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Perché l’Italia fa meno figli di tutta l’UE

E’ davvero strano che in Italia la natalità sia così bassa. Si tratta di un record negativo certamente sorprendente. Come mai da oltre un milione di nati negli anni Sessanta siamo precipitati oggi a meno della metà? Come mai nel corso degli anni Ottanta le nascite sono crollate di più in Italia che negli altri paesi sviluppati? Perché, a differenza di altri paesi, non siamo poi più riusciti a risollevarci? E, infine, perché la crisi ha frenato maggiormente le scelte riproduttive delle coppie italiane rispetto al resto d’Europa? Davvero un mistero il fatto che lungo tutto lo stivale non si formino nuove famiglie o ci si fermi al figlio unico. Eppure, come tutti riconoscono, siamo uno dei paesi che negli ultimi decenni hanno maggiormente incoraggiato l’autonomia dei giovani dalla famiglia di origine; che maggiormente hanno rafforzato una entrata solida e stabile delle nuove generazioni nel mercato del lavoro; che più valorizzano, con spazi e opportunità, il capitale umano dei neolaureati; che meno sfruttano e meglio pagano i neoassunti. Beh, se tutto questo fosse vero potremmo dire che abbiamo meno figli perché non li vogliamo. La realtà, purtroppo, è ben diversa e per nulla sorprendente. Siamo uno dei paesi con il record di giovani che vorrebbero lavorare e non ci riescono; con maggior ostacoli per le donne che vogliono sia lavorare che avere figli; con più alto rischio di povertà delle famiglie che vanno oltre il secondo figlio.

Il confronto con la Francia è istruttivo e impietoso. I dati di una comparazione internazionale del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, svolta a luglio 2015, mostrano come tra gli under 30 il numero di figli che mediamente si vorrebbe avere, in assenza di vincoli e ostacoli nella realizzazione dei propri progetti di vita, è abbondantemente sopra a due. Se poi si passa a chiedere quanti bambini realisticamente si pensa di riuscire ad avere, il dato crolla a poco più di un figlio e mezzo in Italia, mentre scende a circa 1,8 in Francia. Ma il dato più interessante è che il numero di figli che poi effettivamente si riesce a realizzare risulta per gli italiani persino peggiore rispetto a quanto realisticamente dichiarato, mentre i francesi si trovano ad averne più di quanto preventivato tenendo conto di possibili difficoltà. Detto in altre parole, quello che accade da noi è che chi a vent’anni si vedeva in una famiglia con tre figli, si accontenta alla fine di averne due o solo uno. Chi puntava ad averne almeno uno si ritrova sempre più a posticipare fino a rinunciare del tutto. Anziché quindi trovarsi in un contesto che incoraggia a dare il meglio e a fare di più, ci si trova ad arretrare rispetto ai propri desideri e alle proprie potenzialità. In Francia, invece, grazie a politiche familiari più solide rispetto al bonus bebè, a un sistema fiscale non penalizzante per chi ha figli, a maggiori e più accessibili servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia, a politiche attive per il lavoro più avanzate, ci si trova ad avere un figlio in più anziché in meno.

Non c’è solo la Francia. I paesi scandinavi hanno un modello diverso. Gli Stati Uniti un altro ancora. Il problema dell’Italia è che non ha un suo modello. Non esiste una bacchetta magica. Non c’è una soluzione unica valida per tutti. Ma ci sono due preoccupazioni cruciali che in altri paesi vengono prese più seriamente e affrontate con più decisione: offrire ai giovani maggiori strumenti di autonomia e maggiori occasioni di inserimento nel mondo del lavoro è una precondizione essenziale per formare nuove famiglie; consentire poi, alle nuove coppie, di andar oltre al primo figlio senza il rischio di dover rinunciare al lavoro di uno dei due, è fondamentale per non rinunciare ad averne altri. Su entrambi questi punti siamo da troppo tempo cronicamente carenti. Ma quello che non capiamo è che sciogliere questi nodi non significa solo fare più figli ed avere una demografia meno squilibrata, significa anche alimentare un modello di sviluppo nel quale giovani e donne organizzano meglio le loro vite, realizzano meglio i propri obiettivi, esprimono in pieno le loro potenzialità. Significa quindi avere una politica che sa mettere desideri e progetti dei cittadini al centro di una società ed una economia che funzionano.

