L’Italia è un paese che da troppo tempo sottovaluta il ruolo della demografia con la conseguenza di trovarsi con squilibri strutturali interni tra i peggiori al mondo. Lo stesso Piano di ripresa e resilienza non mette la transizione demografica tra le sfide strategiche che caratterizzano il nostro paese. Questo significa che l’Italia non ha un piano per contenere gli squilibri demografici con obiettivi predefiniti da monitorare. L’approccio prevalente è quello di cercare di gestirne le conseguenze, si tratti dell’aumento della popolazione anziana o della diminuzione della popolazione scolastica.
Nel portale “Italia domani”, anche quando si fa riferimento a misure importanti sul versante delle politiche familiari, come il “Piano asili nido”, si afferma che l’obiettivo è quello di migliorare l’offerta educativa fin dalla prima infanzia e incoraggiare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro conciliando vita familiare e professione. Viene insomma esplicitata l’idea che grazie ai nidi le donne con figli possono maggiormente anche lavorare, ma non viene preso in considerazione il fatto che le persone che lavorano possono essere messe nelle migliori condizioni per avere figli. Ma per agire con successo su questo secondo fronte non bastano i nidi, servono misure più ampie e sistemiche che consentano a uomini e donne di poter migliorare il proprio benessere lavorativo e la propria produttività con l’esperienza della nascita di un figlio. Nel PNRR questo è riconosciuto solo indirettamente attraverso un rinvio alle azioni del Family act, diventato legge il 7 aprile scorso. Eppure una sensibilità verso il tema esiste nel Governo. Più che nel testo stesso del PNRR se ne trova riscontro nella presentazione effettuata dal Presidente Mario Draghi alla Camera il 26 aprile 2021. In particolare dove si riconosce che: “un Piano che guarda alle prossime generazioni deve riconoscere la nostra realtà demografica. Siamo uno dei paesi con la più bassa fecondità in Europa quasi meno di 1,3 figli per ciascuna donna contro quasi 1,6 della media Ue”.
La mancanza di una strategia chiara sulla questione demografica tende a portare ad una preoccupazione senza corrispondente linea d’azione su come invertire la tendenza. Tanto più che nel PNRR manca anche il ruolo strategico da assegnare ai flussi migratori. E’ invece proprio dalla combinazione tra immigrazione e politiche specifiche a supporto della natalità, come mostra il caso della Germania, che gli squilibri possono essere ridotti e si può evitare che nel medio e lungo periodo diventano insostenibili.
La presa implicita d’atto che non ci sarà una inversione di tendenza è implicitamente presente nelle valutazioni del Governo sull’evoluzione della popolazione scolastica rese note in questi giorni, assieme alle conseguenze tratte sul ridimensionamento dell’organico necessario di docenti. Il legame stabilito tra andamento delle nascite e riduzione degli insegnanti ha alla base l’idea declinista e presentista che la demografia negativa sia un’opportunità per poter risparmiare sulle nuove generazioni e continuare a destinare risorse dove ottenere oggi maggior consenso. Ha fatto bene il Ministro Bianchi a precisare recentemente, in occasione della presentazione della Unesco Chair on Urban Health a La Sapienza, che “le risorse che ci sono per la scuola devono rimanere sulla scuola” e che “bisogna ridurre il numero delle classi e aumentarne la qualità”.
Oltre però a chiarire come il Paese intende interpretare il rapporto tra quantità di studenti e investimento sulla qualità della loro formazione, c’è un ulteriore punto che va chiarito, quello di come si valuta il fabbisogno dei prossimi anni. Il dato di base è il numero di bambini e ragazzi che ci saranno in Italia nell’orizzonte dei prossimi dieci, quindici, vent’anni. Tale dato viene usualmente tratto dalle proiezioni Istat e in particolare dallo scenario mediano. Quello più recente è fornito dalle previsioni con base 2020 pubblicate alla fine dello scorso anno.
Va allora precisato che assumere tale scenario non contempla una ripresa delle nascite. Si basa, infatti, su ipotesi di un aumento modesto del numero medio di figli per donna non in grado di controbilanciare la riduzione delle donne in età riproduttiva. Assumere questo scenario come riferimento per le scelte che il Governo deve prendere per governare il percorso di sviluppo dei prossimi dieci anni, significa, pertanto, dare per scontato la gestione di squilibri demografici crescenti e non invece favorirne anche il contenimento.
In generale, non dobbiamo considerare la demografia come un fattore esogeno che ci condanna ad un destino ineluttabile al quale adattarci con misure in difesa e al ribasso. Nell’incertezza sul futuro sta il margine della nostra azione. Gli scenari prodotti dalle previsioni servono ad anticipare le conseguenze delle trasformazioni in corso e a capire quali scelte fare oggi per orientare il percorso più favorevole e collettivamente auspicato. Più che ad allinearsi allo scenario mediano il Governo dovrebbe indirizzare le sue misure a favore della realizzazione dello scenario alto. Altrimenti continueremo a rendere la denatalità una profezia che si autoadempie.
Del resto, se guardiamo alla storia delle previsioni precedenti, dallo scenario mediano la realtà osservata si è sempre tenuta ad una certa distanza nel nostro Paese. Nel primo decennio di questo secolo lo scostamento è stato positivo, con la fecondità del Nord Italia che ha avuto dinamiche più favorevoli rispetto alle attese, arrivando in modo inedito a superare quella meridionale. Nel secondo decennio è stato, invece, fortemente negativo – anche a causa dell’impatto della Grande recessione – con un crollo tale da portare nel 2019 le nascite ad essere circa 100 mila in meno rispetto allo scenario centrale proposto dalle proiezioni Istat con base 2011.
Paradossalmente, se c’è uno scenario che l’esperienza passata ha mostrato essere più ostico a realizzarsi è proprio quello mediano. Guardando al dato del 2021, il numero medio di figli per donna effettivamente osservato è stimato pari a 1,25, in linea più con quanto previsto nello scenario alto (limite superiore dell’intervallo di incertezza contemplato dall’Istat) che a quello mediano. Una spinta positiva, quindi, si intravede, ma nulla è scontato nel percorso dei prossimi anni.
Se guardiamo alla popolazione del 2034 e facciamo riferimento alla fascia di età 0-12, quella che dipende strettamente dalle dinamiche delle future nascite, dai circa 6,3 milioni attuali lo scenario mediano contempla una discesa a 5,4 milioni mentre quello alto a 5,9 milioni. La perdita risulterebbe, in questo secondo caso, più che dimezzata. Ovviamente più si va avanti nel tempo e più l’inversione di tendenza andrebbe a pesare, non tanto facendo aumentare le nuove generazioni ma quantomeno contenendo la loro riduzione.
La domanda da porsi è quindi: quale tra i futuri possibili vogliamo e cosa possiamo fare ora per realizzarlo?