«Oggi dobbiamo decidere come sarà l’Italia del futuro»

16/09/2019
IL GIORNALE
«Oggi dobbiamo decidere come sarà l’Italia del futuro» IL GIORNALE

«Sono gli italiani di oggi a decidere quello che sarà l’Italia del futuro». Alessandro Rosina, padovano, cattedra alla Cattolica di Milano, è uno dei più conosciuti demografi italiani. «Sono partito da studi economici e sociologici, poi mi sono spostato sulla demografia: i cambiamenti principali di questi anni riguardano le trasformazioni familiari, il rapporto tra generazioni, la struttura e il movimento della popolazione. E rispetto a un tempo i cambiamenti di oggi hanno un impatto molto maggiore sul domani e dopodomani».
In che senso, scusi? È sempre successo che la situazione del presente influenzi il futuro. Perché l’impatto oggi dovrebbe essere maggiore?
«Tanto per cominciare viviamo più a lungo: se io lavoro e metto qualche cosa da parte compio delle scelte previdenziali che sono destinate a produrre i loro effetti su un arco di tempo maggiore. E parlo di scelte individuali e collettive. Poi pensi alla tecnologia, in grado di cambiare così profondamente, nel bene e nel male, le condizioni di vita delle persone. Il ritmo dell’innovazione ha anche conseguenze sul piano della formazione e delle competenze. Quello che insegno oggi alle giovani generazioni influenzerà profondamente la loro capacità di stare sul mercato del lavoro per molti decenni a venire».
L’Italia del 2050 come sarà? In cosa sarà diversa da quella di oggi?
«Iniziamo a vederlo già ora: il calo delle nascite ha ridotto le generazioni più giovani, la longevità favorisce l’aumento della popolazione anziana. Saremo un paese con una popolazione sempre più matura e, progressivamente, con sempre meno persone nelle età centrali, quelle lavorative. Secondo lo scenario mediano dell’Istat ci troveremo con 6 milioni di ultra 65enni in più e altrettanti in meno nella fascia tra i 30 e i 64 anni».
E il problema maggiore quale sarà?
«Abbiamo di fronte due scenari. In quello più ottimistico l’Italia prende una via positiva di sviluppo, nel qual caso dovremo alimentare questa crescita con tutta la forza lavoro qualificata disponibile, aggiungendo anche il contributo di una immigrazione adeguatamente regolata. In quello negativo, l’Italia semplicemente si porterà dietro le sue difficoltà a preparare adeguatamente le nuove generazioni per il mondo del lavoro che cambia, e a mettere in atto politiche che favoriscono occupazione femminile e conciliazione con la famiglia. Se questo accadrà sarà sempre più difficile crescere, la spesa sociale diventerà sempre meno sostenibile e il debito pubblico sempre più gravoso».
In molti citano con preoccupazione l’evoluzione del cosiddetto tasso di dipendenza degli anziani…
«È l’indicatore che meglio esprime gli squilibri demografici di un paese: mette in rapporto il numero di persone che hanno più di 65 anni e il numero di quelle in età lavorativa, convenzionalmente tra i 15 e i 64 anni. L’aumento di questo indicatore ci dice che il peso si sposta dalla popolazione che produce ricchezza a quella che assorbe ricchezza per pensioni e spesa sanitaria. Oggi il valore è intorno a 36, si passerà a un valore di 57 se ci andrà bene, 70 se ci andrà male, con una stima media di 63. In pratica ci saranno più di 6 anziani per ogni 10 persone in età lavorativa. Ma se poi si guarda a quelle che effettivamente lavoreranno il rapporto rischia di essere uno a uno: un pensionato per ogni lavoratore».
E quindi?
«E quindi bisogna intervenire con politiche adeguate che ridiano forza alle nuove generazioni, con l’aumento della loro partecipazione al mercato del lavoro. E poi bisogna darsi da fare per promuovere una lunga vita attiva. Altrimenti lo squilibrio è destinato a segnare al ribasso il percorso di sviluppo del paese».
Tutto o quasi nasce dalla denatalità. Ma in concreto perché gli italiani non vogliono più fare figli?
«Le giovani coppie italiane vogliono fare figli come quelle francesi o dei Paesi scandinavi. Il problema, però, è riuscirci. E nel nostro caso la fecondità effettivamente realizzata è molto più bassa. Due sono i nodi principali. Il primo è che i giovani italiani hanno difficoltà a conquistare una autonomia dalla famiglia di origine, a inserirsi in modo solido nel mondo del lavoro e a mettere le basi di una propria famiglia. Siamo uno dei paesi in Europa con più bassa occupazione giovanile e di conseguenza con più bassa percentuale di under 35 in coppia con figli. Il secondo nodo è quello che si sperimenta dopo l’arrivo del primo figlio, quando ci si scontra con la carenza di misure che consentono di conciliare lavoro e famiglia. Parlo di servizi per l’infanzia di qualità e part-time reversibile. La conseguenza è che, rispetto agli altri paesi sviluppati e a parità di lavoro, le donne italiane hanno meno figli e a parità di figli hanno meno lavoro. C’è anche una questione di approccio: nel nostro paese le misure messe in campo sono più frammentate ed estemporanee. La scelta di avere un figlio ha bisogno invece di ridurre l’incertezza verso il futuro attraverso un pacchetto di politiche solido, continuo e rafforzato nel tempo».

 

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