Perché dobbiamo preoccuparci della crisi demografica

Per cinque milioni in più. O in meno

Stiamo forse uscendo dalla crisi economica, ma non da quella demografica. Al primo gennaio 2016 i residenti nel nostro paese risultano essere 60 milioni 665mila, con una perdita di 142mila abitanti rispetto a inizio 2015, secondo i dati del Bilancio demografico Istat.
Dopo una lunga fase di crescita, ora siamo ufficialmente in declino. Dobbiamo preoccuparcene? La risposta è sì, non tanto per il semplice fatto di essere in calo, ma per ciò che sta alla base della diminuzione e per le implicazioni che produce.
Modifichiamo allora la domanda: se anziché poco più di 60 milioni, fossimo 55 milioni oppure 65 milioni cosa cambierebbe? Le ultime due cifre non sono indicate a caso. Corrispondono alla popolazione che approssimativamente avremmo oggi in due diverse ipotesi: la prima se non si fossero verificate le immigrazioni consistenti dagli anni Ottanta in poi; la seconda se avessimo seguito un percorso di sostegno alle nascite simile alla Francia.
Cinque milioni in più o in meno di per sé non sembrano dirci molto sulla possibilità di vivere meglio o peggio in questo paese nei prossimi anni e decenni. In realtà dipende da dove si mettono o si tolgono questi abitanti. E allora è bene tener presente che nel declino sono soprattutto i giovani che perdiamo, come si può vedere in figura 1. In particolare, il divario delle curve tra l’Italia complessiva e quella senza stranieri, ci dice che l’immigrazione negli ultimi decenni non ha per nulla inciso sulla popolazione tardo adulta e anziana, ha invece contribuito a compensare, seppur solo in parte, la riduzione dei giovani e dei giovani-adulti italiani. Detto in altre parole, potremmo essere oggi 5 milioni in meno se non ci fosse stata l’immigrazione, con conseguenti maggiori squilibri nel rapporto tra generazioni a svantaggio della popolazione potenzialmente più attiva e produttiva.
Il divario delle curve tra Francia e Italia è invece utile per capire come la nostra maggiore denatalità abbia prodotto una erosione dal basso, rendendo via via sempre meno consistenti le nuove generazioni. I due paesi hanno, infatti, un numero non dissimile di residenti dai 40 anni in poi. La differenza diventa rilevante sui trentenni e si allarga in modo esorbitante nelle età ancora più giovani. Non aver fatto negli ultimi trent’anni il numero di figli realizzato dai francesi ci porta oggi ad avere oltre 5 milioni di abitanti in meno, ma con una perdita tutta concentrata, di nuovo, sulla popolazione potenzialmente più attiva e produttiva.

Come combattere il “degiovanimento”

Il declino demografico non è quindi solo una questione di calo della popolazione, ma ancor più di squilibri tra generazioni con le implicazioni sociali ed economiche che ne derivano. Il dato negativo del 2015 ci dice che il “degiovanimento” (riduzione dei giovani) è addirittura più forte dell’invecchiamento (aumento degli anziani): ovvero perdiamo più giovani di quanti anziani guadagniamo.

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Spiegate ai giovani perché i migranti ci salveranno

Nei prossimi anni il nostro Paese, compresa gran parte d’Europa, si troverà con sempre più persone ritirate dal lavoro che assorbiranno risorse per pensioni e spesa sanitaria, da un lato, e sempre meno persone in età da lavoro, dall’altro. Un quadro che rischia di diventare insostenibile, impoverendo la capacità di produrre crescita e dare solidità al sistema sociale. È possibile rispondere a questi cambiamenti in modo positivo? Sì, a tre condizioni. La prima è favorire una ripresa delle nascite. La seconda è mobilitare nel sistema produttivo le risorse finora sottoutilizzate, in particolare giovani e donne. Il terzo è rinvigorire la popolazione con l’immigrazione, rafforzando le carenze di manodopera in vari settori e rendendo più sostenibile il rapporto tra lavoratori e inattivi.

