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Contro l’inverno demografico serve una politica dell’inclusione per giovani, donne e immigrati

di EMANUELE FELICE E ALESSANDRO ROSINA

Quale sarà il futuro dell’Italia? Forse lo spopolamento interno, il declino demografico che porta con sé anche il declino economico e culturale? E come possiamo evitarlo? Se l’inverno demografico è un pericolo reale, già in corso, la politica più adatta a fronteggiarlo non è quella conservatrice e nazionalista, come una certa vulgata vuol far passare. Al contrario, è quella che proviene da una visione progressista fondata su diritti e inclusione, e su un approccio razionale e relazionale, privo di pregiudizi.

Partiamo dai dati. L’Italia si distingue in Europa soprattutto per una natalità da lungo tempo molto bassa: la media Ue è scesa a 1,5 figli in media per coppia, l’Italia è da 40 anni sotto tale livello, e di recente il dato è ulteriormente peggiorato. Questo aspetto si lega a un doppio svantaggio competitivo dell’Italia. Il primo è, a fronte dell’aumento della componente anziana, una maggior riduzione della forza lavoro potenziale.

Il secondo svantaggio competitivo è il sottoutilizzo del capitale umano delle nuove generazioni e delle donne: per il primo aspetto, si pensi che la Germania presenta una percentuale di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) pari a meno della metà dell’Italia; per il secondo, si pensi che la Svezia presenta un divario occupazionale di genere di circa 5 punti percentuale, nell’Unione è pari a 10, mentre in Italia siamo al doppio, quasi 20 punti (e questo è in buona parte riconducibile al gap fra l’occupazione delle donne senza figli e con figli).

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Genitorialità condivisa. I padri vogliono costruire un nuovo equilibrio in famiglia

Genitori si diventa, sia come madri che come padri. Alla base sta una scelta di coppia che dipende da condizioni oggettive e soggettive in mutamento nel tempo. Mentre il legame tra madre e figli è una costante della storia dell’umanità, il coinvolgimento del padre è invece un fenomeno recente e in piena evoluzione. Padri con bambino sul passeggino in centro città o che fanno jogging con figlio nel marsupio, non sono più un elemento raro e bizzarro del paesaggio urbano. Non è però ancora la norma. Molti freni culturali continuano ad essere presenti. Non si tratta di fare il ”mammo” ma di arricchire lo sviluppo relazionale dei figli con le specificità dell’accudimento e dell’interazione paterna, che migliora sia lo sviluppo del bambino sia l’esperienza genitoriale maschile.

Diamo più valore alla scelta di fare figli

Nelle nostre società contemporanee esiste una dissonanza rispetto ai comportamenti demografici. Da un lato, a livello collettivo, il punto di riferimento per un’adeguata continuità tra generazioni, che non porti a squilibri che diventano progressivamente insostenibili, è la media di due figli per donna. D’altro lato, a livello individuale, il punto di riferimento è zero.

Detto in altri termini, una società con numero di figli che diminuisce in modo continuo e consistente (ovvero con una fecondità come quella italiana, molto sotto la media di 2) si trova a rimettere in discussione le condizioni di sviluppo e benessere precedenti per affrontare i costi dell’invecchiamento della popolazione (sempre meno giovani con carico crescente di anziani) e di un declino che teoricamente può portare all’estinzione.

Al contrario, a livello individuale, è il non avere figli che consente di continuare a mantenere i livelli di benessere materiale e poterli accrescere, mentre una nascita mette in discussione il bilancio familiare, modalità organizzative e gestione dei tempi. In sintesi, per una comunità è bene un rinnovo generazionale adeguato, mentre per il singolo la scelta razionale, in senso stretto, porterebbe a non avere figli.

Nel mondo contemporaneo – con copertura efficace e continua consentita dalla contraccezione – se non si prende una decisione esplicita, si rimane nella condizione infeconda. Per non avere figli non è necessario scegliere di non volerli, è sufficiente rimanere indecisi (pur anche desiderosi di averli) in attesa del momento adatto.

Questa scelta non necessariamente contraria, ma lasciata in sospeso, si trasforma poi da sola in rinuncia: gli anni passano, finché a un certo punto, soprattutto sul versante femminile, ci si trova a prendere semplicemente atto che ormai è troppo tardi. Più che in passato è necessario, allora, che tale scelta sia in primo luogo sostenuta da una attribuzione esplicita di valore nella comunità di riferimento in coerenza con condizioni oggettive che favoriscano una realizzazione integrale della persona in ottica generativa.

