Tasso di fecondità mai così basso. Ora è sceso a 1,24

17/05/2023
Tasso di fecondità mai così basso. Ora è sceso a 1,24 ECO DI BERGAMO - 17 Maggio 2023

Ora che siamo scesi sotto la soglia psicologica dei 400 mila nati all’anno (393 mila nel 2022), ci troviamo nel pieno della <trappola demografica>. Per questo ci si deve chiedere (di nuovo) perché mai l’Italia stia invecchiando rapidamente, con una fecondità tra le più basse al mondo e con una popolazione entrata in fase di declino. A questa domanda risponde uno dei più autorevoli esperti, Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica all’Università Cattolica di Milano, con il suo ultimo libro, <Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi e sfide>, Carocci editore, scritto con Roberto Impicciatore.

Professor Rosina, iniziamo da qui.

<Ci troviamo inseriti, in modo del tutto sfavorevole, in una transizione demografica. Quando il tasso di fecondità è attorno alla media ideale di 2 figli per donna, la popolazione smette di crescere, o diminuisce lentamente, mantenendo un sostanziale equilibrio tra generazioni. Se invece tale indicatore scende velocemente e resta a lungo sotto tale livello, come è il caso dell’Italia (1,24), ogni nuova generazione si riduce marcatamente rispetto alle precedenti. La denatalità tende ad autoalimentarsi in un continuo processo di avvitamento verso il basso: a parità di figli per donna, diventa più basso il numero di nascite che via via si ottiene per la riduzione continua delle potenziali madri. Risultato: più si aspetta a curare il paziente e più diventa difficile uscire da tale spirale negativa e invertire la tendenza>.

Peraltro, sul piano statistico, abbiamo precise caratteristiche negative.

<Sì, non solo siamo quelli messi peggio in Europa come tasso di fecondità, il segnale più sensibile della fiducia che un Paese ha nel proprio futuro, ma siamo anche quello che da più lungo tempo ha simili livelli: al dato quantitativo si aggiunge la sua replica continua. L’altra questione è che dopo aver eroso la fascia più bassa, la denatalità sta intaccando pesantemente anche le età centrali lavorative. Le economie mature guardano al rapporto tra anziani e popolazione in età attiva, un parametro sensibile, quello che in linguaggio tecnico si chiama “tasso di dipendenza degli anziani”: il valore europeo è di circa il 31% con previsione di superare il 50% prima del 2050. In sostanza: a inizio secolo il rapporto fra persone in età di lavoro per ogni over 65 era di 4 a 1, ora è sceso a 2 a 1. L’Italia è tra gli Stati europei che più contribuiscono a far crescere la presenza di anziani e tra quelli che più indeboliscono la presenza delle nuove generazioni e, in prospettiva, della forza lavoro. Il dato italiano del tasso di dipendenza degli anziani è a quota 35%, il più alto dell’Ue. Il nostro rischio, secondo le stime dell’Ocse, è quello di trovarci a metà di questo secolo con un rapporto di 1 a 1 tra pensionati e lavoratori. La strutturale denatalità, riducendo la nuove generazioni, contrae le coorti che via via entrano nel mercato del lavoro: attualmente i trentenni italiani sono circa un terzo in meno dei cinquantenni. Vuol dire che si indebolisce in modo progressivo la componente attiva che produce ricchezza, finanzia e fa funzionare il sistema sociale. Per un verso, tale tendenza riduce la capacità di produrre ricchezza e benessere indebolendo la forza lavoro potenziale. Per un altro, in una realtà dall’alto debito pubblico, le minori risorse vengono sempre più assorbite dalla crescente popolazione anziana e quindi diminuiscono i margini per gli investimenti verso le generazioni più giovani (formazione, politiche attive, ricerca e sviluppo). Se questo è lo scenario, sempre più giovani sceglieranno di evadere da questo cortocircuito cercando migliori opportunità all’estero. La prospettiva è il declino dell’Italia>.

Un inverno demografico che viene da lontano.