Chi dice di non volere l’immigrazione dà quindi per scontato il declino dell’Italia. Chi è accogliente accetta invece una sfida delicata e complessa, rispetto alla quale nessun paese ha saputo sinora proporre una soluzione convincente. Se lo scenario di chiusura è impossibile (a meno di togliere l’Italia dal centro del Mediterraneo e spostarla su Marte) è però anche vero che lo scenario di flussi di entrata mal gestiti e di permanenza mal integrata è il peggiore possibile, perché non migliora la crescita e va a inasprire le diseguaglianze.

L’immigrazione è quindi una sfida inevitabile che dobbiamo imporci di vincere. Ma non può essere vinta se prima non viene capita e colta, dalla classe dirigente e dai cittadini comuni, in tutta la sua rilevanza sul nostro futuro. Richiede una soluzione sia strutturale che culturale, mentre oggi prevale lo smarrimento politico e il disorientamento sociale, come ha ben evidenziato il Cardinale Scola nei suoi recenti interventi.

I dati recenti di un approfondimento del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, indicano che il 28% dei giovani tra i 18 e i 32 anni vorrebbe il rimpatrio di chiunque arriva, siano essi profughi o persone in cerca di lavoro. La grande maggioranza è invece favorevole all’accoglienza, ma non incondizionata. L’atteggiamento di fondo appare confuso e ambivalente. Da un lato, i ragazzi italiani, come evidenziano varie ricerche, tendono a non considerare straniero il compagno di banco con genitori di nazionalità diversa e colore della pelle diverso. D’altro lato, dai media vengono bombardati con notizie di sbarchi continui, di episodi di violenza e condizioni di sfruttamento. Ragioni e valori dell’accoglienza fanno così sempre più fatica a contrastare la crescita dei timori di una presenza straniera subita e non ben integrata.

Tutto questo in un contesto di crisi economica, di welfare in sofferenza, di risorse familiari in riduzione, di bassa fiducia nelle istituzioni e di alta disoccupazione giovanile. Non stupisce quindi che i giovani italiani siano quelli più indotti, rispetto ai coetanei degli altri grandi paesi europei, a pensare che chi arriva dall’estero più che aiutarci ad allargare la torta comune ci possa costringere ad una riduzione delle fette pro capite. Gli under 30 intervistati che concordano con l’affermazione che gli immigrati peggiorano le condizioni del paese in cui vanno a vivere sono oltre il 60% in Italia e Francia. Va però tenuto presente che la Francia ha subito attentati drammatici di matrice islamica e che ha una presenza straniera maggiore della nostra. Valori più bassi, poco sopra al 40%, si registrano invece in Germania, paese nel quale risulta più larga la consapevolezza che l’immigrazione sia parte integrante del processo di crescita del paese.

Questi dati devono far riflettere perché ci dicono che rischiamo di far chiudere in difesa una generazione potenzialmente aperta al confronto positivo tra mondi e culture. Conforta, in ogni caso, il fatto che si ottengono valori meno negativi nei contesti in cui l’integrazione funziona e tra chi è più informato sul fenomeno. La maggioranza di chi dice che gli immigrati sono troppi non sa infatti dire esattamente quanti siano, tende ad enfatizzare la componente irregolare e la voce dei costi sul welfare rispetto alla ricchezza economica prodotta.

La strada è quindi quella del miglioramento degli strumenti conoscitivi rivolti ai cittadini oltre che di una responsabilità più solida della politica nella guida al cambiamento. Iniziative come Open migration, siti di informazione come Neodemos, eventi pubblici di confronto positivo tra culture, misure di successo nelle periferie come Quarto Oggiaro a Milano, mostrano che la diffidenza si può superare e che la diversità può diventare ricchezza culturale ed economica. Lasciare che una larga parte dei giovani scivoli invece dalla diffidenza all’ostilità è l’errore più grande che oggi possiamo fare, del quale possono beneficiare solo le forze politiche che speculano sulle paure e che sanno solo alzare muri.

Se l’immigrazione è una di quelle sfide a cui non possiamo sottrarci è anche vero che senza un ruolo positivo delle nuove generazioni difficilmente possiamo pensare di vincerla.

