ITALIA, UN PAESE SENZA GIOVANI DOVE IL FUTURO NON C’È GIÀ PIÙ

10/02/2019
ITALIA, UN PAESE SENZA GIOVANI DOVE IL FUTURO NON C’È GIÀ PIÙ ECO DI BERGAMO

Quando parliamo di declino demografico, cosa intendiamo esattamente?

Ci sono due aspetti che vanno tenuti distinti. Da un lato c’è l’idea comune di declino demografico legato al fatto che la popolazione diminuisce nel suo complesso. Dall’altro, invece, che è l’aspetto più grave per quel che riguarda l’impatto sugli aspetti sociali ed economici, ci sono gli squilibri demografici, conseguenza del fatto che a fronte di una popolazione che invecchia si riduce anche la presenza quantitativa delle nuove generazioni. La denatalità fa infatti diminuire la popolazione dal basso, non proporzionalmente a tutte le età. Va a erodere le generazioni più giovani, e quindi non crea solo una diminuzione numerica, ma veri e propri squilibri socio-economici, e questi squilibri rischiano di diventare sempre meno sostenibili, perché la popolazione anziana è quella che tende prevalentemente ad assorbire risorse, mentre le nuove generazioni, in prospettiva, vanno ad alimentare la crescita di un territorio. L’asse portante di un Paese è infatti legato alla popolazione in età lavorativa, quella cioè in grado di produrre benessere e sviluppo”.

Va da sé che del problema ci si debba occupare seriamente.

Molto seriamente. Se è vero che questi squilibri portano, da un lato, all’aumento della spesa sociale – e quindi dei costi del sistema di welfare destinato a coprire in larga parte i bisogni della popolazione più anziana -, e, dall’altro, alla riduzione numerica di chi dovrebbe produrre la ricchezza necessaria alla crescita di un Paese, e dunque a sostenere il sistema di welfare, oggi – con la debolezza delle nostre politiche – stiamo di fatto depotenziando chi, nei prossimi anni, dovrebbe produrre la ricchezza necessaria a consentire al sistema sociale di essere sostenibile. In poche parole è un problema che ha ricadute per tutti”.

In sostanza non è un problema di numeri, ma di qualità dei numeri: mancano i giovani.

Esatto. A fronte del fatto che si vive più a lungo, e questo è un aspetto positivo, noi stiamo però erodendo – con la denatalità – la presenza quantitativa delle generazioni più giovani, molto più di quanto accada in altri Paesi europei, come la Francia o la Svezia”.

Il caso Francia appare emblematico …

La Francia è un esempio interessante perché, se confrontiamo i due Paesi, vediamo che il numero di anziani è simile, la longevità è sostanzialmente sugli stessi livelli, ma la Francia, come del resto ha sempre fatto, continua a fare politiche solide dal punto di vista familiare e di sostegno alle scelte di natalità. Di conseguenza la fecondità francese, negli ultimi decenni, si è sempre mantenuta attorno a quel livello di due figli per donna, che consente il ricambio generazionale: in media, cioè, una coppia di genitori viene sostituita da due figli. L’Italia, invece, proprio per la carenza di politiche familiari adeguate ha visto ridursi progressivamente la formazione di nuovi nuclei familiari e la natalità: ormai il numero di figli per ogni donna è sceso a 1,32 ed è il valore più basso in Europa. La differenza con la Francia è evidente: stesso numero di anziani, ma molti meno giovani. Quello che caratterizza e che distingue negativamente il nostro Paese è quindi l’accentuata e persistente denatalità. Un fenomeno già in atto dai decenni scorsi, ma ulteriormente accentuato dalla crisi economica degli ultimi anni. E quel che preoccupa maggiormente è che nonostante si sia usciti dalla fase acuta della crisi, non si veda alcuna ripresa nel numero delle nascite e della formazione di nuovi gruppi familiari, cosa che generalmente accade quando si esce dal tunnel di una recessione e si torna a riconsiderare più positivamente il proprio futuro. Resta dunque una forte incertezza che, legata anche alla carenza di politiche familiari, porterà ad un’ulteriore diminuzione della natalità”.

