Fare in modo che i progetti di vita delle nuove generazioni trovino pieno successo nella loro realizzazione dovrebbe essere una delle preoccupazioni principali di un Paese interessato a mettere basi solide del proprio futuro. Questo è ancor più vero oggi: la maggior complessità delle società moderne avanzate, la rapidità dei cambiamenti, la più accentuata specializzazione di saperi e competenze, la più elevata competitività internazionale, la maggior pervasività dell’innovazione tecnologica, rendono più arduo orientarsi nelle scelte formative, più instabile il percorso professionale, più incerta la realizzazione dei propri obiettivi di vita.
Ma anche caratteristiche, desideri e sensibilità delle nuove generazioni sono in continuo mutamento. Una proposta che voglia avere successo verso i giovani deve essere coerente con le loro aspirazioni, con la loro visione del mondo, con l’interpretazione del proprio ruolo in esso e con le loro convinzioni su come contribuire a migliorarlo. Ma deve anche fare i conti con i loro specifici limiti. Le generazioni più mature (in qualità di educatori, politici, datori di lavoro, ecc.) tendono però a sottovalutare le potenzialità e dar più enfasi alle fragilità. Molto spesso, inoltre, questi due fattori si trovano ad essere confusi, con possibili specificità positive che non vengono riconosciute e frettolosamente catalogate come fragilità. Ne consegue che, da un lato, sempre meno ciò che funzionava per i giovani di ieri può essere semplicemente replicato oggi, ma presentiamo anche, d’altro lato, un drammatico deficit nella capacità di andar incontro e far spazio al nuovo.
L’evidenza più chiara di quanto non funziona nel mettere le nuove generazioni nelle condizioni di realizzare i propri progetti di vita e di contribuire in modo originale e qualificato alla costruzione di un futuro comune, è data dall’elevato tasso in Italia di Neet (Not in Education, Employment or Training). Con tale acronimo vengono indicati gli under 30 lasciati in inoperosa attesa: usciti dal percorso formativo senza però aver ottenuto un accesso al mondo del lavoro. Usando una metafora sportiva è come se i ventenni, anziché farli giocare sul campo nel ruolo più adatto alle proprie capacità, li tenessimo in panchina, ma senza farli allenare e riscaldare. Così il tempo passa, la squadra non fa i cambi che servono e chi sta in panchina perde solo tempo raffreddandosi sempre di più.
I giovani che meno rischiano di scivolare in questa condizione sono quelli che hanno maggiormente sviluppato non solo conoscenze e competenze tecniche nel percorso scolastico, ma anche e soprattutto i cosiddetti “life skills”. L’arricchimento maggiore su questo versante arriva dai contesti di apprendimento informale, in cui si impara a stare in relazione con gli altri, al fare assieme, a mettersi alla prova, a gestire le emozioni, a sperimentare ruoli e impegni, senza eccessivo peso del giudizio e surplus di ansia. Ancor più funzionano proposte rivolte ai giovani non intesi come soggetti fragili che hanno bisogno di essere aiutati dalla collettività, ma come risorse a cui dare occasione di dimostrare a se stessi e verso gli altri quanto valore possono esprimere.
Dar per scontato che i giovani siano superficiali e individualisti, come finora troppo spesso si è fatto, è un grande errore che compromette la piena attivazione delle nuove generazioni. E’ vero però che le modalità tradizionali di coinvolgimento e ingaggio non funzionano più. Presentano inoltre, per una carenza di politiche efficaci passate e un deficit di accountability, un’alta sfiducia nelle istituzioni che frena la spinta verso la partecipazione sociale e politica. Sono inoltre facili alla demotivazione quando mancano stimoli e non vedono il riscontro concreto e riconoscibile del proprio impegno. In sintesi, domanda e offerta di partecipazione, assieme ai meccanismi di valido incontro, vanno entrambe ripensate.
Da parte dei giovani la domanda potenziale è comunque elevata. I dati di un approfondimento ad hoc del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, evidenziano come, se è bassa la percentuale di chi ha fatto volontariato o il servizio civile, oltre l’80% degli intervistati concorda con l’utilità per tutti i giovani dello svolgere un’esperienza, anche limitata, di impegno sociale a favore della propria comunità o in missioni in ambito internazionale.
Il servizio civile universale presenta varie caratteristiche coerenti con le necessità e le aspettative delle nuove generazioni. Quello che esse apprezzano particolarmente è la possibilità di combinare in modo virtuoso: il sentirsi attivi in progetti concreti su cui misurare la propria capacità di fare e ottenere risultati; la possibilità di esercitare il proprio protagonismo positivo nel migliorare il contesto in cui si vive; l’opportunità di acquisire e raffinare sul campo competenze considerate utili per la vita e il lavoro.
La fiducia si riconquista dimostrando di mettere in campo misure davvero utili nella vita delle persone, all’interno di un processo di sperimentazione e miglioramento continuo. E’ quindi cruciale prevedere un sistema trasparente di monitoraggio e valutazione dell’impatto del SCU sulle life skills e sull’occupabilità.
I dati dell’indagine mostrano, inoltre, come i Neet, da un lato siano quelli con meno esperienza di impegno sociale, ma, d’altro lato, si rivelino anche quelli più interessati ad un’offerta con le caratteristiche potenziali del servizio civile universale. Non tanto come un surrogato del lavoro, ma come un’opzione in più da inserire nel proprio percorso di crescita con ricadute positive sulla capacità di essere attivi, trovare motivazione e mettere alla prova il proprio saper essere e saper fare con gli altri. Una scelta che va anche incontro al profondo desiderio di riconoscimento sociale e alle grandi esigenze di rafforzamento del senso di appartenenza comunitaria.
E’ assolutamente necessario partire da un presupposto che troppo spesso dimentichiamo: tutti i giovani sono grandi cercatori di senso e hanno un grande desiderio di dare valore alla propria vita. Si considerano, inoltre, la principale risorsa per far crescere il proprio paese. Va quindi ribaltato l’approccio: non sono i giovani che hanno bisogno del servizio civile, ma è il miglioramento sociale e civile dell’Italia che ha bisogno del miglior contributo delle nuove generazioni. Quello che serve non è un parcheggio ricreativo per inoccupati ma una palestra di vita ben attrezzata per giovani che vogliono allenarsi a diventare protagonisti del mondo che cambia con loro e grazie a loro.
Allargare gli orizzonti dell’azione sociale dei giovani non è un lusso, è conquista di spazio vitale per il benessere futuro di tutti.