Ampio servizio del quotidiano La Sicilia (p.40) dedicato al Libro di Alessandro Rosina sui Neet. Qui sotto l’intervista a partire dalla quale è stato costruito l’articolo.
I Neet in Italia rappresentano una percentuale altissima rispetto agli altri Paesi europei, un dato allarmante a cui non c’è rimedio?
L’Italia, in termini assoluti, è attualmente la principale fabbrica di Neet (giovani che non studiano e non lavorano) in Europa. Sono oltre due milioni e mezzo, tanti come gli abitanti una regione di media grandezza in Italia. Un dato allarmante. Se non si agisce con politiche efficaci rischia di diventare un problema sociale drammatico nei prossimi anni. E’ a mio avviso la principale sfida che deve affrontare il Paese se vuol davvero tornare a crescere.
Si può veramente parlare di una generazione perduta e infelice? Quali sono le conseguenze che una generazione di under 30 senza lavoro comporta sul piano sociale ed economico? E come reagiscono i giovani di oggi? Quali sono le ripercussioni sull’individuo?
Quello della “generazione perduta” non è un destino ineluttabile, è un rischio. I giovani italiani sono i primi a volerlo evitare. Hanno voglia di scommettere su se stessi e di esercitare un protagonismo positivo, ma è vero anche che fanno presto a demotivarsi e a perdersi se non stimolati e incoraggiarti ad essere intraprendenti. I Neet sono la categoria più a rischio di scivolare in una spirale negativa corrosiva, ovvero di precipitare in uno stato di deprivazione non solo economica ed occupazionale, ma che si allarga (orizzontalmente) anche ad altre sfere della vita e scende (verticalmente) in profondità nell’intaccare la capacità di reagire e risollevarsi. Più si rimane in tale condizione più aumenta la frustrazione personale che porta prima a diffidenza verso le istituzioni e a deterioramento del senso di appartenenza sociale, per poi alla fine arrivare a generare insicurezza, disaffezione e perdita di fiducia in se stessi.
Quali sono i dati più allarmanti?
Il fenomeno dei Neet è preoccupante anche nella dimensione quantitativa, avendo raggiunto livelli tali da compromettere, in prospettiva, lo sviluppo futuro dell’economia europea nel suo complesso. E’ quindi guardato con forte preoccupazione dalle istituzioni perché rappresenta un inaccettabile spreco di potenziale umano con conseguenze sul piano sia sociale che economico. Come documentano varie ricerche le ricadute negative sono di vario tipo: minori entrate fiscali, costi maggiori per prestazioni sociali, malessere sociale. All’interno dei Neet la condizione più preoccupante è quella dei circa 750 mila che hanno perso oramai del tutto speranza e motivazioni nel cercare lavoro. Per loro servono politiche specifiche sul territorio.
Quali sono le cause e di chi le colpe di una questa condizione?
Nell’abnorme crescita del numero dei Neet c’è un esteso concorso di colpe che mette assieme le carenze di competenze trasmesse nel sistema formativo, i limiti di valorizzazione del capitale umano dei giovani nel sistema produttivo, l’inadeguatezza delle politiche pubbliche, l’atteggiamento iperprotettivo dei genitori che prolunga l’immaturità dei figli. Ma tutto questo non può essere un alibi per i giovani stessi, che sottovalutano l’importanza di impegnarsi in una solida formazione e di essere già prima dei 20 anni intraprendenti nel progettare il proprio futuro.
Quali potrebbero essere i rimedi da adottare contro la proliferazione dei Neet? La Fuga? O restare in Italia e lottare nonostante un mercato del lavoro che sembra essere saturo? Cosa non funziona nel nostro sistema formativo?
C’è una sola risposta sbagliata, quella di scoraggiarsi e rimanere inattivo sperando che le cose cambino da sole. Le difficoltà ci sono e sono state accentuate dalla crisi, ma chi si muove e cerca di migliorarsi continuamente prima o poi trova la strada giusta. Può essere anche una strada che porta all’estero ma non necessariamente come “fuga”. L’esperienza di studio e di lavoro oltre confine può far maturare, migliorare competenze e fiducia in se stessi per tornare poi con più capacità di individuare e creare opportunità di quando si è partiti. Magari anche creando lavoro con una propria idea imprenditoriale.
Nel suo libro parla di inerzia delle politiche attive? Cosa si sbaglia in Italia? Cosa andrebbe migliorato? Come?
Uno dei motivi per cui ci troviamo con uno spreco così ampio del potenziale produttivo delle nuove generazioni è il nostro basso investimento in politiche attive. Le politiche attive del lavoro mirano ad aumentare e stimolare la capacità della persona di sapersi collocare nel mercato, l’aggiornamento delle conoscenze e competenze lavorative, l’intraprendenza e l’autoimprenditorialità. I mezzi per ottenere tali risultati sono vari, ma l’asse centrale è una solida ed efficace rete di servizi per l’impiego sull’esempio dei paesi europei più avanzati.
La concentrazione di giovani Neet è maggiore al Sud rispetto al Nord, per il divario che da sempre divide il Mezzogiorno dal Settentrione o per altri motivi? Per politiche e un sistema formativo più efficaci?
Il numero di Neet è aumentato negli ultimi anni in tutto il paese, ma rimane più elevato nelle regioni del Sud. Tutti i fattori che alimentano la crescita della disoccupazione giovanile sono del resto più forti nel Mezzogiorno. Il sistema formativo è generalmente più carente nel fornire competenze richieste nel mondo produttivo. Il mercato del lavoro offre meno opportunità. Le politiche pubbliche sono meno incisive ed efficaci. C’è inoltre meno fiducia nelle istituzioni e nelle prospettive di miglioramento del territorio, il che aumenta il rischio di rassegnazione o l’intrappolamento nel lavoro nero.