<Il punto debole è proprio questo. La questione che adesso si pone non è far tornare a crescere la popolazione, destinata in ogni caso a diminuire, ma quanto lasciare aumentare gli squilibri interni tra generazioni. L’Italia è scesa sotto la media di 2 figli nel 1977. Dal 1984 è sotto 1,5 e non è più tornata sopra questo valore. Ripeto: siamo fra i Paesi al mondo con più persistente bassa fecondità, da tempo ormai con una media di figli più vicina a 1 (che corrisponde al dimezzamento tendenziale da una generazione alla successiva) che a 2 (standard di equilibrio fra generazioni). L’Italia è stato il primo Paese al mondo in cui i residenti under 15 sono scesi sotto gli over 65. Quest’ultima fascia di età adesso ha raggiunto l’entità degli under 25 ed entro il 2040, anzi forse già entro il 2035, supererà anche gli under 35. La riduzione della componente di cittadinanza italiana in età lavorativa è stata compensata in questi anni dal rilevante contributo dell’immigrazione, che però nel prossimo futuro non sarà più sufficiente a contrastare gli attuali deficit. La gestione dell’immigrazione è parte di un rafforzamento strutturale della società, ma questo versante resta parziale se non migliorano contestualmente anche le prospettive di occupazione giovanile e femminile in generale. Ciò che oggi non funziona nella transizione scuola-lavoro penalizza ancora di più i giovani stranieri. In maniera analoga le carenze degli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia vincolano al ribasso la partecipazione femminile al mercato del lavoro sia delle donne autoctone sia delle immigrate. E’ necessario alimentare una crescita che allarghi la torta e apra nuove opportunità per tutti. In caso contrario si scivola verso un declino fatto di poco lavoro e di basa qualità: più che ridurre la domanda di manodopera esterna porterà ad accentuare la fuga dei giovani italiani all’estero>.

La demografia è entrata nell’ambito della sicurezza di una società e infatti lei ne ha parlato sull’ultimo numero di <Aspenia>, rivista di geopolitica.

<In effetti le implicazioni sono tante. Ho osservato, in quel testo, che se una comunità considera la nascita di un figlio non solo come costo e complicazione individuale a carico dei genitori, ma come valore collettivo che rende più solido il futuro comune, tenderà a investire su strumenti che mettono chi desidera un bambino nella condizione non solo di averlo ma di accedere anche alle migliori opportunità di crescita. Allo stato vedo tre ostacoli principali. Il primo riguarda il tempo di arrivo del primo figlio e va ricondotto alle difficoltà dei giovani nella transizione scuola-lavoro e nel conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine. Un punto critico e infatti abbiamo il più alto numero di Neet, giovani che né studiano né lavorano. La condizione giovanile, come abbiamo documentato con il Rapporto dell’Istituto Toniolo, è decisamente peggiorata su tutte le dimensioni del benessere sociale e psicologico: nel 2022 s’è avuto un autentico crollo post pandemia. Una condizione di preoccupante fragilità che ha spento l’energia interna dei giovani. La natalità non può aumentare se non migliora la transizione scuola-lavoro e se non aumentano le opportunità di valorizzazione del capitale umano dei giovani nel mondo del lavoro. Del resto, i ragazzi che conquistano in tempi adeguati l’autonomia e formano una propria famiglia tendono anche ad essere più impegnati e responsabilizzati verso un ruolo sociale attivo. Il secondo ostacolo si riferisce al percorso successivo al primo figlio a anche qui i limiti sono evidenti. Già con il primogenito ci si trova in difficoltà nell’armonizzare i carici interni alla famiglia con il lavoro esterno e quindi difficilmente si rilancia con la nascita di altri figli. Ecco perché è necessario intervenire sugli strumenti di conciliazione e a favore della condivisione tra madri e padri. I servizi per l’infanzia sono carenti, la qualità a volte inadeguata. Siamo ancora lontani dai parametri europei quanto a congedo obbligatorio di paternità e alla convergenza fra congedi delle madri e dei padri e al part time scelto e reversibile. Il terzo inciampo è il rischio di povertà di chi sceglie di avere un figlio, perché notiamo un’accentuata e consolidata relazione tra età della persona di riferimento della famiglia e la povertà assoluta. Nel decennio precedente la pandemia il rischio di povertà è stato quasi il doppio tra gli under 35 rispetto agli over 65: la fascia più esposta alla vulnerabilità è proprio quella chiamata a mettere le basi di un progetto di vita. C’è poi un ulteriore aspetto: i dati del 2019, peggiorati con il Covid, dicono che la povertà assoluta è oltre il triplo per chi ha 3 bambini rispetto a chi si ferma a 1>.

Tuttavia ci sono Paesi virtuosi.

