Se l’Italia si disoccupa dei giovani

L’Italia non si occupa dei suoi giovani. Non si tratta solo della condizione lavorativa, ma del ruolo delle nuove generazioni all’interno dei processi di innovazione e sviluppo competitivo del paese. Lo mostrano i dati e il modo di raccontare la realtà.

Il nostro paese non sembra animato da una grande volontà di impegnarsi per migliorare la condizione delle nuove generazioni, requisito fondamentale per mettere le basi di un solido percorso di crescita. Non si tratta solo della condizione lavorativa, ma del ruolo loro assegnato all’interno dei processi di innovazione e sviluppo competitivo del paese. Oggi l’Italia è senza progetto per il proprio futuro e i giovani italiani sono senza ruolo. I dati lo riflettono in modo coerente.

Nel 2008, all’inizio della recessione, il tasso di disoccupazione giovanile era in Italia del 21,2 per cento contro una media europea pari al 15,9 per cento, con un divario quindi di poco più di 5 punti percentuali. Nel 2018, ultimo dato completo disponibile, il tasso europeo risulta leggermente più basso rispetto al 2008 (15,2 per cento) mentre il nostro è sensibilmente più alto (32,2 per cento), con un divario salito a oltre 15 punti percentuali. Il dato mensile più recente, relativo a marzo 2019 e appena pubblicato dall’Istat, è pari al 30,2 per cento.

La questione vera è allora perché dopo aver fatto crescere così tanto il valore negli anni acuti della crisi, lo stiamo ora riducendo così lentamente e con così tanta incertezza e difficoltà.

Il problema non è solo la carenza di politiche efficaci, manca a monte una vera attenzione nei confronti dei giovani e un approccio strategico nell’affrontare il tema della crescita con le nuove generazioni.

Tutto quello che riguarda i giovani è sconsolatamente al ribasso nel nostro paese rispetto al mondo con cui ci confrontiamo. Le nascite sono al ribasso, il peso elettorale dei giovani è al ribasso, gli investimenti in formazione, ricerca e sviluppo sono al ribasso, la loro presenza attiva nei processi di crescita del paese è al ribasso, di conseguenza anche la loro fiducia nelle istituzioni è bassa. Ciò che è cresciuto in questi anni tra i giovani è l’incertezza nel futuro e la mobilità verso l’estero. Quello che, a danno delle nuove generazioni, abbiamo messo in atto è il piano migliore in Europa per non far crescere il paese. E ci siamo riusciti.

Lo stesso discorso pubblico sui giovani è pieno di luoghi comuni, di schemi interpretativi datati, di superficialità nel descrivere la loro condizione. Abbiamo visto, anche sui giornali più autorevoli, servizi in prima pagina sui giovani che rifiutano offerte di lavoro ben pagate. Esempi del peggior giornalismo, quello che estrae dalla realtà i casi più in sintonia con la propria chiave di lettura e li piega in funzione del luogo comune che funziona per far notizia, senza sforzarsi di cercare di rappresentare la realtà nella sua complessità e gettar luce sulle cause.

Un ulteriore segnale che conferma la disattenzione pubblica è il basso impegno a interpretare in modo adeguato gli indicatori che riguardano le nuove generazioni. I Neet (giovani che non studiano e non lavorano) vengono spesso rappresentati in modo polarizzato come “quelli che non vogliono lavorare” o come “quelli così scoraggiati che nemmeno più cercano il lavoro”. Nessuna delle due interpretazioni è corretta. Nei Neet entrano tutti i giovani fuori dal percorso formativo e senza occupazione, ovvero tutti gli inattivi (sia chi cerca lavoro, sia chi non è interessato, sia chi è scoraggiato).

Analoga sorte subisce il tasso di disoccupazione giovanile (che, è bene chiarire, si riferisce alla classe 15-24 anni). Quando nella sua lunga cavalcata al rialzo durante la grande crisi il tasso ha superato il 33 per cento, i mass media hanno pubblicato titoli di apertura che affermavano che “oltre un terzo dei giovani è senza lavoro”. Con l’inasprirsi del fenomeno, questi titoli si sono ripetuti più e più volte, tanto che a un certo punto l’Istat ha sentito l’esigenza di diffondere, nel 2012, un comunicato stampa “di precisazione” spiegando che non corrisponde ad alcun dato reale il fatto che un giovane su tre sia senza lavoro. Rispetto a tutti i giovani, quelli che non lavorano sono oltre 8 su 10 (il complementare del tasso di occupazione), mentre chi non trova lavoro pur cercandolo (i disoccupati in senso stretto) sono meno di 1 su 10. Nessuno dei due valori corrisponde a “un terzo dei giovani”. Quindi? Il fatto è che al denominatore del tasso di disoccupazione non ci sono tutti i giovani, ma solo quelli che si offrono al mercato del lavoro (quindi non studenti e non scoraggiati o disinteressati). Nella sua nota del 2012, l’Istat precisava coerentemente che «non è corretto affermare che “più di un giovane su tre è disoccupato”, mentre sarebbe più corretto segnalare che “più di uno su tre dei giovani attivi è disoccupato”». Siamo nel 2019, il dato sulla disoccupazione giovanile è ancora superiore al 30 per cento e sui titoli dei giornali, in occasione del primo maggio, ci troviamo a leggere che “un giovane su tre non ha lavoro”. Una coazione a ripetere che ci imprigiona in un presente senza prospettiva di vero miglioramento.

Quello che manca veramente

Se non vogliamo passare così anche il primo maggio dei prossimi anni dobbiamo sforzarci di cambiare sia la qualità dell’attenzione verso i giovani nel dibattito pubblico (capacità di raccontare la realtà), sia l’approccio nelle politiche pubbliche (capacità di agire sulla realtà). Dobbiamo pensare all’Italia non come a un paese nel quale manca il lavoro per i giovani, ma nel quale mancano giovani qualificati al lavoro, la risorsa chiave per produrre crescita innovativa e competitiva. Le nuove generazioni sono quantitativamente scarse, mentre quelle demograficamente più consistenti stanno andando in pensione. Solo un paese in declino può trasformare la carenza di giovani in alta disoccupazione. Ma un paese che non investe nel capitale umano delle nuove generazioni e nell’inserimento solido nei settori più strategici e produttivi, non può crescere e condanna i giovani, pur pochi, a esser sempre più marginali.

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