Supponiamo che due Paesi presentino entrambi un numero desiderato di figli mediamente attorno a due e che abbiano la stessa proporzione di persone in età riproduttiva nei seguenti tre gruppi: 20% esplicitamente non interessati ad avere figli, 20% fortemente convinti di volerli (a qualsiasi condizione), 60% di indecisi (positivamente orientati ad averli ma valutando le condizioni adatte). Supponiamo, inoltre, che nel primo Paese si mettano in atto politiche efficaci che consentano di limitare il costo economico e le complicazioni organizzative e di conciliazione con l’arrivo dei figli. Facendo così in modo che il piacere di averli, l’arricchimento nella dimensione simbolica e il benessere relazionale diventino prevalenti rispetto alle difficoltà oggettive.

In termini numerici, il primo e il secondo gruppo rimarrebbero comunque fermi sulle proprie posizioni (rispettivamente 0 e 3 figli), ma il terzo verrebbe messo nelle condizioni di averne mediamente due. Nel complesso si ottiene una media di 1,8 figli per donna, valore che si avvicina al dato francese.

Supponiamo che, invece, nel secondo Paese tali politiche siano carenti e inefficaci. Non cambierebbe nulla per il primo e il terzo gruppo – dove la scelta (in direzione opposta) è già autonomamente orientata – ma il secondo gruppo, trovando un contesto meno favorevole, andrebbe ad abbassare a uno la propria fecondità. In tal caso, si ottiene un numero medio di figli per donna pari a 1,2, vicino al dato italiano.

Le politiche pubbliche e il welfare di comunità sono un elemento importante non solo di supporto ma anche di attribuzione di valore delle scelte generative. Detto in altri termini, le politiche familiari senza una riscoperta aggiornata del senso e del valore della maternità e della paternità (che rende più attrattivi tali ruoli) hanno poca efficacia.

Così come è altrettanto illusorio pretendere che cresca l’attrattività in un contesto che abbandona i giovani e le famiglie a sé stesse. Sono fronti che vanno aiutati ad avanzare assieme, in coerenza con quanto emerso nelle testimonianze delle ragazze ventenni raccolte nei giorni scorsi su queste pagine. Perché, allora, dobbiamo continuare a mantenere il Paese ostaggio della contrapposizione tra chi pensa che le donne debbano considerare la maternità come propria missione principale, anche a scapito di tutto il resto, e chi pensa che la scelta di non avere figli sia la migliore dimostrazione femminile di libertà di realizzazione?

È davvero difficile convergere sul fatto che chi desidera avere figli in Italia debba essere messa (e messo) – all’interno di una sfera ampia di realizzazione personale – nelle migliori condizioni di poterli veder crescere con adeguate prospettive di sicurezza, salute, formazione e benessere? Uniamoci su questo, come obiettivo condiviso, e avremo un Paese migliore dove sarà anche più cool essere madri e padri.

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Il dividendo demografico

Sta venendo a compimento nel XXI secolo un passaggio unico nella storia dell’umanità che porta ad un mutamento delle tradizionali fasi della vita e ad un’alterazione del tipico rapporto tra le generazioni, con implicazioni che mettono in discussione le basi che finora hanno consentito lo sviluppo economico e la sostenibilità sociale. Il motore di questa grande trasformazione è la “transizione demografica”. La prima fase di questo processo è caratterizzata dalla riduzione dei rischi di morte in età infantile e giovanile. Via via che si abbassano i rischi anche nelle età successive, il livello di fecondità che garantisce il ricambio generazionale scende progressivamente verso il valore di due (bastano due figli per sostituire i genitori alla stessa età). Va così a restringersi la base della piramide demografica a fronte di una punta
che si alza e allarga. Si entra così in una condizione del tutto nuova che impone la sfida di garantire sviluppo e benessere in un mondo in cui i giovani diventano una risorsa scarsa (“degiovanimento”) a fronte di una continua crescita della componente anziana (“invecchiamento”).

Una manovra attenta alle famiglie ma debole nel favorire un’inversione di tendenza delle nascite

(di Alessandro Rosina e Chiara Saraceno)

Il disegno di Legge di Bilancio approvato il 16 ottobre dal Consiglio dei Ministri prevede circa un miliardo di euro destinati a misure a favore della famiglia, in particolare a sostegno delle scelte positive di natalità. Non è poco se l’idea è quella di dare un segnale a favore delle coppie con figli, non è abbastanza se l’obiettivo è sostenere un solido processo di ripresa delle nascite. Per il livello molto basso del numero medio di figli per donna e la struttura per età italiana squilibrata a sfavore delle età riproduttive, un’inversione di tendenza è possibile solo allineando le politiche familiari, di genere e generazionali italiane alle migliori esperienze europee. Anche dopo gli interventi previsti dalla manovra rimaniamo molto lontani da tale obiettivo. Servirebbe quindi un impegno maggiore in termini di risorse destinate, dato che nel tempo la crisi demografica è andata ad aggravarsi.

