Nascite in cale. Europei addio.

31/05/2024
Nascite in cale. Europei addio. ECO DI BERGAMO - 31 Maggio 2024

Benvenuti nel regno della longevità: ci sono 3 Paesi europei (Italia, Francia, Spagna) fra i 10 con il maggior numero di persone centenarie. “Alla base delle differenti dinamiche della crescita della popolazione – riassume Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano – sta la “transizione demografica”: un passaggio unico nella storia dell’umanità che porta via via i Paesi del mondo ad abbandonare gli alti livelli di natalità e mortalità tipici delle società pre-industriali per convergere su valori molto più bassi. La “transizione demografica” ha come punto d’arrivo una piramide delle età con base più ristretta (meno giovani) e vertice espanso verso l’alto (più anziani)”.

Professore, per oltre mezzo secolo la popolazione dei 27 membri Ue è cresciuta da 354 milioni nel 1960 a 447 milioni nel 2022, mentre – secondo Eurostat – il numero di abitanti, dopo un picco nel 2026, è destinato a calare progressivamente.

“Il peso demografico relativo del mondo occidentale diminuisce sempre più nella seconda metà del ‘900 perché nel frattempo la transizione demografica decolla anche nel resto del pianeta. Quando negli anni ’70 numerosi Paesi occidentali vedono il tasso di fecondità scendere sotto il valore di 2 (soglia che indica l’equilibrio nel rapporto tra generazioni), il dato medio globale è ancora su standard più che doppi. Viceversa, nel quadrante occidentale, la fecondità scesa su livelli insufficienti a garantire il ricambio generazionale ha due effetti: riduce la popolazione e restringe la piramide demografica. La discesa in Europa avviene tra fine anni ’60 e inizio ’80. L’attuale dato dell’Ue è attorno a 1,5”.

Un autentico declino demografico dell’Europa.

“Nel ’50 figuravano 4 Paesi europei fra i 10 più popolati del mondo (Russia, Germania, Gran Bretagna, Italia) con Francia all’11° posto. Cina e India occupavano i primi 2 posti. La Nigeria, in testa all’Africa, era al 15° posto. A inizio Duemila nessun membro Ue è nella top ten: la Germania è dodicesima, la Nigeria salita al decimo piazzamento. La situazione attuale vede la Germania ulteriormente scesa al 19° posto, seguita da Francia e Italia. La Russia è al 9°, la Gran Bretagna al 21°. Nello scenario 2050 solo la Germania, fra i partner Ue, è prevista nelle prime 25 posizioni. Attualmente ci sono 3 aree rilevanti, con una popolazione intorno a 1,4 miliardi: Cina, India, Africa. L’Europa, nel suo complesso, è circa la metà: il suo peso nel mondo è sceso del 10% e potrebbe risultare poco sopra il 5% a fine secolo. Sarà europeo poco più di 1 abitante del pianeta su 20 contro oltre 1 su 5 nei primi decenni del secondo dopoguerra. L’incidenza Ue a 27 sulla popolazione globale è dimezzata dal ’60 ad oggi, dal 12% al 6%”.

Gli squilibri demografici hanno un costo.

“Il “dividendo demografico” indica come la demografia, a parità di altri fattori, produca i suoi maggiori effetti positivi sull’economia. Questo avviene quando la quota di popolazione in età attiva (20-64 anni) prevale su quella “dipendente”, ovvero non in età produttiva (troppo giovane o anziana). In Europa la fascia 20-64 anni s’è consolidata fino al picco del 62% intorno al 2010. Ora, però, si sta riducendo per la combinazione tra uscita verso l’età anziana delle generazioni nate fino all’epoca del “baby boom” (anni ’60 e primi ’70) e l’entrata nella vita adulta di quelle successive. A inizio 2021 gli over 65 rappresentavano il 20,8% degli abitanti Ue: una crescita di 3 punti percentuali rispetto al 2011”.

Con un impatto problematico sui sistemi di welfare.