Perché il modello di sviluppo non è uguale per tutti

La lettura del cambiamento nell’evolversi delle generazioni dal dopoguerra in poi, descritta con qualche semplificazione dall’Istat nell’ultimo Rapporto annuale, può essere molto utile per capire cosa non funziona nell’Italia di oggi. Un paese cresce quando mette le nuove generazioni nelle condizioni di cogliere le opportunità del proprio tempo. E’ successo con la generazione che ha risollevato il paese con la ricostruzione dal dopoguerra. Partendo essa da aspettative basse si è trovata con grandi possibilità di miglioramento per chi aveva voglia di metterci impegno e intraprendenza. E’ accaduto anche per la generazione dei baby boomer, socializzatasi in un’Italia che cresceva economicamente, che allargava diritti e welfare pubblico. La generazione X, giovane negli anni Ottanta, è diventata invece adulta con l’illusione che l’Italia fosse solidamente inserita in un percorso di continuo miglioramento. La convinzione di fondo era quella che bastasse ottenere un titolo di studio maggiore rispetto ai genitori per accedere ad un lavoro migliore e quindi raggiungere una posizione sociale più alta. Nel frattempo, però, il sistema di welfare cominciava a mostrare sempre più i suoi limiti. Anziché rimettere in rapporto virtuoso politiche sociali, trasformazioni del mercato del lavoro e crescita, il paese ha adottato un approccio difensivo con conseguente aumento del debito pubblico e diminuzione delle nascite. Le generazioni entrate nella vita adulta nel nuovo millennio si sono così trovate con meno politiche attive rispetto ai coetanei degli altri paesi, con un paese che cresceva di meno, che invecchiava di più e con un debito pubblico più elevato. Non certo le condizioni migliori per realizzare i propri progetti professionali e personali. Se non bastasse si è poi abbattuta la crisi, come una tempesta, nel momento in cui stavano compiendo il passaggio dall’uscita dalla scuola all’entrata nel mercato del lavoro. L’esito complessivo è stato un aumento abnorme dei Neet, ovvero dei giovani che hanno concluso gli studi ma non sono occupati. Abbiamo infatti, dopo la Grecia, il record in Europa di under 30 che si trovano in tale condizione. Se anche per i Neet vale quello che è accaduto con il debito pubblico, ovvero non riusciamo ad andare oltre la stabilizzazione su livelli elevati, l’Italia non ha scampo. Nessun benessere economico e sociale può essere espanso se i giovani sono dipendenti dai genitori anziché soggetti attivi nella realizzazione dei propri progetti di vita. Questo è ancora più vero in molte regioni del Mezzogiorno, dove la condizione di Neet riguarda oltre un giovane su tre.

Se l’Italia vuole tornare a crescere è necessario riportare le nuove generazioni al centro di un nuovo percorso di crescita. Questo è il momento giusto per ripartire, combinando l’uscita dalla crisi economica con politiche di incoraggiamento e supporto alla trasformazione dei giovani in energia propulsiva. E’ però necessario adottare l’approccio giusto, che superi carenze e limiti del passato. Ci sono tre errori da evitare. Il primo è quello di pensare che i giovani siamo tutti uguali nelle varie epoche storiche. La realtà è in mutamento continuo e i giovani sono i migliori interpreti del mondo che cambia. Possiedono quindi sensibilità, modi di apprendere, forme di partecipazione, potenzialità diverse rispetto alle generazioni che le hanno precedute. Quello che funzionava per i giovani di ieri non necessariamente funziona oggi. Questo significa anche che se siamo rimasti indietro rispetto ad alcune politiche non è detto che la strada migliore sia quella di recuperare e fare oggi quello che non si è fatto ieri. Bisogna invece fare oggi quello che serve per fare meglio e di più domani. Analogamente la soluzione non può essere semplicemente quella di importare misure che hanno avuto successo in altri paesi e in altre parti d’Italia. Ogni contesto culturale e istituzionale ha proprie specificità che se ignorate possono diventare un freno; se declinate positivamente possono invece rivelarsi vincenti. Tutto questo, però, va combinato positivamente con alcuni fattori cruciali: la volontà dei giovani di non rassegnarsi nonostante le difficoltà, assieme alla disponibilità della classe dirigente a rimettere in discussione vecchie certezze, a sperimentare nuove soluzioni valutando l’efficacia degli esiti.

