersi cura di un anziano genitore fragile. Ci sono altre cose che facciamo valutando preferenze e soppesando costi e benefici, come l’acquisto di una casa o una nuova auto. Alcune cose vanno assunte come obbligo per il buon funzionamento della società di cui facciamo parte, come le tasse. Avere figli non rientra in nessuna di queste situazioni, ma alla base c’è qualcosa di più profondo che chiama in causa meccanismi di attribuzione di senso e valore. Meccanismi che riguardano la sfera personale ma che interagiscono con il clima sociale e il contesto culturale nel quale le persone vivono.

Oggi, per la maggioranza degli uomini e delle donne, avere figli è, appunto, una scelta non scontata che si realizza come espressione concreta di un desiderio (di sentirsi parte attiva di un mondo che continua dopo di sé) che deve trovare le condizioni adatte per potersi pienamente realizzare. Più che in passato è necessario, quindi, che sia favorita e sostenuta da un riconoscimento esplicito di valore nella comunità di riferimento, oltre che da condizioni oggettive che consentano una integrazione positiva con le varie dimensioni della realizzazione personale e professionale. I dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo evidenziano che le nuove generazioni europee, in ampia maggioranza, desiderano dei figli ma si sentono anche libere di non averne. Non sentono di doverli avere per un imperativo biologico o morale, ma hanno il desiderio di condividere con essi il piacere di vederli crescere in un contesto di sicurezza, con adeguate cure e benessere.

Proprio per questi motivi la scelta di avere un figlio, nella complessità delle società moderne avanzate, è diventata l’indicatore più sensibile rispetto alla combinazione tra condizioni del presente e attese verso il futuro. Dove entrambe sono positive, la scelta di aggiungere vita alla propria vita più facilmente può essere realizzata. Dove, invece, l’incertezza verso il futuro è alta e si combina con difficoltà oggettive del presente e carenza di politiche pubbliche (ad esempio mancano i servizi per l’infanzia, la conciliazione in ambito lavorativo, ci si scontra con complicazioni organizzative e con rischio di impoverimento economico), allora tale scelta, anche quando desiderata, viene lasciata in sospeso, ma intanto il tempo passa e via via diventa implicitamente una rinuncia.

I meccanismi del processo decisionale che hanno reso non scontata la scelta riproduttiva fanno sì che nelle società mature avanzate si ottiene una riduzione delle nascite anche senza disincentivare le persone ad avere figli, è sufficiente non favorire il crearsi e consolidarsi di condizioni adatte. Non è solo il mondo occidentale, ma sempre più anche altri paesi (compresa la Cina) si trovano in questa condizione.

C’è, quindi, una transizione demografica in corso in tutto il mondo, anticipata dalle economie più avanzate, che non sta tendendo verso un punto di equilibrio: la longevità va ad allungarsi sempre di più e la fecondità va ovunque a posizionarsi sotto la soglia minima di rimpiazzo tra generazioni.

All’interno di questo mutamento di fondo c’è un’ampia differenza all’interno della stessa Europa. Paesi come Francia e Svezia hanno evitato che la fecondità scendesse troppo sotto i due figli per donna con politiche familiari solide e continue nel tempo. Paesi, come la Germania, dopo essere scesi su valori molto bassi, analoghi all’Italia, sono riusciti, con misure di sostegno economico e di conciliazione tra vita e lavoro, a risalire sopra la media europea (che comunque arriva a malapena a 1,5).

Questo porta a due considerazioni che sollevavano due ordini di questioni. La prima è che le politiche familiare e le misure di sostegno alle famiglie con figli fanno la differenza. Spiegano, ad esempio, l’ampia variabilità tra 1,24 del tasso italiano contro oltre 1,8 figli della Francia. Serve però un ampio consenso per realizzarle. La seconda è che tali misure, pur indispensabili, non bastano. Anche dove, nel mondo occidentale, si investe con continuità su politiche ben mirate e si destina alle misure di sostegno alla genitorialità una parte generosa del prodotto interno lordo, si fa fatica a raggiungere e mantenere il livello minimo di equilibrio tra generazioni. C’è qualcos’altro che manca e che è in attesa di risposta.