“Aumenta la fascia di popolazione in condizione di fragilità, considerando fra l’altro che nell’Europa a 27 quasi il 20% degli uomini e il 40% delle donne in età anziana vivono da soli. Da qui la necessità di un rafforzamento del welfare e la previsione di un aumento della spesa sanitaria e pensionistica. Nel 2019 il costo totale dell’invecchiamento demografico rappresentava il 24% del Pil ed entro il 2070 crescerà di 2 punti. Se il rapporto tra anziani e coloro che sono in età lavorativa aumenta, il peso nella bilancia demografica si trasferisce dal piatto dell’età in cui maggiormente si contribuisce a far crescere l’economia e far funzionare il welfare a quello dell’età in cui si assorbono maggiormente le risorse per la spesa pubblica. Ci sono poco più di 3 europei in età lavorativa per ogni europeo over 65, un indice di dipendenza vicino al 33% e il dato peggiore (circa il 40%) è quello dell’Italia”.

Il problema numero uno resta il crollo delle nascite.

“Il dato Ue, come ho detto, è di 1,5 figli per donna. Nessun Stato membro raggiunge la soglia che garantisce l’equilibrio tra generazioni. Nel 2010 si avvicinavano a tale livello (attorno a 2 figli per donna) Francia, Svezia, Irlanda. Nel 2019, prima del Covid e della guerra in Ucraina, tali Paesi erano tutti scesi sotto. E’ un quadro molto articolato e faccio l’esempio dell’Europa orientale che, oltre alla bassa natalità, presenta dinamiche migratorie più sfavorevoli: meno entrate dall’estero e più uscite verso i partner Ue, specie dalle aree rurali. Nei prossimi anni a diminuire saranno Bulgaria, Grecia, Croazia, Italia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia e Romania. In crescita, invece, Danimarca, Irlanda, Cipro, Lussemburgo, Malta e Svezia”.

Però ci sono un paio di esempi virtuosi.

“La Francia, più di altri, ha favorito la natalità combinando sostegno economico, anche con il sistema fiscale del quoziente familiare, con una solida presenza di servizi per l’infanzia e attraverso gli strumenti di conciliazione vita-lavoro. La Svezia ha sostenuto l’occupazione femminile, favorendo le condizioni per armonizzare la scelta di avere figli con quella di lavorare. Il caso più interessante, e che ci riguarda da vicino, è quello della Germania riuscita a passare da valori simili all’Italia a valori sopra la media europea. Il percorso della Germania degli ultimi 15 anni dimostra che gli effetti migliori sull’inversione di tendenza delle nascite si ottengono con solide politiche familiari e con la capacità di attrarre e gestire flussi migratori in età lavorativa e riproduttiva. Dal 2008 al 2016 il tasso di fecondità tedesco è salito da 1,38 a 1,60”.

In questo contesto l’Italia vive una situazione fra le peggiori.

“Sì, perché da tempo persiste una fecondità inferiore a 1,5 e inoltre siamo il primo Paese dove gli under 15 sono stati superati dagli over 65, fascia che ora ha sorpassato pure gli under 25. Italia, Grecia e Spagna rappresentano l’area che in Europa e nel mondo, assieme a Corea del Sud e Giappone, rischia di andare incontro ai maggiori squilibri nel rapporto tra generazioni. La sfida di assicurare una buona qualità della vita agli anziani può essere colta se le popolazione in età attiva rimane solida, perché è quella da cui dipende la capacità di generare benessere e rendere sostenibile il sistema sociale, finanziando e facendo funzionare il welfare. L’Italia è più fragile proprio su questo punto e così le nuove generazioni subiscono uno svantaggio competitivo rispetto ai coetanei dei Paesi con cui si confrontano per i maggiori squilibri che li coinvolgono, sia nella relazione tra vecchie e nuove generazioni sia nel rapporto debito pubblico-Pil”.

Numeri negativi, ma la qualità degli interventi può correggere il deficit.

“Si deve passare dalla quantità della crescita che ha dominato il ‘900, non solo dal punto di vista demografico, alla crescita della qualità. Diventa trainante più la qualità del capitale umano e la sua valorizzazione in tutte le fasi della vita che il peso in sé della fascia attiva. Tuttavia, ancora per larga parte del secolo la quantità farà la differenza, ancor più che in passato perché i ritmi di crescita tra aree del mondo e tra generazioni non sono mai stati così divergenti. Il limite dell’Europa è che, nel pieno di questa fase di transizione mondiale, il suo peso è quello che si contrae di più. Il vantaggio è l’essere costretta da subito ad agire sulla leva qualitativa (formazione continua, uso delle nuove tecnologie, capacità di mettere in relazione culture diverse, sviluppo sostenibile): è ciò che nel lungo periodo determina il vero salto di qualità”.