11/09/2019 | |
SECONDO WELFARE |
È ormai tristemente noto il dato sulla riduzione delle nascite nel nostro Paese. Secondo i dati Istat nel 2018 si è giunti ad una media di 1,32 figli per donna nel 2018, un numero che è in continua diminuzione dal 2008. Al 1° gennaio 2019 si stima che la popolazione ammonti a 60,4 milioni, oltre 400 mila residenti in meno rispetto al 1° gennaio 2015.
Siamo apparentemente di fronte ad un inesorabile destino di spopolamento del nostro territorio, in cui l’allargamento della parte di popolazione anziana porterà il già precario equilibrio sociale ed economico al collasso. Ma è davvero così?
Le sfide di una società più matura ma non per questo meno capace di generare innovazione
Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel volume “Il futuro non invecchia” – pubblicato alla fine dello scorso anno – propone un’analisi molto interessante sulla relazione tra l’andamento demografico e le sfide che ci pongono gli scenari che si stanno configurando.
Certamente per il nostro Paese la sfida è ardua e nei prossimi vent’anni avverrà uno dei cambiamenti più repentini e significativi nella sua struttura demografica (Rosina, 2018).
Questo scenario è causato da una parte dalle nuove abitudini riproduttive delle donne in età fertile, che tendono a ritardare il momento in cui diventare mamme (l’età media delle madri al primo figlio è ad oggi pari a 31 anni contro una media europea di 29), e dall’altra dal loro numero, praticamente dimezzato rispetto a quello generato dal periodo del baby boom (Istat, Rapporto annuale “La situazione del paese, anno 2017”) e definito come baby bust. In pratica, a partire dal 1976 si è iniziato a registrare un forte calo della natalità, fino a raggiungere nel 1995 il minimo storico di 1,19 figli per donna (Istat, “Natalità e fecondità della popolazione residente, anno 2016), che ha determinato la contestuale diminuzione anche delle donne in età fertile rispetto 45/50 anni fa.
Si tratta di numeri che fanno impressione ma, come ricorda Rosina, il fenomeno del calo demografico non è però esclusivo dell’Italia: dalla metà del XX secolo è sceso da 5 agli attuali 2,5 figli per donna e scenderà presumibilmente a 2 alla fine del nostro secolo. Raggiunto questo livello, l’elemento che continuerà ad incidere sull’invecchiamento demografico sarà dunque la longevità (rispetto alla quale si registra una crescita costante, complici anche i progressi della medicina) ma in modo molto più graduale.
Stiamo dunque attraversando una congiuntura storica dai risvolti incerti; abbiamo tra le mani però una serie di dati ed evidenze che ci potrebbero permettere di governare questa transizione, cogliendone addirittura possibili leve di innovazione.
Come spiega Rosina, “una società con persone sempre più longeve diventa anche più matura ma non necessariamente meno dinamica, meno innovativa meno produttiva, meno in grado di generare benessere”. Questa è la sfida da raccogliere sin da ora. Non è troppo tardi per mettere in campo iniziative che vadano in questa direzione, ma certamente l’esito di questa partita non è scontato. Quali sono dunque i gap da colmare affinché si possa andare verso il futuro portando con sè sviluppo e benessere? Ci sono diversi ambiti da prendere in considerazione, tra questi ne mettiamo in luce alcuni: opportunità per i giovani, la disparità di opportunità tra donne e uomini, il conflitto intergenerazionale, la ridotta mobilità sociale.
Le nuove generazioni: gap tra realtà e aspirazioni
Le ricerche condotte dall’Istat (La salute riproduttiva della donna, 2018) ci dicono che la composizione familiare desiderata dagli italiani è quella con due figli, numero decisamente lontano da quel 1,32 per donna citato in precedenza. A giocare un ruolo fondamentale in questo squilibrio tra aspirazione e realtà è la condizione di incertezza generata dalla contingenza economica che ha portato le coppie a ritardare la genitorialità, in attesa di situazioni di maggior stabilità.
Questo dato è la cartina al tornasole della situazione di incertezza che caratterizza le generazioni che sono entrate nell’età adulta a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso. La crisi finanziaria del 2008, e tutto quello che ne è conseguito, ha esasperato una dinamica, come spiegato anche in precedenza, già in atto da tempo. Come riporta Rosina, semplificando, “l’Italia dopo aver raggiunto estesi livelli di benessere per il ceto medio, anziché utilizzare il presente per scelte (collettive e individuali) di rilancio verso il futuro, lo ha piegato a scelte di conservazione del benessere passato”. Così, invece che generare nuove opportunità di crescita e benessere per le nuove generazioni, ha causato una situazione ben rappresentata da due indicatori che, con un andamento speculare, né casuale né causale, descrive quanto appena detto: l’aumento del debito pubblico e la decrescita della fecondità.