<In realtà sappiamo da anni ciò che si dovrebbe fare. C’è un gruppo di Stati europei che mantiene la fecondità non troppo sotto i due figli per coppia, ad esempio Francia e Svezia. Hanno welfare differenti, però hanno puntato sulla conciliazione famiglia-lavoro. La Francia ha solide politiche familiari, mentre la Svezia sperimenta di continuo nuove formule. Un altro gruppo, Germania e Paesi dell’Est, è riuscito a riavvicinarsi all’equilibrio generazionale dopo essere sceso su valori molto bassi. La Germania, che stava scivolando a quote peggiori delle nostre e in genere dell’Europa mediterranea, nel decennio scorso ha visto aumentare le nascite combinando politiche familiari con la capacità di attrarre flussi di migranti in età lavorativa a riproduttiva. Nelle realtà più virtuose in Europa la copertura degli asili nido supera il 50% mentre noi siamo appena al 27%. Il caso tedesco ci riguarda da vicino, anche per l’attenzione riservata alle piccole e medie imprese, accompagnate e assistite nel trovare ciascuna la propria soluzione>.

L’assegno unico universale sembra funzionare e in questi giorni il ministro Giorgetti ha lanciato l’idea di utilizzare la leva fiscale, ipotizzando zero tasse per chi ha 2 figli.

<Sicuramente occorre uno choc e l’idea di un forte sostegno economico va nella direzione giusta: coglie un’esigenza reale e in qualche modo rimette le politiche per la famiglia in cima all’agenda del governo. La detassazione, fra le varie iniziative, si traduce in un impatto diretto e immediato. Questo va bene, a mio avviso tuttavia ci sono dei “però”. Mi chiedo: ridurre le tasse è la strada migliore? Sarebbe più efficace rafforzare, investire più fondi nell’assegno unico che, secondo i dati Inps, ha raggiunto, a un anno dalla sua introduzione, 6 milioni di famiglie: in media ogni nucleo ha ricevuto 260 euro, una copertura finora all’88% dei figli. Mettiamoci nei panni di quei giovani in difficoltà a trovare lavoro, o che hanno redditi bassi e discontinui: nei loro confronti la riduzione del peso fiscale ha un impatto relativo. In sostanza la leva fiscale presuppone che i beneficiari siano già nel mondo del lavoro, cosa che non è affatto la norma. Invece l’assegno unico, che già esiste e che riguarda tutti, è un’erogazione diretta che potrebbe aiutare meglio quei giovani ancora privi di una stabilità professionale ad anticipare la scelta di avere un figlio. Occorre incentivare i giovani non solo a fare figli, ma a farli prima dato che siamo la realtà europea più tardiva (32 anni) dell’arrivo del primogenito. E’ chiaro che nessuno ha la bacchetta magica e che anche quando si prende la strada giusta i risultati si vedono nel tempo. Detto questo, occorre fare sistema. La leva economica è necessaria, ma da sola è insufficiente. Perché a tale impulso si agganci un effettivo processo di inversione di tendenza nel medio-lungo periodo per ottenere una solida ripresa delle nascite, bisogna puntare su quello che abbiamo detto e che gli altri Paesi hanno capito meglio e prima di noi: politiche abitative, inserimento nel mondo del lavoro, centri per l’impiego, formazione, percorsi scuola-lavoro, conciliazione lavoro-famiglia. Serve, in prima battuta, un solido miglioramento dei servizi per l’infanzia e degli strumenti di conciliazione, con copertura diffusa sul territorio ed effettiva accessibilità: l’Italia è finora intervenuta in modo debole e con ritardi su entrambi i fronti, mentre con politiche adeguate il numero medio di figli in Germania è salito da 1,33 nel 2006 a 1,6 nel 2016 e in Svezia da circa 1,5 nel 1999 a oltre 1,9 nel 2009. Difficile riuscirci, ma non impossibile>.

Giorgia Meloni ha detto che il problema della manodopera che non si trova si risolve con il lavoro femminile, non con gli immigrati.

<Il tasso di occupazione femminile è leggermente migliorato, ma è ancora molto al di sotto degli standard europei. Non dobbiamo, in ogni caso, mettere in competizione i vari ambiti: lavoro delle donne, dei giovani e il contributo degli immigrati, presi da soli, non bastano. Servono tutte e tre le cose insieme. Dobbiamo pensare a una visione sistemica che utilizzi tutte le leve e non in contrapposizione l’una con l’altra. Aumento delle nascite, dell’occupazione giovanile e della partecipazione femminile, una immigrazione con possibilità di adeguata integrazione convergono verso uno sviluppo inclusivo e sostenibile. L’esperienza europea suggerisce che l’attenzione deve essere continua e che le misure vanno adattate alle trasformazioni del contesto e delle aspettative, ricordando che l’andamento delle nascite va considerato come l’indicatore più informativo sulle prospettive della società>.