01/06/2017 | |
MANAGER ITALIA |
Lo scorso 17 maggio, come ogni anno, è stato presentato il Rapporto annuale dell’Istat che scatta una fotografia socio-economica del Paese e cerca di individuare le prospettive future. Ma quest’anno tutti i dati emersi e tutte le mappature disegnate nelle canoniche 266 pagine della ricerca sembra significhino solo “spariscono la classe operaia e la piccola borghesia”. L’attenzione, dei media in particolare, si è concentrata in larga parte su questo assunto, che come tutti i dati invece va analizzato, sviscerato, contestualizzato. Abbiamo cercato di farlo con il sociologo Alessandro Rosina (direttore del Dipartimento di Scienze statistiche, Università Cattolica di Milano), che ci ha spiegato quanto questa “rivelazione” non sia in realtà un dato allarmante, anzi… le condizioni e il contesto sono cambiati e dunque è normale che muti anche la società che gli gira attorno. Il vero dramma, casomai, è ciò che di nuovo stenta a emergere, piuttosto che ciò che non c’è più o rischia di sparire.
Nuovi gruppi sociali
Il venticinquesimo Rapporto annuale dell’Istat delinea la condizione delle famiglie, dell’occupazione, dei consumi, della cultura e dell’impiego del tempo libero, dell’invecchiamento e della natalità della popolazione classificando quest’ultima in nove gruppi sociali. In questo senso l’assenza della classe operaia e della piccola borghesia va intesa come perdita del senso di appartenenza a queste classi sociali che invece si ritrovano nei gruppi dei giovani blue-collar e di famiglie a basso reddito di soli italiani o con stranieri.
In breve, due dei nove gruppi possono definirsi a reddito medio (giovani blue-collar e famiglie degli operai in pensione), quattro a basso reddito (famiglie a basso reddito con stranieri, famiglie a basso reddito di soli italiani, famiglie tradizionali della provincia e anziane sole e giovani disoccupati) e tre più benestanti (famiglie di impiegati, pensionati d’argento e classe dirigente).
Il rapporto ci prospetta uno scenario apparentemente nuovo, ma in realtà più che di grossi cambiamenti possiamo parlare di una società bloccata e in cui aumentano le disuguaglianze. È cosi?
«Le condizioni che consentivano la crescita in passato non ci sono più o sono sempre più deboli. Ma la questione vera non è tanto quello che non c’è più o rischia di sparire – come lavoro o come classi sociali – ma ciò che di nuovo stenta a emergere. La crisi ha spinto il paese ancor più in difesa rispetto ai grandi cambiamenti sociali ed economici di questo secolo. Se non torniamo in attacco – rimettendo in gioco le energie migliori in un sistema efficiente con chiara visione di quello che vogliamo diventare – rischiamo di scivolare irreversibilmente in un percorso di basso sviluppo, bassa mobilità sociale e forti diseguaglianze generazionali, sociali e territoriali. Già prima della crisi si parlava di decennio perduto in riferimento alla prima decade di questo secolo e di “lost generation”. Ora si inizia a parlare di ventennio perduto. Se continua così parleremo tra qualche anno di paese perduto».
Il rapporto definisce nove gruppi, nove nuove classi sociali: ce le contestualizza ed è vero che spariscono la classe operaia e la piccola borghesia?
«Questa parte del rapporto ha spiazzato molti. L’Istat usualmente fornisce dati ufficiali sul Paese, non interpretazioni della realtà in cambiamento. Le nuove categorie sociali proposte non hanno una base scientifica consolidata e condizionano la lettura di tutto il rapporto. Hanno quindi suscitato una forte perplessità tra studiosi e addetti ai lavori. Non è, in ogni caso, una sorpresa il fatto che categorie nate nell’Ottocento, caratterizzanti il modello sociale e di sviluppo del Novecento, funzionino sempre meno nel XXI secolo.
L’evidenza più forte, al di là delle categorie, è che il lavoro non solo manca, ma che, anche quando c’è, spesso non basta per offrire condizioni adeguate di vita. Pensioni generose e professioni che, in continuità con il passato, garantiscono ancora posizioni qualificate e buon reddito, fanno la differenza tra chi oggi mantiene livelli di vita soddisfacenti e chi invece scivola verso il basso. Le nuove generazioni, anziché far parte di classi emergenti in grado di produrre nuovo benessere, si trovano a dipendere a lungo dai genitori, ad andarsene all’estero, o a scivolare ai margini».
Quali professioni stanno scomparendo in Italia?