Siamo dunque di fronte a ciò che lei chiama “degiovanimento”: cosa si può fare per contrastarlo?

Degiovanimento è proprio il neologismo che fa capire come il punto di squilibrio della situazione italiana stia proprio lì. Uno sbilanciamento destinato a diventare problematico nel nostro percorso futuro, perché va ad alimentare nuovi squilibri che si trasformano in vincoli di sviluppo. L’aspetto positivo è che se confrontiamo il numero dei figli desiderato dalle nuove generazioni, lo dicono anche i dati dell’istituto Toniolo, non registriamo una differenza fra i giovani italiani e i coetanei europei, compresi i francesi: il numero dei figli desiderato anche dalle nuove generazioni del nostro Paese è attorno a 2, se non superiore. La questione è che dovremmo fare in modo che quei progetti di vita si realizzino.

Non sarà così facile…

Qui i nodi critici sono due. Il primo è la difficoltà dei giovani a conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine. La natalità può tornare a crescere solo se i giovani non sono assistiti nella condizione di figli o di inattività, ma a formare un nucleo familiare autonomo, ad entrare e ad essere inclusi e integrati nel mondo del lavoro. Servono adeguate politiche attive, politiche abitative, politiche di sostegno all’autonomia, che diano loro le basi, anche economiche, per costruire in modo intraprendente il proprio futuro. Tutto ciò avrà ricadute positive anche sulla natalità. Al contrario, la carenza di queste prospettive costringe molti giovani a non uscire dal guscio: non è un caso che abbiamo il tasso di neet (giovani che né studiano né lavorano) tra i più alti d’Europa. Se uno si trova nella condizione di neet difficilmente può pensare di formare una propria famiglia e di avere dei figli, ma è costretto a continuare a vivere dipendendo dai genitori, posticipando continuamente la possibilità di entrata solidamente nella vita adulta, e di prendersi le relative responsabilità e gli impegni conseguenti”.

Qual è invece il secondo punto critico?

L’altro punto critico, che frena anch’esso la formazione di nuovi nuclei familiari, è che quando si riesce comunque ad uscire dalla casa dei genitori, a sposarsi e ad avere il primo figlio, ci si scontra con l’impossibilità di conciliare lavoro e famiglia. Anche in questo caso siamo più carenti di altri Paese europei. Abbiamo poco potenziato tutti quegli strumenti e quei servizi, sia a livello di welfare pubblico che aziendale, penso in particolare alle aziende medio-piccole, che invece sbloccherebbero le scelte di vita oggi congelate. Dove tali strumenti sono presenti le coppie tendono a fare un figlio in più, mentre dove sono carenti sono portate a farne uno in meno rispetto ai propri desideri”.

Cosa è necessario fare allora?

E’ necessario fare un forte investimento perché le scelte familiari e quelle lavorative siano viste come un tutt’uno, ben integrate tra loro, e non in collisione l’una con l’altra. Serve un cambio di paradigma che porti a considerare le misure a favore della famiglia all’interno delle politiche dello sviluppo del paese. Diventa allora chiaro che ad entrambi i genitori va data la possibilità di lavorare realizzandosi pienamente anche dal punto di vista familiare. Garantire servizi che favoriscano tali scelte deve diventare una priorità di chi governa un Paese, altrimenti si rischia di adattarsi al ribasso: se ho un lavoro, rinuncio ai figli, e se ho un figlio rinuncio al lavoro, soprattutto sul versante femminile. E’ chiaro che trovarsi di fronte ad alternative di questo genere aumentano le rinunce a livello individuale e crescono gli squilibri demografici: meno lavoro femminile e meno figli porta ad un impoverimento del territorio e del suo futuro. Tutto questo, se era vero in passato, lo è ancor di più adesso. Ma se fino ad oggi abbiamo fatto poco sul fronte delle politiche di sostegno alle scelte familiari, ora la questione è ancor più grave e più accentuata, perché da un lato se chi ha congelato le proprie scelte negli anni acuti della crisi non riprende in mano il proprio futuro, rischia di rinunciarvi definitivamente, trascinando ancor più verso il basso la denatalità anziché contribuire a farla tornare per lo meno sui livelli pre-crisi”.