Solo così, in un mondo che cambia, non si resta indietro e non necessariamente si seguono gli altri, ma si avvia un percorso coerente con il meglio che il territorio – con le proprie risorse e guidato dai propri desideri – può esprimere.

Le sei “p” del nuovo welfare

C’è stata una fase nella storia di questo paese in cui tra crescita economica, welfare e demografia si è innescato un circuito virtuoso che ha portato al rialzo le condizioni di benessere materiale e di fiducia sociale. E’ stato il periodo che ha visto protagonista la generazione entrata in età adulta nel periodo della ricostruzione e nel corso del quale si è socializzata la generazione dei baby boomers.

Quel modello sociale e di sviluppo oggi non esiste più e uno dei motivi per cui economia e demografia inciampano l’una sull’altra, anziché spingersi a vicenda, va attribuito ad un welfare allo stesso tempo inadeguato e superato.

Quel sistema di protezione sociale era basato quasi esclusivamente sull’azione pubblica, con un approccio prevalentemente assistenzialistico e risarcitorio. Se oggi non funziona più, sia nel difendere da vecchi rischi che nel prevenire i nuovi, non è solo per i costi diventati insostenibili, ma ancor più per il fatto che le rigide risposte fornite dall’alto sono sempre meno in grado di dare una risposta completa ed efficace, in sintonia con l’evoluzione della domanda dal basso.

A questa inefficienza si è risposto, nel nostro paese, più tagliando  la spesa pubblica che innovando l’azione sociale. Ma i bisogni non sono certo diminuiti. Le trasformazioni demografiche, sociali e del mercato del lavoro hanno fatto emergere nuovi rischi. L’inadeguatezza delle risposte a questi cambiamenti ha portato sia ad un aumento delle disuguaglianze che a una riduzione del benessere complessivo della popolazione. Situazione aggravata dalla crisi che ha fatto crescere la vulnerabilità del ceto medio e frenato le scelte virtuose delle famiglie.

Più che tagliare è quindi necessario aprire una nuova stagione di politiche sociali in grado di rinnovare e rilanciare, sostenendo, da un lato, le persone nei percorsi che alimentano il benessere personale e familiare, ma anche continuando, d’altro lato, a proteggere dal rischio di scivolare in spirali di progressivo impoverimento. In questi ultimi casi, come mostrano molti studi, se non si interviene per tempo si genera uno “svantaggio corrosivo” che va ad intaccare profondamente la capacità di reagire e risollevarsi.

Abbiamo quindi bisogno urgentemente di un nuovo welfare che metta al centro la persona, non prendendosi in carico passivamente dei bisogni ma supportandone sviluppo umano e inclusione sociale. I risultati migliori li ottengono, del resto, le politiche sociali che considerano i cittadini come persone responsabili e attive, in grado non solo di porre domande ma anche di contribuire a fornire risposte.

In sintesi, il nuovo welfare andrebbe incardinato su sei “p”. Tre riferite agli obiettivi da affidargli: proteggere chi sta peggio, prevenire dai rischi di peggioramento, ma anche promuovere lo star meglio. E tre “p” corrispondenti agli attori da mettere assieme in campo: oltre al pubblico, anche il privato sociale e la partecipazione dei cittadini. L’insieme di tutti questi fattori sta alla base di un welfare comunitario che stimola l’innovazione sociale sul territorio puntando a favorire coesione e capacità generativa delle comunità locali, a consolidare i legami di fiducia, a dar sostegno alla propensione alla condivisione e alla corresponsabilità verso il bene comune.

Nel suo recente Rapporto annuale l’Istat ritrae le nuove generazioni, quelle nate dagli anni Ottanta in poi, come vittime di un vecchio sistema di welfare che non funziona più. Dobbiamo invece sempre più pensare ad esse, per sensibilità e competenze, come principali protagoniste di un nuovo sistema sociale più in linea con le trasformazioni in corso e con le sfide dei tempi nuovi. Un welfare che metta assieme sia innovazione che inclusione, nel quale i cittadini siano allo stesso tempo destinatari e produttori di nuovo benessere. Parte centrale di un modello sociale e di sviluppo in cui nessuno, a partire dal pubblico, si deresponsabilizza, e che anzi incentiva tutti a fare un passo avanti, verso un futuro comune e condiviso