«Ciò che risulta superato anche negli altri paesi avanzati. Ciò che scompare è, a dire il vero, la parte meno interessante, anche se suscita più attenzione in un Paese bloccato sulle posizioni passate. Ciò che invece fa la differenza con le economie più sviluppate è il nuovo lavoro che da noi si fa fatica a creare, soprattutto nei settori più dinamici e competitivi. Ad esempio si riducono gli artigiani, ma quanto stiamo promuovendo la crescita dei “makers”? Il nostro basso investimento in ricerca e sviluppo e la nostra bassa produzione e valorizzazione del capitale umano ci stanno condannando a un percorso di bassa crescita. Manca di fatto il lavoro che i giovani laureati trovano quando vanno all’estero».
Come i cambiamenti del mondo del lavoro, anche in positivo grazie a innovazione e tecnologie, stanno influenzando la società tutta?
«Possiamo sintetizzare le grandi trasformazioni che stanno cambiando l’economia e la società di tutto il mondo, con impatto di rilievo per il nostro Paese, con tre grandi “I”: Innovazione tecnologica, Invecchiamento della popolazione, Immigrazione. Come tutti i grandi cambiamenti, queste trasformazioni portano con sé sia nuovi rischi sia potenziali opportunità. L’Italia continua a essere più impegnata a cercare di difendersi dai rischi che a mettersi nelle condizioni di promuovere le opportunità. Attualmente l’impatto maggiore lo si riscontra su come e quanto l’evoluzione del mercato del lavoro va a erodere vecchie sicurezze, riducendo vecchi posti di lavoro e creando competizione al ribasso. Al contrario, segnali positivi si intravedono nelle aziende che combinano investimento sulla digitalizzazione e sulle risorse umane, con attenzione all’apertura al mercato internazionale».
E come, invece, la presenza di stranieri e un aumento dell’aspettativa di vita stanno influenzando la società?
«Queste sono le altre due “I”, quella appunto dell’Immigrazione e dell’Invecchiamento della popolazione. L’integrazione tra diversità e potenzialità della lunga vita attiva potrebbero essere aspetti positivi per la società e il mondo del lavoro. Anche qui invece prevale l’atteggiamento di chiusura e di problematizzazione. Non si tratta di sfide facili, ma se non governiamo questi cambiamenti e non ne valorizziamo gli aspetti positivi rischiamo di combinare bassa crescita con competizione al ribasso tra lavoratori autoctoni e immigrati e tra giovani e maturi. Un elemento chiave per tutte queste sfide è quello della formazione: vale per il rafforzamento delle competenze digitali e avanzate, per le competenze multiculturali e i processi di integrazione, per l’aggiornamento continuo in tutte le fasi della vita. Tutti punti su cui stiamo investendo meno rispetto agli altri paesi avanzati!».
Le donne lavoratrici giocano un ruolo sempre più importante: in 4 famiglie su 10 sono i principali percettori di reddito (anche se in media il tasso di occupazione femminile resta più basso di quello maschile): che significa?
«Nei momenti di difficoltà, non solo per carenza di risposte pubbliche ma anche per un tratto antropologico, le famiglie italiane si rinsaldano e cercano di far quadrare, almeno in parte, i conti. Giovani e donne, tradizionalmente a carico del reddito del maschio adulto, possono allora diventare la risorsa principale dell’aggregato domestico. I dati dell’Istat ci dicono, infatti, che in quasi un milione di famiglie italiane l’unica entrata da lavoro o quella principale è femminile. Le donne si adattano di più e sono più caparbie a cercare lavoro quando il proprio nucleo è in condizione di difficoltà. Più in generale, in condizione di crisi occupazionale, chi ha un lavoro diventa il perno attorno a cui si riconfigura l’aggregato domestico».
Infine, secondo i dati, quasi il 70% degli under 35 vive ancora con i genitori… è effettivamente così? Dove si concentra questa percentuale?
«In molti altri paesi europei oltre la metà dei giovani lascia la casa dei genitori prima dei 25 anni, mentre in Italia è diventata la norma rimanere nella famiglia di origine fino ai 30 e oltre. I dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo evidenziano, però, come desideri, aspettative e progettualità tendano a essere alti e ambiziosi in partenza, ma vengano poi visti al ribasso: il 54,7% dei giovani ritiene che l’età più adatta per uscire dalla casa dei genitori sia sotto i 25 anni. Per il 93% dovrebbe comunque essere inferiore ai 30 anni. Quando si chiede però “realisticamente” quando si pensa di uscire, solo il 41,9% indica un’età inferiore ai 30 anni.
Arrivare ai 30 vivendo ancora con i genitori è quindi una condizione comune in Italia, data per scontata e accettata, ma più subìta che auspicata. Risulta un compromesso su cui pesano le difficoltà oggettive, ma è favorita anche da fattori culturali: i giovani italiani sono considerati più figli da proteggere che risorsa da immettere presto e bene nei processi produttivi del Paese».