Vuole dire che siamo all’ultima chiamata per cercare di recuperare il gap?

Esattamente, anche perché la crisi ha prodotto una posticipazione nelle decisioni di creare un nuovo gruppo familiare che potrebbe rapidamente trasformarsi in rinuncia. Le donne che avevano 25 anni all’inizio della crisi, oggi ne hanno 35 e se non hanno ancora avuto figli i casi sono due: o diventano madri nel giro di pochissimi anni, oppure rinunciano per sempre. Inoltre, la denatalità che contraddistingue ormai da anni il nostro Paese, ha fatto sì che oggi le generazioni che hanno attorno ai 30 anni, quindi nel pieno della vita riproduttiva, siano meno che in passato, e saranno sempre meno perché si stanno affacciando alla vita adulta generazioni sempre meno consistenti dal punto di vista numerico. Se non corriamo al riparo, se non costruiamo politiche adeguate a realizzare davvero le aspettative dei giovani, i loro progetti di vita per la famiglia e per il lavoro, la denatalità crescerà ulteriormente, rischiando di trasformarsi in un circolo vizioso che trascina verso il basso le nascite, non solo perché la fecondità è bassa per la carenza di politiche familiari, ma perché diminuisce anche il numero delle potenziali madri”.

Quindi serve uno sforzo ancora maggiore che in passato

Esattamente. Il problema oggi è ancora più grave: se prima dovevamo fare 10, adesso dobbiamo fare 20, e se aspettiamo ancora dovremo fare 30, e per ottenere sempre lo stesso risultato. A parità di risultato, in sostanza, dovremmo investire molto di più perché stiamo depotenziando le persone che possono attivamente contribuire alla ripresa della natalità”.

Insomma, crescita demografica e sviluppo economico sono legati a doppio filo…

E’ evidente. Chi produce crescita e sviluppo economico sono soprattutto le nuove generazioni che entrano nella vita adulta. Se il loro ingresso nella vita adulta si riduce e se sono impossibilitati a realizzare i propri progetti di vita, è chiaro che la società e l’economia fanno fatica a crescere. E se l’economia non cresce, è evidente che si produce meno ricchezza, e se c’è meno ricchezza c’è anche meno benessere e più sfiducia, e le possibilità di mettere al mondo dei figli si assottigliano ulteriormente. Ma se si rinuncia ai figli, aumentano ulteriormente gli squilibri…. Si instaura, appunto, un circolo vizioso che rende sempre più squilibrato e povero il territorio. O si mettono in campo politiche adeguate per far sì che le nuove generazioni possano realizzare pienamente i propri progetti o il panorama demografico e sociale rischia di peggiorare”.

Ma è possibile ipotizzare un micro-scenario per una provincia come Bergamo?

La struttura demografica della provincia di Bergamo è preoccupante, come nel resto del Paese sostanzialmente. Il che vuol dire che l’impegno a migliorare è urgente, soprattutto se si va ad analizzare la struttura per classi d’età della provincia di Bergamo. Si nota che in passato c’è stata una riduzione delle nuove generazioni come conseguenza della denatalità: oggi ad esempio i 50enni sono tra le 18 e le 19.000 unità, mentre i 30enni sono tra gli 11 e i 12 mila. Le generazioni ancor più giovani sono già la metà dei 50enni di oggi, di chi ora è al centro della vita adulta: pensiamo agli squilibri che questo potrà produrre quando saranno loro al centro della vita lavorativa e gli attuali cinquantenni saranno in pensione. Diventerà tutto assai complicato. Aggiungo un altro dato su cui riflettere: oggi nella provincia di Bergamo ci sono più 70enni che nuovi nati…”.

Non così invece per Bergamo città, i cui dati sembrerebbero in controtendenza.

