Cosa c’è di nuovo nei dati sulla demografia italiana aggiornati al 2017 e di recente pubblicati dall’Istat? Nel 2013 siamo scesi a 513 mila nascite, che allora era il livello più basso della nostra storia nazionale. Ogni anno successivo siamo scivolati però ancora più in basso e questo vale anche per il 2017, che con 464 mila nati ci porta ancora una volta a dire: “mai così pochi dal 1861 a oggi”. Il prossimo anno riusciremo a fare ancora peggio o vedremo finalmente i segnali della ripresa post crisi stimolati e sorretti da adeguate politiche?
La questione preoccupante non è tanto la diminuzione complessiva della popolazione, ma gli scompensi interni prodotti. L’esito di queste dinamiche è soprattutto il fatto che stiamo inasprendo squilibri (generazionali) che diventeranno sempre più difficili da gestire. A una popolazione anziana che continuerà ad aumentare si contrappone una popolazione giovane in continua riduzione. Se oggi siamo in difficoltà a produrre crescita economica e a finanziare il sistema di welfare pubblico, nei prossimi anni avremo ancor meno persone nelle età in cui è più alta la capacità di generare ricchezza e molte più persone nelle età in cui si ha bisogno di sostegno (previdenziale) e assistenza (sanitaria). Insomma, quello che è certo è che le risorse assorbite dalla popolazione più matura continueranno a lievitare, mentre stiamo indebolendo la componente di chi dovrà fornirle e far crescere il paese.
Secondo i dati Istat a inizio 2018 gli over 65 sono saliti al 22,6 per cento, mentre gli under 15 sono scesi al 13,4 per cento. Difficile trovare un paese in Europa con un rapporto così sfavorevole tra anziani e giovani. I paesi con cui ci confrontiamo hanno evitato squilibri tanto accentuati non certo riducendo l’espansione dell’aspettativa di vita (a cui dare qualità), ma attraverso politiche di sostegno alle nascite (evitando di scendere troppo sotto la media dei due figli per donna, corrispondente all’equilibrio generazionale). La Germania, che ha sofferto una denatalità simile all’Italia (ma che ha un livello desiderato di figli più basso), cerca con più determinazione di sostenere la natalità. Il piano di rafforzamento dei servizi all’infanzia è partito negli anni di crisi economica e ora sembra dare i suoi frutti. La fecondità era scesa sotto il dato italiano, ma negli ultimi anni l’andamento è stato di continua crescita fino a raggiungere 1,5 figli per donna, mentre noi siamo arrivati a 1,34.
Ma le promesse non mancano
Le imminenti elezioni del 4 marzo ci permettono di tastare il polso della sensibilità politica sulla questione demografica. Va riconosciuto che, nel complesso, il tema del sostegno alle famiglie trova maggior spazio nei programmi rispetto alle tornate elettorali precedenti.
Per quanto non sia da escludere che le proposte dei partiti siano più l’esito dei timori che la popolazione italiana in diminuzione venga “sostituita” dalla quella immigrata che non di una effettiva consapevolezza degli squilibri che la cronica denatalità sta accentuando (che non possono essere risolti né da sola immigrazione né da sola ripresa riproduttiva), resta il fatto che finalmente vi è ampio consenso sull’importanza di fare di più e meglio. Gli strumenti proposti nei programmi elettorali riguardano principalmente la revisione del sistema fiscale attraverso un alleggerimento del carico per le famiglie con figli, i trasferimenti monetari, la gratuità degli asili nidi e la regolamentazione dei congedi e degli orari di lavoro.
Nel complesso, si tratta di proposte varie e spesso condivisibili, ma la generosità delle promesse sul tema familiare deve fare i conti con i costi elevati e l’effettiva copertura finanziaria. Le proposte spesso non forniscono dettagli che permettano di valutarne la reale fattibilità, non entrano nel merito delle cifre proposte, oppure non forniscono particolari di rilievo. Sembrano quindi più proclami con finalità politica che coerenti e solidi programmi di azione.
Dove iniziare per invertire il declino
Al di là dei programmi elettorali, se volessimo davvero evitare il declino (non tanto e solo demografico) da dove bisognerebbe iniziare? Si dovrebbe agire prioritariamente sul potenziamento della fase cruciale tra i 25 e i 34 anni (sul versante lavoro e scelte di vita, ovvero produttivo e riproduttivo). Si tratta della generazione che era in età 15-24 anni nel 2008 e che nel decennio successivo è stata investita in pieno dalla recessione nella fase di transizione dalla scuola al lavoro e di costruzione delle basi solide di entrata nella vita adulta. L’impatto è stato peggiore, sul lato occupazionale e sociale, di quanto subito dalle altre età e dai coetanei delle altre economie avanzate. La percentuale di chi non studia più e nemmeno lavora sfiora il 30 per cento nella classe 25-34, è uno dei dati in assoluto peggiori d’Europa. Negli ultimi anni l’incidenza della povertà delle famiglie formate da over 65 è scesa sotto il 4 per cento, mentre è salita oltre il 10 per cento nel caso di capofamiglia under 35. La debolezza qualitativa e quantitativa di questa generazione è ciò che sta vincolando la crescita economica e la ripresa delle nascite. Qualsiasi azione sistemica che voglia ridare vitalità al paese deve prima di tutto, e con urgenza, dimostrare di volerla mettere nelle condizioni di non rinunciare a dare i suoi migliori frutti.