C’è una crisi che precede la grande recessione, che la congiuntura negativa ha inasprito e che prosegue anche dopo, è quella che investe le nuove generazioni italiane. Una crisi che più che a fattori contingenti esterni va attribuita a persistenti limiti strutturali (e culturali) interni.
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Campania, entro 10 anni 7mila classi in meno
L’Italia si svuota dal basso e da sud. La popolazione italiana è in riduzione come conseguenza di una persistente denatalità. Un fenomeno che prima ha colpito il Nord e ora sempre più il Sud. La questione vera non è tanto l’essere di meno, ma gli squilibri demografici che ne derivano. Le generazioni quantitativamente più consistenti, nate nei primi decenni del secondo dopoguerra, si stanno spostando sempre più in età da pensione, mentre nelle classi scolastiche italiane entrano sempre meno bambini.
Ancora nel 2000, il tasso di fecondità totale, che corrisponde al numero medio di figli per donna in età riproduttiva, era pari a 1,35 nel Mezzogiorno e a 1,2 nel Nord. Le aree con fecondità più elevata erano la Campania e la provincia di Bolzano con 1,48 figli per donna. La provincia di Bolzano negli anni successivi ha visto leggermente crescere il suo valore e assestarsi attorno a 1,6. Di conseguenza il numero di nascite in tale area rimasto costante, cosicché i bambini che entrano nel sistema scolastico ogni anno oscillano attorno ai 5500. La Campania è stata invece una delle regioni che maggiormente hanno visto ridursi la natalità, perdendo completamente il vantaggio rispetto alla media nazionale. Questa accelerata convergenza al ribasso ha prodotto un forte indebolimento della base demografica della regione. La generazione di chi ha oggi 25 anni presenta una numerosità ancora abbondantemente sopra le 70 mila persone, si scende però a poco più di 60 mila per chi ha 10 anni e a meno di 50 mila per i nuovi nati. Un riscontro è, appunto, l’avvitamento verso il basso della popolazione studentesca, monitorato ormai da vari anni dalla Fondazione Agnelli.
Quali sono le implicazioni di questo processo e come si può rispondere? La prima cosa da fare è evitare che gli squilibri prodotti si allarghino ulteriormente, ovvero cercare di fermare la riduzione della natalità e ridare forza alle componenti di vitalità del territorio. Sono soprattutto due i punti nodali su cui agire, il primo è quello della relazione tra lavoro e autonomia dei giovani, il secondo è l’armonizzazione tra lavoro e famiglia nei percorsi femminili (e in corrispondenza anche maschili). Riguardo al primo nodo, la difficoltà dei giovani nel consolidare il percorso lavorativo porta ad aumentare la dipendenza dalla famiglia di origine. Come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, la situazione di incertezza porta a posticipare la formazione di una propria famiglia, condizionandola all’aver terminato gli studi, all’aver trovato un lavoro abbastanza stabile e con uno stipendio che consenta uno standard di vita dignitoso, alla prospettiva di poter acquistare casa. La difficoltà a realizzare tali tappe rende i giovani ipercauti nelle scelte verso il futuro.
Se il primo nodo pota ad un rinvio continuo del primo figlio, il secondo nodo frena la possibilità di andar oltre. Se, infatti, dopo la prima nascita ci si trova in difficoltà a rendere compatibili i tempi familiari con quelli lavorativi, per carenza di servizi per l’infanzia e per carenza di collaborazione del padre, difficilmente ci si sente incentivati ad averne un secondo. I dati comparativi europei mostrano che dove più solidi e accessibili sono gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia, chi ha lavoro sceglie maggiormente di avere un figlio e chi ha un figlio maggiormente si offre nel mercato del lavoro.
Ma c’è un altro aspetto da considerare. Con la ripresa della natalità si può limitare l’ampliamento degli squilibri, ma quelli oramai prodotti dalla denatalità passata sono destinati a rimanere. Come affrontarli? La risposta principale è compensare la riduzione quantitativa delle generazioni nate negli ultimi quindici anni con un solido piano di investimento qualitativo su di essi, a partire dalla formazione. Come suggerisce la stessa Fondazione Agnelli, pensare che, dato che gli alunni sono di meno, si possa risparmiare su risorse, spazi e insegnanti, sarebbe l’implicita conferma di aver accettato un declino, non solo demografico, senza prospettive.
Idee per il futuro
Nel 2038 la popolazione del pianeta arriverà, secondo le previsioni delle Nazioni Unite con base 2017, a superare i 9 miliardi. Questo significa che ad abitare sulla Terra saremo un miliardo e mezzo in più rispetto ad oggi.
Ma è anche vero che la popolazione non aumenta più a ritmi crescenti, come avvenuto per larga parte del secolo scorso. Basti pensare che nei venti anni successivi (dal 2038 al 2058) la popolazione crescerà di “solo” un altro miliardo e in quelli dopo (dal 2058 al 2078) di poco più di mezzo miliardo. Arrivando poi ad assestarsi verso la fine del XXI secolo poco sopra gli 11 miliardi.
La denatalità mette a rischio il sistema
L’allungamento della vita media è un’opportunità che va favorita con strumenti che consentano a ciascuno di prepararsi ad affrontare al meglio le vari stagioni dell’esistenza umana. L’aumento, invece, del peso demografico della popolazione anziana inattiva tende ad essere un problema, rendendo più debole la crescita economica e più incerta la sostenibilità del sistema sociale.
Son (quasi) tutte vuote le culle d’Italia
Cosa c’è di nuovo nei dati sulla demografia italiana aggiornati al 2017 e di recente pubblicati dall’Istat? Nel 2013 siamo scesi a 513 mila nascite, che allora era il livello più basso della nostra storia nazionale. Ogni anno successivo siamo scivolati però ancora più in basso e questo vale anche per il 2017, che con 464 mila nati ci porta ancora una volta a dire: “mai così pochi dal 1861 a oggi”. Il prossimo anno riusciremo a fare ancora peggio o vedremo finalmente i segnali della ripresa post crisi stimolati e sorretti da adeguate politiche?