Questo slancio l’Italia sembra averlo perso da tempo. I dati che lo confermano sono molti, ma ce ne sono tre eclatanti: l’enorme debito pubblico scaricato sulle nuove generazioni, il deterioramento delle prospettive occupazionali giovanili, la riduzione delle nascite in contrapposizione alla crescita esuberante della popolazione anziana. Difficile trovare una combinazione così accentuata di questi tre aspetti in un altro paese sviluppato, con conseguenze negative vincolanti rispetto alla produzione di ricchezza e benessere.
La caduta della natalità, in particolare, è la somma di una sovrapposizione di varie crisi – economica, di fiducia sociale, di credibilità delle politiche, di visione del futuro – che frena i progetti di vita. La recessione economica non è quindi la sola responsabile. Da un lato si sovrappone a limiti stratificati nel tempo di capacità di crescita e di carenze di politiche pubbliche. Dall’altro interagisce con altre crisi più profonde che vanno ad intaccare le riserve rigenerative del sistema paese. Non è pero un destino ineluttabile quella del declino, perché almeno nel gran parte dei giovani la resa di fronte alle sfide delle trasformazioni in atto ancora non è ancora stata dichiarata.
I dati dell’indagine “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo documentano come le nuove generazioni italiane abbiamo in partenza – quando ancora sono all’inizio del proprio percorso di transizione alla vita adulta – aspettative elevate di realizzazione piena sia sul piano professionale che in ambito familiare e privato. In particolare il numero di figli che si aspettano di avere è in media superiore a due. Quello che però accade è che via via che crescono e si confrontano con le oggettive difficoltà di conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine, di raggiungere una posizione stabile nel mondo del lavoro, di mettere le basi di una propria famiglia, si trovano progressivamente a rivedere al ribasso i propri progetti. Le scelte impegnative verso il futuro vengono congelate e lasciate in sospeso, con il rischio poi di diventare rinuncia definitiva.
Uno degli esiti di questo processo di revisione al ribasso è, appunto, il record negativo di nascite. Il dato più recente dell’Istat, registra 503 mila nuovi nati nel corso del 2014. In un articolo pubblicato l’anno scorso su lavoce.info facevo notare come già il dato del 2013 fosse il più basso di tutta la nostra storia Repubblicana e anche inferiore ai valori toccati durante le due guerre mondiali. Il dato più recente risulta ancora peggiore ed evidenzia un saldo in rosso rispetto ai decessi che da anni si va progressivamente allargando. Ma il quadro negativo delle dinamiche demografiche è ancor più ampio. Va infatti aggiunto che anche il contributo dell’immigrazione dall’estero è in riduzione e che anche la fecondità degli stranieri sta convergendo al ribasso sui valori degli autoctoni. Un contesto come quello italiano che fatica a crescere e offre un sistema di welfare inadeguato, diventa sempre meno attrattivo se non per i più disperati. Chi nasce qui, inoltre, decide sempre più di andarsene appena raggiunta la maggiore età o appena laureato. Al divario negativo tra nascite e decessi va quindi aggiunto il divario negativo tra giovani qualificati che se ne vanno e quelli che attraiamo ne nostro paese. Entrambi questi divari sono la conseguenza del gap tra progetti di vita e possibilità di loro piena realizzazione. Entrambi contribuiscono al “degiovanimento “ della popolazione italiana, ovvero alla drastica riduzione della presenza quantitativa e qualitativa dei giovani nella società e nel mercato del lavoro, al decadimento del pieno e qualificato contributo delle nuove generazioni ai processi produttivi e decisionali del sistema paese.
La conseguenza è un paese che trasforma più facilmente i giovani da risorsa attiva a costo sociale, come evidenzia il record di under 30 che non studiano e non lavorano, e con maggior squilibrio demografico verso la popolazione anziana inattiva, con conseguenti ricadute negative sia in termini di crescita economica che di sostenibilità sociale. Il rapporto tra la fascia che entra nel mercato del lavoro, quella tra i 15 e i 25 anni, e la fascia che entra in condizione anziana, quella tra i 65 e i 75 anni, ancora negli anni Novanta del secolo scorso era abbondantemente a favore dei più giovani. Nel corso del primo decennio di questo secolo si è compiuto il superamento dei secondi sui primi. Entro il 2030 i senior saranno due milioni in più. Anche la Germania si trova in condizioni simili, ma con ben diversa capacità di risposta.
La demografia è lenta ma implacabile. Il problema vero del nostro paese è che, da un lato, noi abbiamo favorito di meno le dinamiche demografiche più favorevoli alla crescita e alla sostenibilità sociale, e dall’altro, siamo ancor più lenti della demografia nel mettere in atto le politiche pubbliche e i cambiamenti culturali necessari per affrontare per tempo le sfide poste. E’ la combinazione tra questi due fattori che rischia di inguaiarci irreparabilmente.