11/09/2018 | |
SECONDO WELFARE |
La Legge di stabilità 2018 ha avuto il merito di estendere il congedo di paternità obbligatorio remunerato al 100% da 2 a 4 giorni. Tuttavia, in assenza di interventi normativi, tale sperimentazione andrà a concludersi alla fine dell’anno. Per evitare che questo avvenga nei giorni scorsi è stata lanciata una petizione online promossa e sottoscritta da alcuni docenti e professionisti che da anni si occupano a vario titolo di questa questione – tra i primi firmatari ci sono Titti Di Salvo (Presidente Libertà e Diritti), Emmanuele Pavolini (Università di Macerata), Alessandro Rosina (Università Cattolica di Milano) e Riccarda Zezza (Presidente “Piano C”) – che chiedono al Presidente del Consiglio, ai Presidenti di Camera e Senato e ai Parlamentari di attivarsi affinché il congedo di paternità obbligatorio sia reso strutturale e venga aumentato a 10 giorni, così come già previsto in altri Paesi europei.
Si tratta di una richiesta che il nostro Laboratorio condivide totalmente.
A nostro avviso il tema del congedo di paternità è infatti un punto nodale all’interno del dibattito sulla necessità di superare l’approccio al tema della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro come una mera questione di genere che riguarda esclusivamente le donne. In tal senso la maggior parte delle volte le riflessioni si riducono all’erogazione di (talvolta carenti) servizi (per figli e/o genitori anziani) o a soluzioni che agevolino le donne nel ruolo di cura che tradizionalmente viene loro attribuito, come ad esempio il part-time (scelta spesso involontaria e che porta anche a inevitabili penalizzazioni sul fronte retributivo e della carriera).
Anche per queste ragioni, secondo il rapporto annuale Istat 2018, lo scorso anno l’occupazione femminile in italia ha raggiunto quasi il 49%. Nonostante l’aumento rispetto all’anno precedente, questo dato posiziona il nostro Paese al penultimo posto (prima della Grecia) nella classifica europea sulla quota delle donne che lavorano, circa 13,5 punti in meno rispetto alla media europea. Sul fronte della natalità, per il terzo anno consecutivo i nati in Italia sono stati meno di mezzo milione. A dirlo è il Bilancio Demografico dell’Istat sull’anno 2017, che rivela come gli iscritti all’anagrafe lo scorso anno siano stati appena 458.151 (in calo di 15 mila unità rispetto al 2016): il minimo storico dall’Unità d’Italia. La precarietà lavorativa, la diminuzione del reddito e, in generale, l’incertezza sul futuro, hanno avuto un peso notevole in tal senso, specialmente tra le coppie più giovani, anche a causa della generale debolezza delle politiche familiari del nostro Paese.
Come osservavamo alcuni mesi fa commentando le iniziative a sostegno della famiglia previste dalla Legge di Stabilità 2018, negli ultimi anni in Italia sono state introdotte diverse misure a supporto dei nuclei familiari con figli (come Bonus mamme domani, Voucher baby-sitter, Buono asilo nidi e vari assegni di maternità, sia statali che comunali). Eppure, nonostante tutti i dati dimostrino come il primo problema del nostro Paese sia l’invecchiamento della popolazione e la mancanza di ricambio generazionale necessario ad invertire il trend demografico, tali iniziative hanno mantenuto un carattere una tantum. La maggior parte delle misure è stata confermata di anno in anno – spesso prevedendo anche modifiche sugli importi e sui criteri di accesso – e i ritardi sistematici dei decreti attuativi e delle circolari ministeriali legate ai provvedimenti pro-famiglia approvati dal Parlamento non hanno certo aiutato.
La carenza di misure pubbliche a sostegno della famiglia è certamente una delle ragioni che aggrava le difficoltà in termini di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nel nostro Paese, ma occorre ricordare anche il peso di un atteggiamento culturale che dal livello istituzionale, passando per le aziende (spesso caratterizzate da organizzazioni rigide e standardizzate) fino alle famiglie, vede la cura dei figli come prerogativa materna. Eppure un riequilibrio dei compiti tra entrambi i genitori potrebbe favorire lo sviluppo di migliori e più adeguate misure di conciliazione vita-lavoro, specialmente per le donne. In tal senso è necessario che vengano messi in campo cambiamenti strutturali e culturali che sovvertano la teoria della conciliazione, a partire dalle iniziative del nostro sistema di welfare familistico che vede una forte difformità negli strumenti offerti a padri e madri per conciliare vita lavorativa e vita familiare.
Il valore del congedo di paternità obbligatorio sta proprio nel voler favorire la conciliabilità tra il ruolo di genitore e quello di lavoratore, garantendo a entrambi i genitori la possibilità di trascorrere più tempo con i propri figli, agevolando la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e incoraggiando un maggiore coinvolgimento dei padri nella cura dei figli. Ad oggi il congedo di paternità obbligatorio, di cui in Italia usufruisce circa il 30% dei padri lavoratori, come riporta il Rapporto sul neo-welfare per la famiglia 2018 di Assimoco, prevede un numero di giornate che resta simbolico in termini di impatto, ma che ha un enorme valore culturale.
Tuttavia, come detto, se non sarà confermata la misura andrà ad esaurirsi alla fine del 2018. In tal senso la speranza è che il “Governo del cambiamento”, sostenuto da due partiti che in campagna elettorale non hanno fatto mistero della propria volontà di sostenere maggiormente le famiglie italiane, ne colga l’importanza e si attivi per evitare che quanto fatto di buono finora vada perso. Auspicando anche che la misura possa essere non solo confermata ma estesa a 10 giornate, aggiungendo così al valore culturale anche la possibilità di un impatto sempre più significativo.