La città di Bergamo è un caso interessante. Ha subito una denatalità accentuata nel passato, tanto che anche qui i bambini di dieci anni sono circa la metà dei cinquantenni. Ci sono però recenti segnali di controtendenza. E’ una delle realtà italiane che nel 2018 in modo più chiaro hanno mostrato un recupero effettivo post-crisi delle nascite, assente invece nel resto della regione ma anche in altre città attrattive come Milano. Questo segnale positivo va ulteriormente incoraggiato e rafforzato perché non sia solo una fiammata occasionale ma diventi l’inizio di una vera e propria fase di rialzo della natalità. I prossimi anni ce lo potranno confermare.

Visto che non ci stiamo attrezzando per essere un Paese per giovani, ci stiamo almeno attrezzando per essere un Paese per vecchi, o nemmeno quello?

Se non si è un Paese per giovani, si diventa per forza di cose un Paese che è anche sempre meno per vecchi. Senza giovani, chi produce le risorse che consentono a chi è anziano di poter vivere la propria condizione serenamente?”.

E per i servizi alla terza e quarta età, almeno per quelli, ci stiamo attrezzando?

Nemmeno per quello. Attualmente, in Italia, soprattutto chi non è più in grado di svolgere le proprie attività pienamente ed è in condizioni di non autosufficienza, trova aiuto non nei servizi, che sono carenti, ma dal welfare fai da te, cioè dalle badanti, oppure dalle reti familiari, quindi grazie al fatto di avere avuto dei figli e dei nipoti. Ma se si riduce il numero dei figli, si riduce anche il numero dei nipoti e le risorse necessarie per pagare i servizi agli anziani. Anche l’età anziana rischia dunque di diventare sempre più fosca, quando sarebbe invece il momento di vivere in tranquillità gli anni che restano. Deve essere messo in piedi tutto un sistema che consenta ai protagonisti di vivere in pienezza le diverse fasi della vita, ma questo sistema deve essere sostenibile e per reggere esiste una condizione sola: mettere le nuove generazioni nelle condizioni di rivestire appieno il proprio ruolo”.

E’ così vero che la sovrappopolazione della Terra, nei prossimi decenni, è quella che ci procurerà il maggior numero di problemi, oppure è solo una paura che viene fatta circolare per altri scopi?

La fase di maggior crescita della popolazione mondiale la si è avuta nel secolo scorso, il ventesimo. In questo secolo, invece, la popolazione continuerà a crescere, ma solo in alcune aree del mondo. Crescerà di meno rispetto al secolo precedente, crescerà in parte in Asia, ma soprattutto in Africa. Sicuramente non crescerà in Europa, dove è stagnante, sicuramente non crescerà Italia, dove tende ad essere in diminuzione nonostante l’immigrazione, il cui contributo alla natalità è peraltro anch’esso in diminuzione a causa anche del clima ostile verso gli immigrati che rende più difficile l’integrazione. Ci sono dunque due aspetti da gestire correttamente: il primo è legato al processo di crescita della popolazione africana, che va governato assieme a solide politiche di sviluppo che portano a investire più sulla qualità che sulla quantità dei figli. Il secondo alla capacità di amministrare saggiamente l’invecchiamento della popolazione. Su questo fronte, l’Europa avrà seri problemi. In tutto il Vecchio Continente la denatalità porterà pesanti squilibri strutturali: costi sociali altissimi per dare servizi alla popolazione anziani, pochissimi giovani in grado di produrre la ricchezza necessaria per consentire al sistema di reggere. Per contro, l’Africa avrà un problema “inverso”, cioè tanti giovani ma “dentro” una crescita esuberante che rischierà di essere eccessiva rispetto alle reali possibilità di produrre una vera crescita economica nel proprio territorio.

Due problemi che vanno tenuti distinti, anche se ovviamente finiscono con l’essere connessi, perché l’immigrazione collega aree da cui la popolazione è in uscita con aree che attirano popolazione perché più ricche o comunque bisognose di manodopera dall’estero perché internamente è sempre più scarsa soprattutto in alcuni settori. In estrema sintesi, dunque, quel che bisognerebbe fare è trovare, pur in un mondo aperto e fluido, un maggior equilibrio interno tra i Paesi più ricchi, come l’Italia o comunque quelli europei, dove far ricrescere la natalità, e quelli più poveri, a partire da quelli dell’Africa, dove ridurre la pressione demografica per favorire lo sviluppo locale”.