Riguardo al merito delle singole misure, ciascuna tocca punti importanti da migliorare, ma con due limiti di impostazione: quello di occuparsi del percorso riproduttivo saltando il primo figlio e quello di affrontare la conciliazione (tra lavoro e famiglia) lasciando debole la condivisione (tra madri e padri).

L’importanza di iniziare bene con il primo figlio

In particolare, è previsto un rafforzamento del “bonus asilo nido” che mira ad andare verso la gratuità, a partire dalle famiglie meno abbienti: obbiettivo condivisibile, ma non si capisce perché solo dal secondo figlio in poi. Inoltre il problema dei nidi in Italia non è solo il loro costo per le famiglie, ma la loro mancanza. Anche tenendo conto dei nidi privati, il cui costo non è calmierato e diversificato in base all’ISEE, come avviene per i nidi pubblici e convenzionati, solo un bambino su tre ha teoricamente un posto al nido a livello nazionale, una proporzione che nel Mezzogiorno diventa uno su dieci.

Bene, anche, favorire le madri che lavorano con incentivi all’assunzione, a cui si aggiunge la proposta di decontribuzione che rafforza la busta paga. Ma anche qui dal secondo figlio in poi e in modo strutturale solo a partire dal terzo figlio, una situazione che riguarda una frazione piccolissima di madri lavoratrici, dato che le madri vengono spesso scoraggiate dal rimanere nel mercato del lavoro già dal primo figlio.

Il freno maggiore in Italia nel processo di formazione della famiglia è costituito dalle difficoltà che incontrano le nuove generazioni se desiderano diventare genitori. Non a caso l’Italia è uno dei paesi in Europa con più bassa fecondità prima dei 30 anni e con maggior posticipazione dell’arrivo del primo figlio. Come mostrano i dati Istat, negli ultimi quindici anni il rischio di povertà ha colpito soprattutto le coppie più giovani con figli (circa il doppio rispetto alle famiglie di over 65). Senza politiche che rafforzino il passaggio cruciale dalla condizione di figlio dipendente dai genitori a persona autonoma in grado di assumere responsabilità genitoriali, anche tutto il resto del percorso rimane debole. L’incertezza che grava su tale fase deve trovare risposta con politiche abitative, sostegno economico alla decisione di avere il primo figlio, certezza di poter ottenere un posto al nido e senza costi gravosi. Se si vuole favorire la possibilità di avvicinare il numero medio di figli realizzati con quello desiderato, aiutare le coppie ad aggiungere il secondo figlio ha ridotta efficacia se permangono le difficoltà sul primo.

L’importanza di tenere assieme conciliazione e condivisione

Le proposte contenute del disegno della manovra tendono inoltre a rafforzare il ruolo materno nelle responsabilità e carico di cura verso i figli, lasciando più marginale il ruolo dei padri.  Le esperienze in Europa di miglioramento insieme dell’occupazione femminile e della fecondità sono quelle che promuovono un coinvolgimento dei padri. Proseguendo quanto già fatto con la legge di stabilità del 2023, quando si è introdotta una indennità dell’80% (invece del 30%) per il primo mese di congedo parentale, il Governo intende proseguire in questa direzione offrendo un’indennità del 60% per il secondo mese. Lascia invece invariato a dieci giorni il congedo di paternità, pagato al 100%. E’   una scelta che non va nella direzione di riequilibrare le responsabilità di cura tra madri e padri, sia perché il congedo parentale è opzionale, mentre quello di paternità è obbligatorio, sia perché questo è totalmente indennizzato. Se si vuole che i padri assumano responsabilità di cura per un tempo ragionevole, è più efficace agire sul congedo di paternità. Risulta difficile superare le resistenze dei datori di lavoro che tendono ad interpretare la domanda di congedo parentale come scarso impegno verso l’azienda. Estendere il congedo obbligatorio di paternità avrebbe più effetto. Prendere un congedo dal lavoro quando nasce un figlio dovrebbe diventare la normalità non solo per le madri ma anche per i padri. Come molti studi evidenziano questo non diminuisce solo la quantità del carico di cura femminile,  ma consolida soprattutto la relazione di attaccamento tra padre e figli, aiutando inoltre a sviluppare codici di cura maschili. Quando più la nascita del primo figlio viene vissuta come esperienza positiva per tutti sul versante relazionale e non negativa su quello lavorativo, tanto più viene presa in considerazione la possibilità di averne altri.

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