21/02/2019 | |
LA VITA DEL POPOLO |
La fotografia dell’Italia scattata dall’Istat nei giorni scorsi con gli “Indicatori demografici 2018” rivela una nuova diminuzione delle nascite, un nuovo minimo dopo il già “deprimente” 2017: appena 449mila nuovi nati, novemila in meno rispetto all’anno precedente, con una perdita complessiva di popolazione di oltre 90mila unità. La demografia italiana rimane “sdraiata sul fondo”, come un sottomarino che sembra aver perso la spinta per ritornare a emergere – oltre alle scarse nascite, anche l’immigrazione è modesta – restando appoggiato sul fondale: è la significativa immagine che hanno usato nei giorni scorsi gli esperti di “Neodemos”, una rivista online di osservazione e analisi dei fenomeni sociali, economici e politici a partire dai cambiamenti demografici. Tra i fondatori c’è Alessandro Rosina, docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano, e autore del testo “Il futuro non invecchia” (Vita e Pensiero, 2018), al quale abbiamo chiesto di aiutarci a “leggere” la situazione italiana.
Professore, è una recessione (demografica) nella recessione (economica) quella che stiamo vivendo, visto anche il tasso di invecchiamento?
I dati ci dicono che siamo in una recessione demografica che si sta cronicizzando, con conseguenze di medio e lungo periodo peggiori di quella economica. Una delle contestazioni più comuni rivolte a chi si preoccupa della bassa natalità è che se diminuiamo, in un mondo che invece cresce, non sia così grave. Questa obiezione ha alla base elementi condivisibili ma contiene anche un errore cruciale. La diminuzione delle nascite non fa diminuire una popolazione in modo proporzionale a tutte le età, la erode dal basso: gli anziani rimangono, mentre si riduce la consistenza delle nuove generazioni. Aumenta quindi il peso della popolazione più vecchia, producendo così squilibri generazionali che più si allargano e più costituiscono un freno alla crescita economica e alla sostenibilità del sistema sociale. Gli squilibri della popolazione italiana sono arrivati a livello tale che siamo il primo Paese in Europa che ha visto scendere i nuovi nati sotto il numero degli attuali ottantenni.
Quali fattori incidono maggiormente a suo avviso sulla natalità? Perché non si torna a fare figli?
I nodi principali sono due. Il primo è quello dei fattori che portano a un continuo posticipo della creazione di una relazione stabile di coppia e della nascita del primo figlio. Quello che ai giovani italiani manca è la possibilità di passare dal sostegno passivo da parte dei genitori a un investimento pubblico in strumenti di attivazione e abilitazione, che consenta a essi di diventare parte attiva e qualificata nei processi di sviluppo del Paese. E’ la trasformazione dei giovani da condizione passiva ad attiva a fare la differenza, non tanto il passaggio dal carico sui genitori all’assistenza dello Stato. Il secondo nodo frena, invece, la progressione oltre il primo figlio. Se con la nascita del primogenito ci si trova in difficoltà ad armonizzare impegno esterno lavorativo e interno alla famiglia, difficilmente si rilancia con la nascita di un secondo. Nei Paesi sviluppati con una fecondità superiore alla nostra, non troviamo un numero desiderato di figli più basso nelle donne italiane, ma una maggiore copertura e accesso dei servizi per l’infanzia e più collaborazione domestica dei padri. Anche nel confronto tra regioni italiane si osserva che, dove più efficienti sono gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia, chi ha un lavoro sceglie maggiormente di avere un figlio e chi ha un figlio maggiormente si offre nel mercato del lavoro. Più che in altri Paesi le donne italiane si trovano, quindi, schiacciate in difesa, indotte a vedere al ribasso il numero di figli anziché allineare al rialzo l’occupazione femminile.
Quali sono i costi sociali di una questione demografica seria come la nostra, non affrontata alla radice?
Sciogliere questi nodi con politiche adeguate dovrebbe essere la priorità non solo per la denatalità ma anche per ridurre le diseguaglianze e per una più solida crescita del Paese. Promuovendo l’autonomia dei giovani e rafforzando gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia si mettono i cittadini nelle condizioni di realizzare meglio i propri obiettivi di vita, e le famiglie con figli di proteggersi dal rischio povertà. A livello collettivo si riducono gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, si rafforza la crescita economica aumentando la platea (per la maggiore natalità, ma anche per la combinazione al rialzo, con occupazione femminile e giovanile) di chi è attivo e produce ricchezza nel Paese.
A sostenere la popolazione e a “ringiovanirla” servirebbero anche gli arrivi di persone immigrate e giovani. Ma questa è una strada sempre più problematica per l’Italia… Ci sono Paesi che hanno fatto una scelta diversa con buoni risultati?
Non ci sono ricette semplici sul fenomeno dell’immigrazione. Nessun Paese presenta un modello senza limiti e contraddizioni, ma l’Italia sembra concentrare il peggio della gestione politica del fenomeno e della capacità culturale di interpretarlo. Eppure, proprio per i nostri squilibri demografici, più di altri avremmo bisogno di una immigrazione ben gestita e regolata, in grado di combinare effettiva integrazione con la valorizzazione del contributo economico e sociale che ciascuno può dare, con capacità e competenza più che con vincoli di provenienza, in tutte le fasi della vita.
Dal suo osservatorio particolare all’Istituto Toniolo lei può constatare che i nostri giovani scelgono di scommettere sempre di più il loro futuro all’estero. Che cosa trovano che qui non c’è?
A ben vedere, i ragazzi delle nuove generazioni non partono per fuggire da qualcosa ma per andare incontro all’idea di sé che desiderano realizzare. Questa loro ricerca parte sempre dal luogo in cui nascono, ma spazia oggi sempre più su tutto il globo. Il tema vero è che nel mondo in cui accadono le cose che i giovani cercano, e che essi stessi vogliono contribuire a far accadere, l’Italia rischia di diventare sempre più marginale. Se l’alternativa è tra rimanere in Italia rivedendo le proprie ambizioni al ribasso e andare all’estero, saranno sempre più quelli che opteranno per la exit strategy.
Che cosa servirebbe al “sottomarino” demografico italiano “sdraiato sul fondo” per riemergere?
Quello che soprattutto serve all’Italia, più che togliere o aggiungere bonus e singole misure, è un approccio diverso, un cambio di paradigma sul modo in cui sono intese le politiche per le nuove generazioni e le scelte familiari. Con la capacità di produrre un impatto trasformativo sulla vita delle persone e sulle varie dimensioni del benessere sociale. Questo significa far diventare le politiche familiari parte centrale delle politiche di sviluppo del Paese.