Il XXI secolo porta in un mondo nel quale chiedersi cosa sta alla base della scelta di avere un figlio (quale significato individuale e collettivo le viene attribuito) è una domanda che in modo rinnovato ogni nuova generazione si trova a porsi e alla quale deve una propria risposta, perché sta al centro della questione di quale società si vuole costruire, con quali prospettive e quali valori di riferimento.

Forse siamo ancora in tempo per mettere in sicurezza il nostro futuro demografico

La demografia italiana, un po’ come la costruzione della Torre di Pisa, via via che evolve nel corso di questo secolo rischia di andare verso uno sbilanciamento sempre meno sostenibile. Due soluzioni sono possibili. La prima impone la rinuncia di un percorso solido di crescita, con relativa condanna all’Italia del XXI a rimanere un progetto incompiuto. La seconda, analogamente all’operazione fatta a su tempo con la Torre di Pisa, richiede di reimpostare il progetto di sviluppo del paese seguendo una curvatura opposta alla pendenza. I punti dell’infrastruttura demografica da cui partire adottando questa seconda soluzione sono quelli delle generazioni di chi ha oggi tra i 45 e i 50 anni e di chi ha tra i 20 e i 25 anni.

Perché il lavoro femminile fa bene sia alla demografia che all’economia

Non c’è alcun motivo per pensare che due gemelli di sesso diverso che nascono oggi debbano trovarsi a metà di questo secolo, quando avranno 28 anni, con opportunità diverse di occupazione e remunerazione solo perché uno maschio e l’altra femmina. Nemmeno si può pensare che per aver stesse possibilità lavorative chi è donna debba rinunciare ad avere figli, come invece accade alle 28enni attuali. Il tasso di fecondità delle under 30 italiane è tra i più bassi in Europa e lo stesso vale per il tasso di occupazione femminile in età 25-29 anni. Quest’ultimo risulta attorno al 50% contro il 65% della Spagna, il 70% medio europeo, il 75% della Francia, con valori ancor più alti nel Regno Unito, in Germania e nei paesi scandinavi. Non migliora molto nella fascia tra i 30 e i 34 anni, dove la percentuale di occupate in Italia arriva al 57%, non riuscendo a recuperare nemmeno il livello medio europeo osservato nella fascia precedente.

Per invertire la flessione delle nascite dobbiamo replicare il modello trentino

In questa legislatura si gioca l’ultima possibilità che ha l’Italia di invertire la tendenza negativa delle nascite. In caso contrario le nascite continueranno a ridursi anno dopo anno rendendo nel breve e medio periodo inefficace qualsiasi azione di contenimento del crollo della popolazione in età lavorativa. Anche i flussi migratori, infatti, pur rilevanti, risulterebbero del tutto insufficienti a compensare l’indebolimento della forza lavoro potenziale.

Perchè i giovani rischiano di perdere la fiducia nella nostra democrazia

Il 2020 è stato l’anno dell’emergenza causata da Covid-19. Il 2021 l’anno della protratta convivenza con il virus. Il 2022 avrebbe dovuto essere quello della ripartenza. Ma ancora una volta ci troviamo con un anno molto diverso da come auspicavamo. Speravamo di poterlo in futuro ricordare come il punto di partenza di un’Italia capace di cogliere la discontinuità della pandemia come occasione per una nuova fase di sviluppo. Per riuscirci sono necessarie risorse inedite. A questa condizione ha risposto il Piano europeo Next Generation Eu. Una condizione che rischia di risolversi in un grande spreco e in ulteriore aumento di debito pubblico se i finanziamenti non vengono indirizzati in modo efficiente per misure strutturali in grado di superare gli annosi limiti del passato e diventare leva per la crescita. Ma contestualmente è richiesto un ripensamento dello stesso concetto di crescita, in coerenza con nuove sensibilità e nuove sfide rispetto alle condizioni e alle modalità per generare benessere nei processi di sviluppo sostenibile. Il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza), pur con alcune lacune e criticità, ha cercato di interpretare il momento storico del paese attraverso la definizione di priorità, strumenti e obiettivi.