Perchè in Italia non si crede ai giovani?
C’è una questione culturale che va affrontata e risolta. Nel nostro paese tradizionalmente i giovani sono considerati più figli che cittadini responsabili e attivi. Ad occuparsene sono più i genitori che le politiche pubbliche. Questo fa sì che maggiormente rispetto agli altri paesi i genitori cerchino di aiutare i figli, ma meno che negli altri paesi si investa in misure a favore delle nuove generazioni. Così però non solo i giovani rimangono immaturi più a lungo ma si trasmettono le diseguaglianze sociali dai genitori ai figli. Dobbiamo sviluppare un nuovo atteggiamento culturale che porti dal considerare i giovani un bene privato dei genitori a vedere, invece, le nuove generazioni come un bene pubblico sul quale tutta la società ha convenienza ad investire per migliorare in modo solido il proprio futuro.
Qual è il passaggio che trasforma i giovani da potenziale risorsa per il futuro a costo sociale?
Il passaggio più problematico è quello dalla scuola al lavoro. E’ qui che molti giovani rischiano di perdersi e trasformarsi da potenziale risorsa per la crescita del Paese a costo sociale. In questo passaggio i punti deboli stanno nella scuola che non fornisce una spinta adeguata e mirata verso il mercato del lavoro, nel sistema produttivo che non è in grado di attrarre in modo qualificato nuove risorse e renderle funzionali alla propria crescita, negli strumenti inadeguati di incontro tra domanda e offerta del lavoro che non aiutano chi cerca lavoro a trovare la collocazione giusta. Questo non porta solo a far aumentare la disoccupazione ma anche a una condizione di sottoinquadramento di molti giovani con talento e capacità nel mondo del lavoro.
Cosa non funziona nel sistema produttivo?
La combinazione tra riforme del mercato del lavoro che hanno fatto aumentare l’area grigia anziché ridurre la disoccupazione, da un lato, e carenza di politiche industriali di espansione dei settori più dinamici e competitivi, dall’altro, hanno prodotto una domanda di manodopera al ribasso compromettendo non solo la condizione dei giovani ma anche quantità e qualità del loro contributo nel sistema produttivo. Detto in altre parole, le aziende italiane sono state incentivate a resistere sul mercato riducendo il più possibile il costo del lavoro – con contratti al massimo ribasso – anziché migliorare processi, prodotti e servizi facendo leva sulle specifiche capacità e competenze delle nuove generazioni
In Italia si è cercato di contrastare il fenomeno dei Neet con il Piano Garanzia Giovani. Perché non ha funzionato? Come andrebbe migliorato? I centri per l’impiego che ruolo hanno avuto?
La capacità di fornire una stabile uscita dalla condizione di Neet da parte di Garanzia Giovani risulta tutt’ora modesta. Ad essere stati raggiunti dal Programma sono stati soprattutto i disoccupati con titolo medio alto, mentre fortemente sotto-rappresentati sono gli scoraggiati con titoli bassi. Attualmente, insomma, coloro che ne hanno veramente bisogno sono quelli che meno la usano, e chi meno ne ha bisogno più si iscrive ma risulta poi anche spesso deluso dalle proposte. Non ha aiutato il ritardo dell’effettiva implementazione e la comunicazione poco efficace che ha creato aspettative mal riposte. Garanzia giovani sarà una sfida vinta nella misura in cui riuscirà a potenziare quantitativamente e qualitativamente la rete dei centri per l’impiego che sono l’asse portante di qualsiasi politica attiva di successo. Il timore è che alcune regioni ci riusciranno e molte altre no.
Qual è il consiglio che si sente di dare ai giovani Neet?
Non smettere mai di crederci. Non smettere di progettare positivamente il proprio futuro e non rinunciare a cercare di migliorare la propria condizione. Non mollare la presa sulla ricerca di un lavoro. Informarsi e continuare a formarsi mentre si attende un nuovo impiego. Insomma non fermarsi, ma considerare la ricerca di lavoro come se fosse un lavoro il cui successo dipende dall’impegno che ci si mette e dalla capacità di utilizzare gli strumenti e le occasioni disponibili. La differenza tra chi rimane un Neet e chi alla fine ce la fa è data soprattutto dal fatto che il secondo non ha mai smesso di crederci.
Quale sarebbe il percorso ideale da seguire per risolvere il problema della disoccupazione giovanile?
Un percorso che preveda misure da realizzare sia con orizzonte di breve che di medio periodo: nel primo caso per evitare che gli attuali giovani affacciati al mercato del lavoro rimangano ai margini, nel secondo soprattutto per promuovere condizioni migliori per le generazioni ancora impegnate nel percorso formativo. Tali obiettivi devono essere considerati una priorità nazionale e quindi mobilitare tutte le risorse necessarie per arrivare ad ottenere i risultati stabiliti. I giovani devono essere messi nelle condizioni di essere una ricchezza per l’economia e non un potenziale onere. L’incoraggiamento a investire sulla propria formazione, da un lato, e l’espansione delle opportunità di valorizzazione delle loro competenze sul mercato del lavoro dall’altro, non possono che essere la precondizione per riattivare un circolo virtuoso che coniuga realizzazione individuale, benessere sociale e sviluppo economico. Non è solo la condizione dei giovani ad essere in gioco, ma il futuro del Paese.
Nel 2025, potremo dire “C’erano una volta i Neet”?
Dipende da noi. Da quanto oggi riusciamo a mettere le basi per un percorso che porti ad un futuro nel quale i giovani si possano sentire pienamente e attivamente cittadini di questo paese.